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Il tentativo speculativo di Volkswagen

Volkswagen, la seconda casa automobilistica al mondo dopo Toyota, fu la prima ad approvare ed addirittura sostenere la deriva ambientalista dell’Unione Europea, la quale, con la prima presidenza della Commissione europea di Ursula von der Leyen impose lo stop nella UE alle auto termiche dal 2035.

Una posizione non condivisa, invece, proprio da quella Toyota che per prima aveva investito nella movimentazione elettrica (la Prius è del 2011) e che quindi considerava assolutamente utopistica la politica massimalista partorita in Europa verso una completa adozione dei motori elettrici.

Il calcolo espressamente speculativo adottato dal consiglio di amministrazione della casa di Wolfsburg era rappresentato dalla banale ma assolutamente speculativa considerazione che, semplicemente appoggiando la politica europea dei trasporti con i tutti i suoi vincoli ambientalisti, si potessero creare le condizioni per la nascita di un nuovo mercato.

In altre parole, l’intera dirigenza della Volkswagen era “confidente” di avere di fronte a sé decenni di lavoro assicurato attraverso la imposizione di una transizione elettrica dell’intero parco circolante europeo composto da circa 300 milioni di vetture.

Il mercato, cioè l’intero sistema di consumatori, invece ha dimostrato come la politica ambientalista europea non rappresenti in nessun caso il “sentiment” dell’utenza, ma soprattutto emerge evidente come non esistano le condizioni per una scelta ancora molto incerta non solo per i “benefici” ambientali ma anche in ragione della sostenibilità economica verso una movimentazione elettrica.

Di conseguenza risulta chiaro come la dirigenza di Volkswagen abbia adottato non tanto una strategia economica e di prodotto finalizzata al massimo rendimento degli stabilimenti già in essere ed assicurare tanto l’occupazione che il rendimento degli investimenti, si è preferito adottare una speculazione di natura industriale ma di conio assolutamente ideologico, auspicando così che questa determinasse l’esplosione di una domanda inesistente, allora come oggi, relativa alle automobili elettriche.

Il fatto, poi, che ora quella stessa dirigenza proponga di chiudere uno o più stabilimenti in Germania in conseguenza della scarsa redditività negli impianti stessi, anche perché a differenza di BMW e Mercedes i volumi da confermare anno per anno sono vicino ai dieci (10) milioni di autovetture vendute, rappresenta il sigillo di garanzia di un approccio a quel mercato espressione dell’adozione  di una  speculazione industriale alimentata da una deriva ideologica ambientalista proposta dalla Ue e priva di qualsiasi sostegno e contenuto reale.

Risulta chiaro, quindi, come la politica assieme all’ideologia facciano il loro ingresso all’interno dei consigli di amministrazione, i quali dovrebbero garantire il perfetto funzionamento di una macchina complessa come quella di un’industria in competizione nel mercato globale. Questi assicurano solo un disastro strategico ed operativo colossale, confermato nel settore finanziario dall’abbandono da parte di Black Rock di buona parte di quei titoli di “investimento” legati al mondo ambientalista (ESG). Persino lo stabilimento Audi di Bruxelles, creato espressamente per la produzione alto di gamma di auto elettriche, risulta ora a rischio chiusura, dimostrando come anche nella fascia “premium” non esista alcuna traccia di una domanda, anche se sostenuta dalle agevolazioni fiscali.

La pericolosa crisi della casa tedesca, che coinvolge anche l’intero settore della componentistica Automotive italiana, dimostra, ancora una volta, come la domanda di un bene o servizio non si possa creare attraverso interventi di natura politica, fiscale o peggio ideologica e tantomeno si possano creare le condizioni per la creazione un nuovo mercato attraverso degli atti istituzionali di manifesta natura politica.

Un principio talmente chiaro e limpido che però evidentemente in Volkswagen non hanno mai capito, esattamente come all’interno della Commissione europea.

 

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