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Autostrade: l’incompiuta

Il paradosso italiano della vicenda della società Autostrade è che francamente non è ancora chiaro come si svolgerà l’operazione varata nella notte dal governo Conte e che tanto entusiasmo ha suscitato tra i sostenitori della maggioranza.  Più che ad una operazione finanziaria, economica e politica siamo di fronte ad una semplice dichiarazione di intenti. Gli obiettivi dichiarati sono sostanzialmente riconducibili all’esclusione della famiglia Benetton dalla gestione della rete di Autostrade ed ancora oggi rappresenta un semplice desiderio e comunque precedente a qualsiasi sentenza di un tribunale.

In questo senso la credibilità italiana, che dovrebbe attirare investimenti dall’estero, subirà un effetto disastroso in quanto questa tragica vicenda, ancor prima della vicenda giudiziaria, dimostra come in Italia un governo possa annullare i contenuti di un contratto invece di portarlo alla normale conclusione o, al limite, ringraziarne i contenuti con un accordo tra le parti.

Le ipotesi quindi “della rivoluzione autostradale” non sono più relative ad una revoca della concessione, che rappresentava l’obiettivo del governo, ma alla diluizione della quota della famiglia Benetton al 10% in Aspi. Un obiettivo dichiarato dal governo Conte e dei suoi ministri ma ancora non chiaro nelle modalità di attuazione.

Comunque sia le vie maestre rimangono due per ridurre in minoranza il principale azionista attuale. La prima si può ottenere attraverso una cessione di quote di Aspi dei Benetton a Cassa depositi e prestiti ad un valore che ancora oggi non è stato stabilito che, presumibilmente, potrebbe quasi certamente prevedere l’impiego di qualche miliardo. La seconda mediante un aumento di capitale con l’obiettivo di diluire la quota dell’80% ora in mano alla famiglia di Ponzano Veneto.

Nel primo caso Benetton, di fatto, otterrebbe un indennizzo probabilmente inferiore ai 23 miliardi stabiliti nel contratto (del cui contenuto nessuno oggi sembra risponderne) ma comunque pari alla valutazione delle quote oggetto di cessione di Aspi.

Nel secondo la riduzione in quota minoritaria per Benetton sarebbe ancora comunque interamente a spese dello Stato attraverso un aumento di capitale, ed il danno economico per l’azionista Benetton verrebbe rappresentato dalla diluizione della propria quota azionaria. In questo caso, inoltre, si ipotizza l’interessamento, e probabilmente, l’ingresso del fondo americano Blackrock che potrebbe sottoscrivere l’aumento di capitale finalizzato alla messa in minoranza dei Benetton. Un ingresso che nelle aspettative del governo, e di un suo qualche ministro, assumerebbe i connotati del cavaliere bianco che opera pro bono, nel senso che dovrebbe dimostrarsi anche disposto a rinunciare alla remunerazione del capitale per due anni oltre ad accollarsi una quota dei debiti. Una tipologia di operazione finanziaria impossibile da realizzare per un fondo privato il quale ricerca remunerazione del capitale a meno che non si possa assicurare all’investitore successivamente ai due anni un Roe assolutamente superiore anche a quello scandaloso assicurato dai governi D’Alema e Berlusconi all’ Aspi. In entrambi i casi la situazione, tuttavia, appare paradossale.

Cassa depositi e prestiti sostanzialmente opera con risparmi postali dei cittadini italiani. Lo Stato, sia nel caso nella prima che della seconda opzione, utilizza parte di questi risparmi per acquistare una società che trova la propria ragione d’essere in una concessione pubblica. Lo Stato quindi, in questa occasione, si trova ad essere concessionante e concessionario, in più, per il secondo ruolo di concessionario, deve pure procedere all’esborso di risorse pubbliche di CdP per acquisire quote di una società gravata di pure di debito.

Nella infantile visione finanziaria, poi, si aggiunge la figura dei fondi privati i quali sottoscriverebbero quote della società di gestione di Autostrade attraverso aumenti di capitale e successivamente quotata probabilmente in borsa (“ma non soggetta alle sue regole”, come affermato da tale Di Maio).

Una situazione così complessa la cui responsabilità non può essere attribuita al solo governo Conte ma all’intera classe politica degli ultimi vent’anni la quale ha adottato il modello argentino della cessione di monopoli pubblici per renderli privati. Va ricordato infatti come solo in Italia la classe governativa di fine millennio abbia provveduto a vendere i monopoli prima di avviare delle reali politiche di liberalizzazioni (https://www.ilpattosociale.it/attualita/il-modello-argentino-da-un-monopolio-pubblico-ad-uno-privato/).

Ora con questa operazione sostanzialmente priva di basi finanziarie ed economiche si torna al punto di partenza, nel 1998, creando dei nuovi monopoli statali, magari partecipati da Fondi privati (il cui volume d’affari risulta quattro volte il Pil italiano) che acquisiranno anche attraverso questa operazione un potere invasivo il quale inevitabilmente si tradurrà in maggiori oneri per i consumatori.

Mai come oggi risulta tristemente evidente come il termine ‘liberalizzazioni’ sia stato utilizzato a sproposito dall’intera classe politica con l’unico fine di gestire la distribuzione dei monopoli pubblici ai privati non avendo operato precedentemente alcuna politica di reale liberalizzazione.

Si torna così allo Stato imprenditore che nei decenni passati ha ampiamente dimostrato di essere incapace di gestire nell’interesse pubblico un servizio, esattamente come il settore privato il quale, nel caso specifico, attraverso la riduzione del 50% delle spese di manutenzione dell’ultimo decennio, ha viceversa dimostrato di non essere in grado gestire la propria “bulimia da dividendi”. La sintesi evidente di un declino culturale inarrestabile.

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