Attualità

Le disuguaglianze fiscali

E’ un assioma che “favorire una categoria di persone o classi economiche attraverso specifiche atti di politiche economiche e fiscali determini conseguentemente una penalizzazione per altre categorie escluse: e magari degne della medesima attenzione e sostegno”. Tale concetto è ancora più calzante se valutato all’interno del complesso ed ormai insostenibile sistema fiscale italiano. In questo senso infatti si rileva come siano centocinquantatré (153) le categorie di contribuenti favorite o tenute nella debita “considerazione”, quindi fruitrici di posizioni fiscali “privilegiate” ma sicuramente “finalizzate al loro sostegno” come sempre dichiarato dai governi ma soprattutto dalle rispettive maggioranze parlamentari a giustificazione delle proprie scelte. Si pensi come la famiglia, base della nostra società, spesso abbia ottenuto un trattamento fiscale di favore finalizzato al proprio sostegno, penalizzando, però, le famiglie “single” che per esempio a Milano rappresentano circa il 50% dei cittadini. Quindi, partendo anche da un proposito corretto e condivisibile (nessuno certo contesta la centralità della famiglia) si penalizzano tutti gli altri cittadini che non rientrano in questa categoria favorita dalla  politica fiscale. Le ragioni, o meglio, troppo spesso gli interessi che spingono tutte le diverse compagini governative a tali “eccezioni” normative  nel complesso sistema fiscale italiano risultano spesso di ordine appunto elettorale al fine di assicurarsi il consenso di una specifica categoria di contribuenti, come l’Iva ridotta per l’ecoturismo o sulla birra e gli ottanta euro etc.

Il ritorno ad una tassazione maggiormente equa ma soprattutto senza privilegi o favoritismi risulta assolutamente auspicabile con la solo eccezione delle categorie economiche in ambito della elaborazione di una complessa ed articolata strategia economica (reshoring produttivo da incentivare con una fiscalità facilitata se non proprio di vantaggio, per esempio).Viceversa il sistema andrebbe complessivamente cambiato e finalizzato da una rimodulazione del complesso fiscale nazionale e locale.

In tal senso allora ecco che una riduzione delle cinque aliquote fiscali Irpef per fasce di reddito e soprattutto della loro progressività (all’interno di un arco temporale  sostenibile con i nostri  vincoli di bilancio e di debito pubblico) rappresenterebbe l’unica direzione corretta. Comunque opposta a quella suggerita dal  nuovo segretario del Pd il quale invece appoggia una crescita delle stesse aliquote e della loro progressività per porre le basi di uno sviluppo “sostenibile”. Ancor più, poi, tenendo  in considerazione il progressivo peggioramento della finanza pubblica (6 miliardi di nuovo debito al mese!) aggravato nell’ultimo periodo dall’introduzione del reddito di cittadinanza e di quota cento per altro a debito la cui responsabilità risulta attribuibile all’attuale maggioranza di Governo.

Viceversa la riproposizione della flat tax paradossalmente (tassa piatta e quindi sulla carta non soggetta a privilegiare alcuna specifica categoria economica) intesa anche come fattore di sviluppo economico dimostra come la politica nel suo complesso ed ancor più gli ispiratori di questa nuova fiscalità non abbiano compreso le dinamiche economico fiscali complessive.

La flat tax con una aliquota proposta tra un 17 ed un 25% di fatto esclude dai vantaggi fiscali reali ed economicamente rilevanti considerato il reddito medio di 20.940 euro buona parte dei contribuenti. Va ricordato infatti come oltre il 75% dei contribuenti grazie alle deduzioni fiscali ora paghi una aliquota inferiore al 15%.

Quindi di fatto non si porrebbero neppure le condizioni per un incremento dei consumi volano della ripresa economica come sostenuto in modo infantile dai sostenitori della flat tax, figuriamoci se modulata in due aliquote che trasformerebbe tutta la “dottrina fiscale” in una nuova “dual tax”.

A dimostrazione, infatti, della mancanza di conoscenza della realtà economica degli ispiratori di tale politica, anche a fronte di una maggiore liquidità legata ad un minore prelievo fiscale, si tradurrebbe in un aumento dei deposito bancari come dimostrano i dati pubblicati dai maggiori istituti bancari e relativi agli  ultimi dieci anni (https://www.ilpattosociale.it/2018/12/03/la-crescita-dei-depositi-bancari-in-dieci-anni-75/). Giungendo, cosi, attraverso questa semplicistica pseudo riforma fiscale al paradosso di accrescere le riserve degli istituti bancari ma non  di favorire i consumi (i quali possono crescere SOLO all’interno  di  una percezione di fiducia e non certo per una maggiore liquidità disponibile) e contemporaneamente determinerebbe tale politica fiscale a condurre la finanza pubblica ad un punto di non ritorno in considerazione dei circa sessanta miliardi di minori entrate fiscali.

Quindi la flat tax, nella propria applicazione, sfavorirebbe la grande maggioranza dei contribuenti italiani  per favorire i percettori di redditi superiori ai 28.001 euro, riproponendo l’assioma proposto all’inizio con l’effetto paradossale che uno strumento (flat tax) di cui ne dovrebbero beneficiare tutti i contribuenti si possa trasformare in un fattore di vantaggio per pochi. Quindi perfettamente in sintonia con la disuguaglianza fiscale del nostro sistema. Anche questa incapacità di comprendere la relazione causa effetto di una politica fiscale espressione della parzialità dell’intera classe politica degli ultimi trent’anni, certificata dalle centocinquantratré (153) categorie privilegiate dagli altri governi, è espressione di un declino culturale ormai definibile come un vero e proprio default.

 

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