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Giustizia mancata, derisa e offesa

A questo mondo si sa che la giustizia si compra e si vende come l’anima di Giuda.

Giovanni Verga

Il concetto della giustizia accompagna l’essere umano dalla notte dei tempi. Riferendosi però alle definizioni relative al concetto della giustizia nei diversi dizionari, compresi quelli della lingua italiana, risulta che si tratta di una virtù. Una virtù morale, individuale e sociale che, secondo il dizionario Treccani consiste “nella volontà di riconoscere e rispettare i diritti altrui, attribuendo a ciascuno ciò che gli è dovuto secondo la ragione e la legge”. Una simile definizione la troviamo anche nel dizionario Hoepli, dove la giustizia viene definita anche come un “Potere istituzionale a cui è demandata l’applicazione della legge”. Oppure come una “Situazione sociale in cui vengono rispettati i principi dell’equità e della corretta applicazione delle leggi”. Il concetto della giustizia è stato continuamente elaborato e sviluppato, dalle diverse scuole di pensiero, dall’antichità greco-romana ai giorni nostri. Tutti concordano, però, che la giustizia, definita da un insieme di regole e di criteri, deve essere considerata e trattata come un concetto che sancisce sia i diritti che i doveri per chiunque faccia parte di un raggruppamento di persone. Mentre la mancata giustizia, la negazione della giustizia si percepisce e si definisce come ingiustizia, nei confronti di una singola persona, di diverse persone o, addirittura, di una moltitudine di persone. Dall’antichità l’ingiustizia è stata trattata come un comportamento, una decisione presa che doveva essere evitata ad ogni costo. Una convinzione giuridica elaborata e sintetizzata nella locuzione latina In dubio pro reo, cioè che nel dubbio bisogna, comunque, giudicare e decidere in favore dell’imputato, anche quando questi potrebbe essere il vero colpevole. Una convinzione quella, stabilita dai giudici romani e sancita nel codice riconosciuto come il Digesto: un insieme di libri rappresentanti il pensiero giuridico del tempo, voluto dall’imperatore Giustiniano I nel 553 d.C. Una convinzione quella dell’In dubio pro reo fatta sua anche da Voltaire. Il noto filosofo francese era convinto che è meglio correre il rischio di salvare un colpevole piuttosto che condannare un innocente.

In diverse parti del mondo le sfide quotidiane dei sistemi nazionali della giustizia sono/dovrebbero essere soprattutto quelle di non commettere delle ingiustizie. Purtroppo non sempre quelle sfide vengono vinte. Soprattutto nei sistemi non democratici e corrotti, come in Albania, dove da anni il sistema della giustizia è tutt’altro che consolidato ed imparziale, nonostante si pretenda essere ormai, dal 22 luglio 2016, un sistema riformato. Ma di “riformato” ha solo l’aggettivo. Tutto ciò grazie ad una strategia, ben ideata da determinati raggruppamenti occulti oltreoceano ed in seguito attuata in Albania da parte di chi rappresentava quei raggruppamenti. Anche con tutto il necessario e, spesso, indispensabile appoggio politico ed istituzionale. Tutto ciò ormai è di dominio pubblico, facilmente verificato e verificabile e risulta da molti, moltissimi dati e fatti accaduti e che stanno tuttora accadendo. Così come risulta da innumerevoli documentazioni, testimonianze, rapporti ufficiali di diverse istituzioni specializzate internazionali, comprese quelle statunitense e dell’Unione europea. Così come risulta anche da tantissime denunce ufficialmente depositate, ma mai trattate professionalmente dalle istituzioni del sistema “riformato” di giustizia in Albania. L’autore di queste righe ha trattato per il nostro lettore molto spesso, riferendosi soltanto a dei fatti pubblicamente noti e cercando di essere più oggettivo possibile, la parzialità del sistema della giustizia in Albania. Un Sistema quello delle giustizia che Montesquieu, il fondatore della teoria politica della separazione dei poteri, considerava il “terzo potere”. Un sistema quello della giustizia “riformata” in Albania che, sempre dati e fatti accaduti e che stanno accadendo alla mano, è stato ideato ed attuato per essere controllato personalmente dal primo ministro e/o da chi per lui, quale rappresentante istituzionale di certi raggruppamenti occulti locali ed internazionali, nonché della criminalità organizzata, locale ed internazionale, ben presente ed attiva in Albania.

Ne è testimonianza anche il caso reso noto grazie ad una approfondita indagine svolta da anni dalla procura di Catania e resa pubblica il 16 ottobre 2017. Dalle tante intercettazioni telefoniche ed ambientali, professionalmente fatte, risultava che il ministro degli Interni albanese di quegli anni era direttamente coinvolto in attività criminali con alcuni trafficanti internazionali di stupefacenti, suoi parenti. Quello scandalo ed il trattamento del caso dell’ex ministro degli Interni (2013-12017) in Albania da allora diventò una sfida per il sistema “riformato” della giustizia. L’autore di queste righe ha trattato ed ha informato, dal 2015 in poi, il nostro lettore di questo caso (Nuove serie avvisaglie di scandali in Albania, 2 ottobre 2015; Dall’Albania con amore… e droga, 19 settembre 2016; Droga come minaccia e allarme per tutti, 10 ottobre 2016; L’Albania della cannabis, 24 ottobre 2016; L’ambasciatore ha parlato ma… , 9 ottobre 2017; Grave scandalo in corso, 23 ottobre 2017; Essere responsabili, 30 ottobre 2017; Attenzione, sta cercando di ingannare di nuovo!, 24 novembre 2017; Branco di criminali o polizia di Stato?, 15 gennaio 2018; Bisogna impedire il peggio, 5 febbraio 2018; Dopo la cannabis, la cocaina, 12 marzo 2018…).

Tutto cominciò, ma si seppe soltanto in seguito, con una denuncia fatta, durante un’intervista nel settembre 2015, da un ex funzionario dell’antidroga della polizia di Stato. Intervista rilasciata da un Paese europeo, dove lui era riuscito ad arrivare e chiedere asilo politico. In quell’intervista l’ex funzionario della polizia di Stato albanese aveva denunciato l’attività di un pericoloso gruppo criminale e i legami di parentela del suo capo e dei suoi fratelli con l’ex ministro degli Interni. L’autore di queste righe informava allora, tra l’altro, il nostro lettore che “L’ex funzionario della polizia, era impegnato da alcuni anni nel controllo dei traffici degli stupefacenti ed altro nell’area dove era attivo il gruppo sopracitato. Essendo riuscito a conoscere le loro attività illecite e cercando di agire secondo la legge, lui è stato, invece, “stranamente” arrestato dalla polizia. Grazie alla sua bravura da poliziotto professionista era riuscito a scappare e ha chiesto e ottenuto asilo in un paese europeo.” (Nuove serie avvisaglie di scandali in Albania…; 2 ottobre 2015). In seguito, dall’esilio, l’ex funzionario dell’antidroga, durante diverse sue successive interviste, aveva dichiarato di aver informato di tutto ciò anche un ufficiale di collegamento delle strutture specializzate italiane, presente in quel periodo in Albania.

Immediata è stata la reazione offensiva, negazionista e diffamatoria del primo ministro e della sua potente propaganda governativa. Per dare peso e credibilità alle sue dichiarazioni e, soprattutto, cercando di offuscare, sminuire e annientare, il più possibile, l’eco delle dichiarazioni dell’ex funzionario dell’antidroga, il 16 settembre 2015 il primo ministro organizzò un evento pubblico, in palese violazione delle leggi in vigore. In quell’evento era presente anche l’ambasciatore statunitense, appoggiando così tutta quella messinscena propagandistica del primo ministro. L’autore di queste righe informava allora il nostro lettore che il primo ministro aveva ordinato e organizzato una “manifestazione faraonica in un noto ambiente a Tirana”. Affermando poi che “Cose del genere si sono recentemente viste in Corea del Nord”. In seguito si informava il nostro lettore che “…Davanti a circa duemila poliziotti, che dovrebbero, per legge, essere depoliticizzati, l’allora ministro degli Interni e soprattutto il primo ministro si sono scatenati in una sfrenata propaganda politica, sia per ribadire “i successi” della polizia di Stato che per denigrare l’ex funzionario della polizia, anche a livello personale con offese da coatto” (Grave scandalo in corso; 23 ottobre 2017). Bisogna evidenziare che il ministro degli Interni era uno dei più stretti collaboratori ed un “prediletto” del primo ministro, che lo considerava proprio un “campione della lotta contro le droghe” (Sic!). Ma lui era semplicemente un devoto ubbidiente della volontà del primo ministro. Era semplicemente l’esecutore istituzionale della strategia ben concepita per la cannabizzazione di tutto il territorio dell’Albania. Una strategia che aveva come obiettivo ingenti guadagni miliardari, da dividere poi con la criminalità organizzata e, con la parte a disposizione, finanziare la vittoria durante le elezioni politiche del 25 giugno 2017. Una strategia quella che è pienamente riuscita. Mentre tutto quanto dichiaravano il primo ministro, i suoi più stretti collaboratori e la propaganda governativa erano solo e soltanto delle bugie e delle falsità che niente avevano a che fare con la drammatica, vissuta e sofferta realtà albanese di allora. Anche perché in Albania, un piccolo Paese, dove tutti sanno tutto di tutti, niente si poteva mai fare, non a livello nazionale, ma neanche a livello locale o comunale, senza l’orientamento, senza l’espressa richiesta e senza il permesso del primo ministro e/o di chi per lui. Bisogna sottolineare che lo scandalo attirò subito anche l’attenzione delle cancellerie europee. Il suo seguente corretto e professionale trattamento giuridico diventò una delle condizioni poste da diversi membri del Consiglio europeo per l’avanzamento del processo d’adesione dell’Albania. Purtroppo e “stranamente” però, durante tutto quel periodo i soliti “rappresentanti internazionali”, ambasciatore statunitense e dell’Unione europea compresi, non hanno visto, sentito e capito nulla di tutto quanto accadeva in Albania. Non solo ma, guarda caso, non hanno letto neanche quanto avevano ufficialmente rapportato diverse istituzioni specializzate dell’Unione europea e statunitense, che evidenziavano la crescente preoccupazione legata alla massiccia coltivazione della cannabis in Albania ed al traffico illecito di stupefacenti. Anzi, l’ambasciatore statunitense e la sua omologa dell’Unione europea elogiavano il ministro e i “successi” nella lotta contro le droghe e la criminalità organizzata. Chissà perché?!

Dal 2017 il sistema “riformato” della giustizia, con degli stratagemmi procedurali, ha rimandato per anni il caso dell’ex ministro degli Interni. Ma non poteva andare oltre. Venerdì scorso, 4 febbraio, è stato finalmente proclamato il verdetto della Corte speciale d’Appello contro la Corruzione e la Criminalità organizzata, un’altra nuova istituzione del sistema “riformato” della giustizia. L’ex ministro è stato condannato soltanto a 3 anni e 4 mesi per “abuso d’ufficio”, dovuto ai rapporti con i suoi parenti trafficanti internazionali di stupefacenti. La Corte ha respinto delle altre accuse ben più gravi. Accuse legate al “traffico di stupefacenti, in collaborazione, nell’ambito di un gruppo criminale strutturato” e quella della “Partecipazione attiva in un gruppo criminale strutturato”. Chissà perché un simile verdetto?! Una cosa si sa però: sia al primo ministro che ad alcuni “rappresentanti internazionali” in Albania, ambasciatrice statunitense in testa, interessa molto che la “riforma” del sistema della giustizia sia considerata un “successo”. E per questo stanno sudando sette camicie, pur di riuscirci. Giustificando così anche centinaia di milioni di dollari e di euro “spesi” durante questi anni.

Chi scrive queste righe ricorda che nel 2017, un ragazzo di 22 anni è stato condannato con una simile condanna, come quella dell’ex ministro, perché era in possesso di 3 grammi di cannabis. Il ragazzo si è poi suicidato in prigione per la vergogna. Mentre l’ex ministro, essendo l’esecutore della cannabizzazione del Paese, è stato condannato dalle istituzioni “riformate” di giustizia con la stessa pena del ragazzo suicidato! Chi scrive queste righe è convinto che nessuna decisione presa da parte delle istituzioni “riformate” del sistema di giustizia non convincerà finché non si metteranno sotto inchiesta e non si giudicheranno professionalmente ed imparzialmente tutti i veri e consapevoli responsabili, cioè il primo ministro e i suoi collaboratori. Se non sarà così, si tratterà sempre di una giustizia mancata, derisa e offesa, dando perciò ragione a Giovanni Verga, secondo il quale “A questo mondo si sa che la giustizia si compra e si vende come l’anima di Giuda”.

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