La spesa pubblica ed il “capitalismo” relazionale
Da decenni l’Italia viene criticata in ragione di un capitalismo familiare ormai superato, in contrapposizione ad una versione internazionale più manageriale, all’interno della quale le famiglie rappresentano la proprietà ma non più il braccio operativo.
L’impresa contemporanea, e soprattutto l’industria attuale, propongono i propri prodotti e servizi all’interno di mercato globale, avvalendosi di un network di subfornitori, i quali entrano nella filiera consolidata fino a diventare partner esclusivi e talvolta ad avviare un vero e proprio processo di insourcing (*).
Questo cambiamento organizzativo offre alle industrie la possibilità di competere contemporaneamente in tutti i mercati mondiali, caratterizzati da stagioni completamente diverse e quindi gestibili solo attraverso filiere produttive sempre più corte.
Esiste, poi, il capitalismo relazionale, i cui attori principali sono rappresentati da personalità “imprenditoriali” che fanno capo ad interessi finanziari, assieme ad un mondo della politica il quale si trova a gestire la spesa pubblica con la consapevolezza di non doverne mai rendere conto, se non nei casi estremi, alla magistratura.
Questa forma di capitalismo, la cui stessa natura e forza viene determinata dalla presenza di risorse finanziarie gestite dalla politica e frutto dei prelievo fiscale, rappresenta la peggiore versione di un capitalismo speculativo.
Questo, infatti, avvalendosi di una catena di subappalti e cooperative molto spesso non determina alcuna ricaduta occupazionale stabile (il parametro fondamentale per valutare la validità di una strategia economica) a fronte di investimenti pubblici notevoli.
Da questa semplice analisi emerge evidente come l’aumento della spesa pubblica negli ultimi trent’anni abbia tradito le proprie istituzionali funzioni e tanto più in quell’effetto redistributivo, su cui ancora oggi buona parte del mondo accademico e politico fanno affidamento.
In altre parole, la spesa pubblica italiana (1.129 miliardi oltre il 57% del PIL) rappresenta semplicemente la prima forma di potere italiano, la seconda è rappresentata dalla gestione del credito (novembre 2018, https://www.ilpattosociale.it/attualita/la-vera-diarchia/) la quale, trovandosi ora all’interno di un mercato globale, offre a chi ne usufruisca di utilizzare ogni leva della disperazione umana (come già detto subappalti e cooperative) con l’unico obiettivo di abbassare i costi e aumentare i profitti, anche grazie a strumenti normativi forniti dai committenti stessi, cioè dalla classe politica.
Puntare, quindi, ancora oggi sulla centralità della spesa pubblica come motore economico e sui suoi effetti redistributivi rappresenta l’errore fondamentale comune al mondo politico ed accademico, come dimostra la perdita di potere d’acquisto negli ultimi trent’anni dei cittadini italiani a fronte di una esplosione della spesa pubblica, del debito e della pressione fiscale.
La stessa vicenda relativa all’utilizzo dei fondi PNRR si è rivelata sostanzialmente una serie di finanziamenti a pioggia dei più disparati progetti proposti da irresponsabili enti locali e lontano dalle ragioni istitutive per le quali i fondi avrebbero dovuto finanziare opere finalizzate all’aumento della competitività del sistema paese.
Del resto, come anticipato, lo stesso andamento del reddito disponibile per i cittadini italiani che si è ridotto negli ultimi trent’anni del – 2,7%, mentre in Germania è cresciuto di oltre il +34% ed in Francia del +27%, dimostra la sostanziale “inutilità retributiva” della della spesa pubblica e di ogni sua crescita.
Un andamento confermato dagli ultimi dati relativi alle retribuzioni in Europa dal 2019 ad oggi che ha visto, a fronte di una diminuzione europea del -3% dei redditi disponibili, svettare l’italia con un -8% .
Dati incontrovertibili che rappresentano la conferma della sostanziale indifferenza economica di tale capitalismo relazionale il quale trova l’humus per la sua sopravvivenza nella presenza di una spesa pubblica assolutamente smisurata rispetto alle competenze di chi dovrebbe gestirla.
(*) un processo avviato anni fa nel settore dell’alta orologeria Svizzera e che ha qualche evidenza anche in quello della occhialeria bellunese, i quali prediligono l’ottimizzazione dei tempi di produzione alla scelta strategica tra costi fissi e variabili.