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In Birmania è un bagno di sangue, dilaga la rabbia contro la Cina

Un massacro di innocenti, il più grave dall’inizio delle proteste contro il golpe: almeno 59 morti domenica 14 marzo, con media locali che riferiscono di oltre un centinaio, e altri 5 ragazzi uccisi nelle città di Myingyan e Aunglai il giorno dopo. La Birmania è ormai in fiamme, con decine di migliaia di giovani che continuano a scendere nelle strade nonostante le forze di sicurezza sparino per uccidere da settimane, scioperi generali, la legge marziale nell’ex capitale e un nuovo stop al traffico internet per impedire al dissenso di organizzarsi.

Domenica folle di manifestanti hanno attaccato 32 fabbriche legate alla Cina causando anche alcuni feriti, polizia e militari hanno cercato di disperdere la protesta sparando ad altezza d’uomo. Solo qui sono morte almeno 59 persone secondo fonti ospedaliere, e il regime ha dichiarato la legge marziale nei distretti dell’ex capitale teatro delle violenze di ieri. Media locali parlano però di un numero di morti doppio rispetto a quanto emerso.

In tutto, le vittime dal colpo di stato del primo febbraio sono ormai almeno 145 in 17 città, con migliaia di feriti e oltre 2mila arrestati; e si teme un bilancio molto peggiore, dato che la copertura mediatica è molto minore al di fuori di Yangon e Mandalay. Con un nuovo blocco del traffico internet sui telefonini applicato oggi, il rischio è che nuove stragi siano ancora meno documentate sui social media dagli stessi manifestanti.

Il blocco alle connessioni è anche la ragione per cui la terza udienza del processo contro Suu Kyi, prevista per il 15 marzo a porte chiuse ma in teleconferenza, è stata rinviata al 24 marzo. Lo ha riferito lo stesso avvocato della Signora, contro la quale sono stati emessi quattro capi di imputazione, dal possesso illegale di walkie-talkie all’accusa di aver intascato pagamenti illegali. Difficile capire se l’impossibilità di andare online è la vera ragione del rinvio o se il regime intende solo prendere tempo. Impossibile anche aspettarsi un’applicazione imparziale della giustizia – Suu Kyi è detenuta in isolamento e senza accesso al suo legale – in un processo chiaramente politico contro la leader che ha trionfato nelle uniche due elezioni libere nel fragile decennio di transizione verso la democrazia, ora stroncato dal golpe.

A un mese e mezzo dal golpe, è ormai difficile capire quale possa essere la via d’uscita per una giunta militare che ha enormemente sottostimato il rigetto popolare della sua presa di potere e che non riesce a fermare le manifestazioni neanche sparando sulla folla. Le proteste sono il grido di disperazione di una generazione di giovani che stava crescendo assaporando per la prima volta le libertà democratiche, e che si ritrova ora in una brutale dittatura. Gli eventi di ieri mostrano anche come si sia diffusa la rabbia contro la Cina, che fin dall’inizio ha evitato di criticare i militari golpisti, proteggendoli anche all’Onu. La stessa Pechino ha esortato oggi alla calma, dicendosi “molto preoccupata”, ma con un tono che sembra prediligere i suoi interessi economici invece che i morti della repressione armata, e che è stato schernito sui social media dai birmani.

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