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Le riserve autoctone dell’Italia per ridurre la dipendenza dalla Cina per le materie prime

Le materie prime strategiche – in inglese Critical Raw Materials (CRMs) – sono ormai parte del dibattito pubblico che investe i temi dell’indipendenza tecnologica e strategica ma anche della transizione energetica e digitale. Se ne parla diffusamente dal 2011, quando la Commissione europea pubblicò la prima lista che ne elencava 14. Queste materie sono infatti di estrema rilevanza per molteplici ecosistemi industriali: l’industria ad alta intensità energetica, le tecnologie chiave per la politica energetica, economica, industriale, digitale, per la difesa e l’aerospazio. Per questo motivo il ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso ha tracciato la strategia del governo che contempla, tra le altre cose, la riaperture delle miniere italiane di terre rare abbandonate nei decenni scorsi per esaurimento o perché non più convenienti rispetto ai costi di importazione. Capire cosa si può trovare nel territorio nazionale non è cosa semplice perché la presenza di un giacimento, cioè di un quantitativo di minerali tale da poter essere sfruttato, è da valutare tramite nuove ricerche ed analisi. L’ultimo aggiornamento della lista della Commissione elenca 34 CRMs di cui fanno parte le Terre Rare, utilizzate nei principali settori industriali, quali l’eolico, la robotica, l’Ict ma anche nella costruzione di droni, motori a trazione, pannelli fotovoltaici e celle a combustibile. Il problema? Semplice: sono materiali rari e a volte di difficile estrazione (con effetti collaterali dal punto di vista ambientale), per i quali dipendiamo dal nostro competitore più temibile, la Cina. Pechino è il principale fornitore europeo per il 56 per cento delle materie prime critiche, con implicazioni rilevanti per i target energetici al 2030. Se ad esempio interrompesse la fornitura di terre rare all’Europa, da qui al 2030 sarebbero a rischio 241 GW di eolico (47 per cento del totale) e 33,8 milioni di veicoli elettrici (66 per cento del totale), rendendo impossibile il raggiungimento degli obiettivi legati alle linee guida europee. Inoltre la Cina ha investito in giacimenti minerari in Paesi terzi (oltre 80 miliardi di euro dal 2005 al 2021) e in capacità di raffinazione.

In Italia il fabbisogno di materie prime strategiche per la produzione delle tecnologie chiave è stato di circa 2.782 tonnellate nel 2020. Inoltre, noi utilizziamo 17 delle materie prime critiche considerate come strategiche dall’Unione Europea. Circa il 44% del fabbisogno italiano di materie prime strategiche nel 2020 è rappresentato dal rame, utilizzato in maniera significativa in ognuna delle tecnologie chiave. E nel futuro la nostra domanda salirà in modo esponenziale: di cinque volte in uno scenario spinto, di 2,7 volte in quello a bassa intensità. Ovviamente il Paese è sprovvisto di queste risorse. Secondo gli ultimi dati dell’Ispra, Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, “per i CRMs metallici l’Italia è totalmente dipendente dai mercati esteri, ma diversi di loro sono stati sfruttati in passato sul territorio nazionale in circa 1000 siti localizzati nell’arco alpino ed in Liguria, nella fascia costiera tirrenica tosco-campana, in Calabria ed in Sardegna”. Nonostante le concessioni vigenti, a fronte di sole 94 concessioni minerarie ancora in vigore, 76 sono realmente in produzione soprattutto in Toscana, Piemonte e Sardegna mentre è nulla l’estrazione di materie prime critiche. Delle 17 le materie prime critiche definite strategiche dalla Commissione Ue, nel nostro Paese sono presenti rame, magnesio, manganese, tungsteno, cobalto e titanio. Per lo più le regioni dell’arco alpino, la Toscana, il Veneto, la Liguria e la Sardegna. Inoltre, il litio, preziosissimo per la riconversione energetica (batterie), si troverebbe in aree vulcaniche come il Lago di Bracciano nel Lazio e i Campi Flegrei in Campania. Una situazione che ha spinto il governo ad attivare a febbraio il Tavolo nazionale per le materie critiche, promosso dal ministero delle Imprese e del Made in Italy e dal ministero dell’Ambiente e della Sicurezza energetica. Il problema è che la ripresa dell’attività estrattiva in Europa prevede tempi autorizzativi molto lunghi. E nel confronto con i nostri competitori non c’è partita. Il tempo necessario per passare dalla scoperta di un nuovo sito minerario all’estrazione vera e propria raggiunge i 15/17 anni, contro i tre mesi della Cina. Per rimettere in funzione i siti estrattivi in Europa occorrono tempi lunghi, in quanto sono necessarie valutazioni economiche e ambientali che possono essere soggette a sospensione o revoca per motivi di interesse pubblico. Per fare un esempio, a Sakatti, in Finlandia, nel febbraio 2018 è stato richiesto un permesso di estrazione dei metalli del gruppo del platino; ad oggi la decisione è ancora pendente e sono già stati accumulati quattro anni di ritardo.

Accanto alla ripresa delle estrazioni un’altra risorsa sulla quale puntare è quella dell’economia circolare e del riciclo, con la filiera dei Raee – i rifiuti elettrici ed elettronici – che è quella con maggiori opportunità. A fronte dell’incremento dei fabbisogni di materie prime strategiche, lo studio di The European House–Ambrosetti ha identificato e approfondito tre leve per ridurre la dipendenza dell’Italia da Paesi terzi: la prima è ridurre il consumo e sostituire le materie prime strategiche, certamente una strada percorribile nel medio-lungo termine, considerando però che l’innovazione tecnologica non può comunque essere “programmata”; aumentare le estrazioni minerarie europee, una criticità in termini di dipendenza dell’Italia dalle risorse minerarie europee, di costi di estrazione e raffinazione elevati, di impatti negativi sull’ambiente; la terza leva è lo sfruttamento del riciclo come soluzione alternativa, un obiettivo implementabile a brevissimo termine con investimenti iniziali inferiori rispetto a quelli dell’estrazione, con benefici economici derivanti dalla riduzione delle importazioni ed effetti positivi sull’ambiente. È infatti incredibile – ma vero – che l’Italia mandi all’estero il 90 per cento dei nostri rifiuti che vengono lavorati e da cui vengono estratti oro, palladio rame e poi vengono rivenduti. L’analisi di The European House–Ambrosetti conferma la risorsa del riciclo nel contribuire al problema dell’approvvigionamento. In particolare, l’economia circolare ha il potenziale di raggiungere il target europei del 15 per cento del fabbisogno soddisfatto dal riciclo entro il 2030 nello scenario accelerato. Il target è raggiunto solamente nel 2035 nello scenario prudenziale. Raggiungere gli obiettivi nei tempi previsti necessita di investimenti significativi in dotazioni impiantistiche. Gli investimenti comporterebbero un ritorno importante dal punto di vista del valore dell’economia circolare. Le stime dimostrano come nello scenario accelerato, il 32% del fabbisogno italiano di materie prime strategiche può essere soddisfatto dal riciclo. In confronto, il valore rispettivo per lo scenario prudenziale si attesta al 20 per cento. Il tesoro c’è e va sfruttato senza perdere altro tempo.

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