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Tra la natura distrutta del Volga fioriscono gli affari leciti e non della Russia in guerra

Il Corriere della Sera ha provato a scoprire come è la Russia, il Paese reale, quello che non gravità intorno al Cremlino a Mosca, dopo che Vladimir Putin con l’invasione dell’Ucraina l’ha tagliata fuori dalle relazioni con l’Occidente. Per farlo, è andato a scoprire l’area attraversata dal Volga, il fiume più lungo d’Europa, che rappresenta “l’autobiografia di un popolo”, per mutuare le parole del direttore dell’Ermitage, Michail Piotrovskij, perché è proprio in quelle terre, al centro del Paese e dove sorge tra l’altro l’ex Stalingrado (oggi Volgograd), che la Russia affonda le sue radici. Ecco cosa è emerso.

Il paesaggio è contraddistinto da taiga e steppa, come da foreste e pianure immense, ma la fauna è molto scarsa: anitre e oche vi passano in volo durante le loro migrazioni, in loco vi sono molti corvi, di ogni dimensione, nulla, nemmeno uno scoiattolo. Pesticidi, scarichi industriali e metropolitani hanno avvelenato il fiume, tanto che il luccio perca servito nei ristoranti arriva congelato da lontano mentre tra i 200mila abitanti di Ribinsk (nome che significa la città del pesce, perché la città riforniva la mensa degli zar col miglior storione) non si pesca più neanche di frodo. A peggiorare la situazione vi è l’operazione militare speciale in Ucraina: la navigazione privata è vietata sull’asse medio e basso del Volga, perché il fiume è diventato strategico per l’economia di guerra, per bypassare le sanzioni: oltre a traghetti e navi da crociera (riscoperta del turismo interno), circolano centinaia di chiatte per il rifornimento militare al Donbass e il traffico illegale con l’Iran attraverso il Caspio.

Astrakan, sul delta, già antico “centro commerciale” della via della Seta, è diventata cruciale per l’asse economico antioccidentale. I porti turistici sono chiusi e quelli mercantili presidiati dalle forze di sicurezza. È l’hub dell’import-export clandestino di beni agricoli e di petrolio, ma anche di turbine, ricambi meccanici, medicinali, componentistica nucleare e droni.

Di contro, a Jaroslav, a Nizhni Novgorod, a Kazan i centri storici sono intasati di lavori pubblici, restauro di palazzi, ripristino di marciapiedi e tubature: squadre di giardinieri municipali sono all’opera nei parchi pubblici insieme a decine di liceali obbligati a contribuire al decoro urbano per due settimane durante le vacanze e nelle periferie non si sono interrotte le costruzioni di nuovi quartieri popolari. Nelle fertili pianure del medio Volga è evidente come l’industria agroalimentare sia diventata parte dell’economia di guerra, al pari di quella pesante: distese sterminate di girasoli, orzo, frumento, granoturco. Le fattorie collettive abbandonate negli anni Novanta vengono acquisite dai grandi gruppi fedeli al regime e dei 56 milioni di ettari rimasti incolti negli anni 90 ne sono rimasti una trentina. Secondo la Fao la Russia da sola può sfamare due miliardi di persone. E il cambiamento climatico (per ora) gioca a favore di Putin, perché aumentano le terre coltivabili ovunque, non solo nelle pianure del Volga centrale, dove le stagioni di crescita sono più lunghe e i raccolti migliori, ma anche nella regione degli Urali e addirittura in Siberia.

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