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L’indignazione e la vergogna

Era veramente arrabbiato nero. Così almeno sembrava nell’immagine televisiva: gli occhi sbarrati, il petto in fuori pronto alla sfida, la voce stentorea che urlava d’essere indignato e pieno di vergogna per dovere vivere in un Paese che fa parte di questa Europa, per lui indegna di rappresentare più di mezzo miliardo di cittadini. Non posso viverci con questa vergogna. E questo turbamento e disagio che lo sconvolgeva da dove arrivava? Da una dichiarazione improvvida della presidente della BCE, Christine Lagarde, che rimandava misure finanziarie a copertura dei danni economici e sociali provocati dal diffondersi del coronavirus. Doveva provare una vergogna immensa a pensare che non poteva farci niente. E non servì a niente che il giorno dopo la presidente della Commissione europea dichiarasse ufficialmente che l’Italia avrebbe avuto tutto quello di cui abbisognava, miliardi e attrezzature sanitarie. La vergogna rimase probabilmente, perché il nostro stette zitto. Questa visione del nazionalismo identitario e sovranista pensa all’uscita sul serio, o la minaccia per ottenere contropartite? Alcuni autorevoli rappresentanti della Lega (due almeno) sembra che ne siano convinti, tanto ne parlano e spesso. Al turbamento dell’indignazione s’aggiunge la lamentela: non ci ascoltano, non accettano mai le nostre proposte, proposte che in verità non esistono in modo articolato ed organico, perché si riducono a dire che le cose devono cambiare. Ma come, nessuno lo dice. Uscire! Ma hanno un’idea di quel che potrebbe succedere all’Italia che navigasse sola nel mare magno della globalizzazione, sconvolta dai talvolta feroci venti della geopolitica e dalle tempestose onde della geo economia? Povera Italia! Sarebbe soffiata via in un amen, come accadde nel 1992 quando in una notte un solo finanziere speculatore, George Soros, fece perdere alla lira il 25% del suo valore. L’Italia si impoverì di un quarto, pur appartenendo alle Comunità europee. E l’anno dopo, incredibilmente, il nostro capo del governo gli assegnò la più alta decorazione italiana. In segno di ringraziamento? Sono molti i misteri della politica! Ora da sola, come potrebbe l’Italia far fronte ragionevolmente a questi rischi e a queste insidie? Altro mistero. Ma allora, perché questi politici dall’indignazione facile si vergognano soltanto per ragioni esterne all’Italia e non si indignano mai per i danni che essi stessi provocano alle nostre finanze, al bene comune della nostra comunità nazionale? Il caso dell’istituzione del reddito di cittadinanza ne è l’esempio più riprovevole. Miliardi gettati nel pozzo nero dell’assistenza senza nessun riscontro positivo. Perché non escono loro dall’Italia, anziché volerci fare uscire tutti dall’Europa? Già, ma dove andrebbero? Forse da Putin che ha già sovvenzionato il loro partito? L’avrà fatto con i rubli, con gli euro? Se l’avesse fatto in euro, come potrebbero continuare a dire che questa moneta, che li ha sovvenzionati, è la causa di tutti i nostri mali? Li accetterebbe Putin per continuare insieme la lotta all’Europa? Temiamo di no. Siamo tra coloro che ritengono che siano opportuni regolari rapporti dell’UE con la Russia imperiale di Putin; rapporti regolari politici e commerciali, che non permettano al nuovo Zar di inviare assassini a Londra ad avvelenare in albergo i suoi avversari. Relazioni responsabili ed affidabili gioverebbero ad entrambe le parti in causa e favorirebbero la creazione di una zona producente, tranquilla ed equilibratrice.

Non ci ascoltano – si lamentano, e lo urlano alla televisione e non nelle istituzioni dove si decide. Voglio ricordare un avvenimento al quale partecipai tanti anni fa nel corso del quale le istituzioni europee accettarono, non senza polemiche, una importante proposta presentata da un politico italiano, Mario Scelba, già presidente del Consiglio dei Ministri italiano (10 febbraio 1954 – 6 luglio 1955), allora presidente del Parlamento europeo. Era il 1969. Come da sempre, il presidente del Parlamento europeo doveva recarsi ogni anno ad una riunione con il Consiglio delle Comunità europee per presentare, discutere e definire il bilancio annuale del parlamento. Quando avvertimmo il presidente Scelba che avrebbe dovuto prepararsi a questo incontro egli andò su tutte le furie. Non poteva accettare che il Parlamento, l’espressione della volontà popolare, potesse dipendere dall’Esecutivo. Ce lo disse chiaro e tondo e minacciò di denunciare pubblicamente la situazione, creando uno scandalo tra istituzioni. I suoi collaboratori, tra i quali modestamente mi trovavo anch’io per le funzioni di segretario generale che esercitavo in quel momento, gli dissero che non conveniva provocare rotture con il Consiglio e alzare inutilmente la voce. Conveniva invece andare alla riunione e spiegare le solide ragioni del Parlamento. Scelba, uomo di Stato, rispettoso delle regole diplomatiche e consapevole delle inutili chiacchiere che si sarebbero diffuse con la rottura, accettò di andare sereno e tranquillo (portò lui sotto il braccio il dossier del bilancio) alla riunione del Consiglio. Quando entrò s’accorse subito che i presenti al tavolo di fronte a lui non erano ministri, salvo il presidente. Erano ambasciatori o direttori generali delle finanze. Prese subito la parola e disse che ringraziava il presidente per l’invito, ma che la sua presenza era un atto di pura cortesia nei suoi confronti, ma non la partecipazione ad un dialogo, che tra l’altro rifiutava di fare con funzionari e non con ministri. Aggiunse che depositava il progetto di bilancio per permettere al presidente di conoscerlo personalmente, se lo desiderava, ma che non avrebbe detto una parola su di esso perché condivideva il principio della divisione dei poteri, che è uno dei principi giuridici fondamentale dello Stato di diritto e della democrazia liberale di montesquiana memoria. Affermò che quello sarebbe stato l’ultimo incontro con il Consiglio sul bilancio e che l’anno prossimo il Parlamento avrebbe rifiutato l’invito. Si alzò, andò a stringere la mano al presidente di seduta e se ne usci tranquillo e deciso come un giovanotto. Vi lascio immaginare lo sconcerto. In aula scesero altri alti funzionari. Tutti avevano la loro da dire: contravviene ai trattati, non rispetta l’articolo tal dei tali, non si può permettere di venir meno ad una procedura ormai consolidata, il tal comma dice che, ricorreremo alla Corte, siamo noi nel giusto, ecc.ecc. Tutto vero, ma il principio della divisione dei poteri era sacrosanto e l’anno dopo, senza riunione con il Consiglio, il Parlamento approvò autonomamente il suo bilancio, che divenne legale perché furono cambiate le regole. Nessuna rottura, nessun urlo alla televisione, nessuna minaccia di uscita, nessuno si indignò o provò vergogna. Ma la proposta del presidente italiano passò senza scandali, tranquilla e normale.

Altri tempi, si dirà. Certo, erano altri tempi, un po’ più difficili di quelli di oggi. Altri uomini: è vero. La loro statura politica è diversa, la loro credibilità pure. Ma il peso politico di un Paese, nelle istituzioni internazionali dipende sì anche dalla statura dei politici, ma soprattutto dalla loro serietà, dalla fondatezza delle loro opinioni, dal lavoro che hanno svolto al governo nell’interesse vero del loro Paese e non nel rispondere a richiami ideologici che hanno fatto il loro tempo.

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