Quale globalizzazione?
A margine della tragedia della guerra e dei successivi approfondimenti relativi alle terribili conseguenze, molti commentatori, tra i quali anche il Ceo di Blackrock, un fondo privato con una dotazione finanziaria pari a tre volte il PIL italiano, concordano nell’affermare come il conflitto ponga la parola fine all’interno del vorticoso processo di ampliamento dei mercati definito “globalizzazione”.
Tutte queste legittime analisi, tuttavia, esprimono un approccio francamente superficiale e soprattutto generato dalle nuove ed inattese difficoltà di approvvigionamento energetico, ma anche del settore primario, per la prima volta dal dopoguerra ad oggi, nella vecchia Europa in quanto la Cina ha già firmato un accordo con la Russia per assicurarsi la fornitura di gas mentre gli Stati Uniti, viceversa, avendo raggiunto l’autonomia energetica diventano adesso esportatori di energia.
A queste difficoltà di approvvigionamento energetico si somma la problematica gestione delle filiere produttive le quali, negli ultimi decenni, hanno avuto uno sviluppo tentacolare ma disarticolato.
Questo mercato globale nasce sostanzialmente con l’ingresso della Cina nel WTO innescando un processo di migrazioni produttive verso i paesi a basso costo di manodopera che molti hanno confuso con un nuovo modello economico strutturato e definito con il termine di “globalizzazione”.
La mediazione dal mondo finanziario dei semplici approcci speculativi, il cui unico obiettivo rimane ieri come oggi la massima remunerazione del capitale, è stata applicata al complesso settore industriale forte di una totale assenza di regole condivise relativa ai flussi commerciali generati, contando quindi anche sulla mancanza di normative e di protocolli stringenti nella realizzare dei prodotti uniti ad una adozione minima di standard qualitativi a tutela dei consumatori e degli addetti alla produzione.
Questa mia miope illusione speculativa ha determinato la possibilità per gli operatori finanziari, e soprattutto per quelli industriali, di avviare un processo di delocalizzazione produttiva verso Paesi con costi di manodopera irrisori.
Tale migrazione “industriale” ha comportato l’azzeramento del vantaggio culturale ma per taluni settori manifatturieri si potevano definire come una vera supremazia industriale, quindi espressione culturale di know how professionale ed industriale espressi dall’Occidente come sintesi di un progresso di quasi 200 anni di storia industriale.
Questo processo di annullamento del vantaggio culturale occidentale ovviamente è stato favorito da una delle classi politiche più miopi che la storia umana possa ricordare la quale, in preda ad un delirio ideologico, individuava, decennio dopo decennio, prima nello sviluppo della new economy, successivamente in una economia definita “post industriale” e recentemente nell’app e gig economy la via allo sviluppo delle nostre comunità. Senza dimenticare le responsabilità gigantesche del mondo accademico il quale, per puro snobismo e presunzione intellettuali, ha sempre definito il settore industriale come la Old Economy quando, viceversa, finalmente la crisi ne ridefinisce il ruolo sempre più centrale nelle politiche di sviluppo e di sostegno alla filiera.
Il terribile combinato tra delirio ideologico-politico espresso anche attraverso politiche fiscali penalizzanti per i settori industriali unito a quello, anche più ridicolo, accademico e sempre supportati entrambi da una precisa volontà speculativa ha determinato i connotati di questo mercato globale il quale si è rivelato semplicemente come la semplice opportunità di azioni speculative sia finanziarie che produttive entrambe finalizzate a sfruttare il semplice fattore dei minori costi nei paesi in via di sviluppo. Andrebbe ricordato, infatti, come all’interno di una globalizzazione reale (una sorta di Mec degli anni 70) sarebbe stato fondamentale prevedere l’adozione di una base normativa comune adottata da tutti i membri e fondamentale nella definizione del principio della concorrenza basato così su principi e fattori qualitativi e non semplicemente come è avvenuto negli ultimi 20 anni sulla ricerca del minor costo possibile nella realizzazione di un prodotto.
La globalizzazione alla quale abbiamo assistito non ha generato ricchezza e benessere diffusi nei paesi all’interno dei quali le produzioni sono state spostate, in più ha reso più poveri i paesi dai quali queste delocalizzazioni sono partite.
Emerge perciò evidente come, anche in seguito alle conseguenze del confronto bellico attuale, non si possa affermare che sia morta la globalizzazione ma la semplice deregolamentazione di un mercato globale e forse verrà meno una opportunità di speculazioni basata sulla ricerca del minor costo di produzione.
L’occasione che si presenta ora è quella della nascita di un nuovo modello economico il quale, defunta questa visione di falsa globalizzazione rivelatasi solo come una zona franca globale, possa prosperare dalla ottimizzazione dei costi grazie all’innovazione tecnologica ed anche attraverso filiere più brevi e elastiche al fluttuare della domanda e gestibili all’interno di macroaree geografiche composte da stati con regole comuni non solo economiche ma anche democratiche.
Non comprendere questa sostanziale differenza ma anche l’opportunità che si presenta dopo due anni di pandemia ed ora in piena economia di guerra definisce il declino culturale della nostra civiltà.