Il 6 giugno ricorreva il settantacinquesimo anniversario dello sbarco degli Alleati in Normandia, il leggendario e storico D-day. A Portsmouth, nel sud del Regno Unito, c’era tutto l’Occidente per i festeggiamenti. Ed accanto ai leader politici c’era una rappresentanza degli ultimi veterani rimasti di quel fatidico giorno, tutti ultranovantenni con negli occhi e nel cuore le immagini della più grande operazione di sbarco della storia, iniziata alle 6.30 del mattino del 6 giugno 1944. Nel primo giorno i caduti furono 4.400 e quasi 8.000 i feriti fra le forze alleate. Per i tedeschi la stima è di 4-9mila vittime, fra morti e feriti. Fino all’arrivo in agosto dei liberatori a Parigi vi furono 70mila morti fra gli alleati e 200mila fra i tedeschi. In Normandia i combattimenti dello sbarco causarono 20mila morti fra i civili. Nell’operazione gli alleati impegnarono 150mila soldati: americani, britannici, canadesi, francesi e polacchi. Per lo sbarco furono impiegati 3.100 mezzi, provenienti da 1200 navi da guerra. Nel D-day furono anche impiegati 7.500 aerei. I tedeschi erano dislocati sulle coste della Normandia con 50mila fanti della marina e pochi aerei. Essi erano convinti che lo sbarco sarebbe avvenuto a Calais dove avevano concentrato il grosso delle loro forze.
“Non dobbiamo dimenticare” – ripetevano i veterani e la regina Elisabetta, anch’essa ultranovantenne, ha detto: “Con umiltà e piacere, dico a nome di tutto il Paese, anzi a nome di tutto il mondo libero: grazie!”. Trump, il leader del mondo libero, ha letto la preghiera rivolta nel 1944 dal presidente americano Franklin Delano Roosevelt ai soldati in partenza. Era il mondo libero riunito contro il nazionalsocialismo. Era una alleanza che dopo la guerra riunì anche la Germania e l’Italia per la difesa e la sicurezza dell’Occidente, contro un’altra terribile dittatura che era rappresentata da Stalin e dal mondo sovietico, al quale si unì quella cinese con Mao Tse.Tung. A Portsmouth c’erano gli eredi politici e militari di quell’avvenimento, che è stato l’espressione di una volontà comune contro la barbarie della dittatura e dei campi di concentramento, che annientavano gli ebrei e gli avversari del regime nazionalsocialista. Era, doveva essere, un giorno di festa. Ma c’era amarezza nell’aria. Era una festa che strideva con quanto era accaduto nei due giorni precedenti a Londra, in occasione della visita ufficiale del presidente americano. Scanzonato e senza tener conto degli elementari principi della diplomazia, ha invitato gli inglesi ad abbandonare senza accordo (no deal) l’Unione europea e offrendo un ipotetico e ottimistico avvenire commerciale al Regno Unito, mettendo zizzania non solo tra le forze politiche britanniche, che con la zizzania convivono da tre anni, ma anche tra i membri e le istituzioni dell’Unione europea, che di zizzania ne divora a josa, da quando ha a che fare con i populismi sovranisti. Seminar zizzania alla vigilia dei festeggiamenti del D day è un modo, non tanto indiretto, di venir meno al riconoscimento della positività rappresentata dal governo americano nell’impegnarsi in una guerra e in un sbarco costato moltissime vite di giovani americani per liberare l’Europa dal giogo nazionalsocialista. Non è tempo di zizzania tra gli Stati Uniti e l’Europa. Libero Trump di sentirsi solo presidente americano e non leader del mondo libero, come lo sono stati i presidenti americani dallo scoppio della seconda guerra mondiale. Il “First America” non dovrebbe diventare anche “Indietro Europa”. Qual è il vantaggio che gli Usa potrebbero ricavare dall’inimicarsi gli europei? La solitudine nel mondo di oggi non gioverebbe nemmeno agli Stati Uniti, come non giova all’Europea e, ancor meno, all’Italia. Nessuno può impedire agli Usa di giocare da soli nel mondo globalizzato. Ci sembra, però, inspiegabile un atteggiamento non amichevole nei confronti dell’Europa. Se tale atteggiamento fosse stato assunto anche negli anni quaranta, non ci sarebbe stato un “D day” e la storia avrebbe preso un’altra piega, certamente meno felice per i popoli europei e meno profittevole e gloriosa per il popolo americano. In fin dei conti, per Trump, essere solo presidente degli Usa e non dell’Occidente, significa una diminutio che i suoi predecessori non hanno conosciuto. Lasciare che l’Europa se la sbrighi da sola in fatto di difesa e sicurezza è una visione “trumpiana” che non giova a una geopolitica ragionevole e affidabile. Che l’Europa si dia una difesa comune è un’esigenza avvertita ormai da molti leader politici. Ma un conto è provvedere a questo compito, nel quadro delle tradizionali alleanze politiche e militari, e un conto è sentirselo gridare scompostamente dal capo di quella che fino ad ora è ancora una alleanza militare. Questa alleanza è l’Occidente. I tempi cambiano, è vero! Ma la sicurezza è un’esigenza che si manifesta anche nei cambiamenti, i quali più sono razionalmente condotti, più offriranno giovamento agli attori che ne sono i protagonisti.
Il 6 giugno 1944 è lontano, quel mondo non c’è più. Facciamo in modo che quello di oggi non diventi peggiore di quello d’allora e garantisca uno sviluppo democratico adatto ai tempi nuovi e alle nuove esigenze di sicurezza.