Costume e Società

Le imprese italiane ancora poco digitali

Due imprese su tre ritengono secondari gli investimenti nel mondo digitale. Restano indietro anche le infrastrutture

Nonostante i passi in avanti degli ultimi anni, il rapporto tra le imprese e il mondo del digitale rimane tortuoso e con diverse difficoltà. Molto spesso l’approccio delle imprese risulta essere quasi disinteressato, come se tutto quello che riguarda la parte digitale dell’impresa fosse un di più.

Secondo i dati di quest’anno del rapporto sulla competitività dei settori produttivi realizzato dall’Istat, il 63% delle imprese italiane realizza infatti nell’ambito Ict (tecnologie dell’informazione e della comunicazione) investimenti irrilevanti. L’analisi, arrivata alla sesta edizione, pone il focus sulle strutture e le performance del sistema produttivo italiano. Questi numeri fotografano aziende poco produttive e scarsamente efficienti, mediamente di dimensioni ridotte, inserite in settori produttivi strettamente tradizionali. Il rapporto descrive un sistema chiaramente in transizione, con segnali di ripresa dal lato degli investimenti grazie anche al piano Industria 4.0. Elementi positivi che si contrappongono però a lacune ancora troppo evidenti.

Anche se la risalita rispetto al biennio precedente è costante, il rapporto evidenzia infatti un ritmo di accumulazione del capitale modesto rispetto ai maggiori paesi europei, con ritardi soprattutto negli investimenti in beni immateriali. Il risultato è che la quota in investimenti fissi lordi in rapporto al Pil è più bassa della media dell’Unione (gap di 3,1 punti) e il divario tende ad allargarsi. Questi ritardi riguardano soprattutto l’area digitale, dove l’Italia paga un divario ancora troppo rilevante ad esempio nella velocità di connessione ad internet.

Due terzi delle imprese italiane con oltre i dieci addetti ritengono poco rilevante l’Ict nella propria attività. Nella definizione Istat, queste imprese risultano “indifferenti”, a cui si contrappongono le aziende digitali “compiute” (elevato capitale fisico e umano, alta digitalizzazione e produttività) pari ad appena il 3% del totale, 5400 in tutto. Nel mezzo vi sono aziende “sensibili” al tema (18mila), impegnate ad investire in capitale umano, inserite più spesso nelle filiere di bevande, elettronica, informatica, audiovisivi. Modificare queste medie è importante non solo in termini di produttività ed efficienza ma anche in funzione della creazione di nuova occupazione: l’analisi Istat evidenzia infatti come nel biennio 2016-2017 le imprese più propense a digitalizzare abbiano creato in media più posti di lavoro ricomponendo inoltre l’assetto a vantaggio delle figure più qualificate. In media un’impresa su due qui ha aumentato le posizioni lavorative almeno del 3,5%, un valore cinque volte superiore rispetto alla categoria delle aziende “indifferenti”.

I segnali di transizione positiva sono comunque evidenti, a cominciare dalla propensione ad investire: il 67% delle imprese dichiara infatti di averlo fatto nel corso del 2017. Nuovi percorsi di crescita che hanno anche contribuito a spingere verso l’alto la propensione innovativa calcolata dall’Istat, salita di quattro punti rispetto alla precedente rilevazione. Resta tuttavia rilevante il gap dimensionale, perché se è vero che ad aver investito sono quasi sette aziende su dieci, la percentuale crolla al 42% per le Pmi. Visto che l’Italia ha nel suo DNA le piccole-medio imprese, questa è una barriera da superare a livello globale.

Questo ciclo di investimenti proseguirà comunque anche nel 2018, con quasi la metà del campione che prevede di spendere in nuovi software, il 31,9% in tecnologie di comunicazione, il 27% in connessioni ad alta velocità. Nelle simulazioni Istat, l’impatto delle misure di incentivazione dovrebbe produrre a livello globale per il Paese un aumento dello 0,1% degli investimenti totali sia nell’anno in corso che nel 2019. Le premesse per procedere nella direzione della crescita paiono dunque esserci, basta iniziare a cambiare mentalità.

 

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