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Social network nel mirino per violazioni della privacy e political correctness

A Napoli una querela per diffamazione è stata archiviata perché Facebook ha ritenuto di non collaborare – con la procura partenopea che si era attivata in seguito all’esposto di una ragazza che sul social network si era ritrovata una pagina a lei intestata con foto in abiti molto «ridotti», come ha riferito Panorama lo scorso ottobre.

Le relazioni tra big tech e ordinamento giuridico sono una questione emersa già da tempo negli Usa. In Texas la Corte d’appello del quinto distretto ha riabilitato la legge Hb20, precedentemente bocciata, che consente agli iscritti ai social di denunciare le società se ritengono di essere stati censurati o di aver subìto la sospensione del profilo senza valido motivo. Oltre Atlantico, peraltro, a creare problemi giuridici non è tanto la violazione della privacy, come nel caso napoletano, ma la cultura woke, l’insofferenza verso tutto ciò che urta la sensibilità, o forse piuttosto la suscettibilità, politically correct. L’intelligenza artificiale di Menlo Park ha cancellato dalle mappe di Facebook la città francese di nome «Bitche» (5mila anime nel dipartimento della Mosella, al confine con la Germania) perché la pronuncia di quel nome (con la «e» muta) assomiglia a un insulto sessista in inglese. Allo stesso modo, la religione del politicamente corretto ha imposto la censura di quattro opere di Courbet, Giorgione e Canova perché ritenute volgari e pornografiche, ritraendo nudi di donne (come appunto il celeberrimo quadro di Gustave Courbet ‘ del mondo’). Finanche la dichiarazione di indipendenza americana è stata oscurata sul social per il riferimento agli «spietati selvaggi indiani». Vogliamo parlare poi del controllo esercitato sull’informazione durante la fase più acuta della pandemia?

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