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Non c’è pace nei Balcani

I Balcani producono più storia di quanta ne possano consumare

Winston Churchill

Nel 1950 uscì nelle sale cinematografiche in Italia un film del neorealismo italiano che si intitolava Non c’è pace tra gli ulivi. Un film che anche l’autore di queste righe ha visto con piacere diverse volte nel corso degli anni. I due protagonisti del film, maestosamente interpretati da Raf Vallone e Lucia Bosé, sono Francesco, un pastore, e Lucia, la ragazza che lui amava. Francesco, dopo aver combattuto per tre anni al fronte e dopo essere stato, in seguito, per tre anni in prigione, era tornato finalmente a casa. Ma nel frattempo un suo compaesano e pastore, Agostino, aveva rubato quasi tutte le pecore che possedeva la famiglia di Francesco. Convinto però del detto popolare che ‘chi ruba quello che gli appartiene non è un ladro’, decise di riavere le sue pecore. In quel suo piano vengono coinvolti altri suoi famigliari e Lucia che, nonostante amasse Francesco, era promessa sposa ad Agostino. E, guarda caso, Lucia era l’unica che aveva visto Agostino rubare le pecore. Ebbene, Francesco rubò non solo le pecore sottratte alla sua famiglia, ma tutte le pecore che possedeva il vero ladro. Accortosi della perdita delle pecore, Agostino si mise a seguire i ladri. Strada facendo trovò la sorella di Francesco, che non teneva il ritmo degli altri, e la stuprò. Poi, non riuscendo a raggiungerli, denunciò tutto alle autorità. Francesco è stato arrestato e condannato a quattro anni di prigione. Anche perché i compaesani hanno testimoniato a favore di Agostino. Lucia stessa, durante il processo, non ammette di aver visto Agostino rubare le pecore di Francesco. Nel frattempo però Lucia doveva sposare Agostino, ma il giorno del matrimonio la sorella di Francesco, stuprata da Agostino, incontra Lucia e in mezzo a tutti racconta a lei la verità su tutto ciò che era accaduto. Allora Lucia torna nella sua casa paterna; il matrimonio perciò viene annullato. Nel frattempo gli altri pastori si mettono tutti contro Agostino per delle ingiustizie da lui fatte nei loro confronti. Francesco riusce ad evadere dal carcere. Lucia la raggiunge. Francesco insieme con Lucia e anche con l’aiuto ed il pieno supporto dei pastori va a trovare Agostino. Adesso è lui che scappa, trascinando nella sua fuga anche la sorella di Francesco. Ma poco dopo la uccide perché lei, debole di nervi, impediva la fuga. Fuggendo Agostino spara molti colpi contro quelli che lo stavano inseguendo e non si accorge che i proiettili erano finiti. Raggiunto da Francesco, ma senza più colpi in canna, Agostino si getta in un precipizio e muore. Nel frattempo arrivano anche i carabinieri avvertiti di quello che stava accadendo. Il maresciallo dei carabinieri, dopo aver visto e sentito tutto, aveva capito chi era il vero colpevole. Perciò promette e garantisce che avrebbe fatto di tutto per riaprire il processo e fare finalmente giustizia. Una promessa, quella del maresciallo dei carabinieri, che ha riempito di gioia e di speranza per il loro comune futuro anche i due protagonisti del film Non c’è pace tra gli ulivi, Francesco e Lucia.

Non c’è pace anche nei Balcani. E soprattutto tra la Serbia ed il Kosovo. Nel settembre del 2021 si è riattivato il contenzioso delle targhe automobilistiche. Il governo del Kosovo, rivendicando il principio di reciprocità, facendo riferimento all’Accordo di Bruxelles del 2013 tra i due Paesi, ha imposto il cambio provvisorio delle targhe per i veicoli serbi entrati in Kosovo. Una prassi che la Serbia applica per i veicoli del Kosovo, una volta entrati nel suo territorio. Un conflitto, quello, che ha direttamente coinvolto anche le istituzioni dell’Unione europea, soprattutto la Commissione. Dopo lunghe e non facili trattative la questione fu soltanto posticipata di alcuni mesi. Ma già dal luglio del 2022 altre manifestazioni di protesta si verificarono nel nord del Kosovo. Erano sempre dei protestanti serbi che si opponevano alla decisione del governo del Kosovo sulle targhe. Delle frange estremiste serbe hanno messo in atto blocchi stradali con dei camion ed altri mezzi pesanti. Non ha risolto il contenzioso sulle targhe neanche la mediazione dei massimi rappresentanti della Commissione europea. La situazione si è aggravata ulteriormente il 5 novembre 2022. E questa volta, oltre al contenzioso sulle targhe e le modalità d’applicazione, la parte serba ha aggiunto anche l’istituzione dell’Associazione delle municipalità serbe in Kosovo, come prestabilito nell’Accordo di Bruxelles del 2013. Ma anche nel caso delle Associazioni delle municipalità, quell’Accordo non prevedeva e garantiva il principio di reciprocità per i comuni con maggioranza di abitanti di etnia albanese nel sud della Serbia. Ebbene, il 5 novembre 2022, la protesta dei serbi etnici nel nord del Kosovo portò alle dimissioni di massa dei sindaci, dei consiglieri comunali, dei giudici e dei procuratori, del personale giudiziario e degli agenti di polizia di etnia serba da tutte le istituzioni del Kosovo. La situazione continuò ad aggravarsi anche nei mesi successivi, soprattutto dopo le decisioni di sostituire gli agenti di polizia dimessi e il dimesso ministro per le Comunità con un altro serbo etnico, non gradito però alla Serbia. Per ripristinare la mancata normalità istituzionale dopo le dimissioni di massa nel novembre 2022, era stato deciso di svolgere nuove elezioni in quei quattro comuni il 18 dicembre 2022. Ma l’aggravarsi della situazione, dovuto alle proteste e ai blocchi stradali, non poteva permettere un normale processo. Perciò, dopo diverse consultazioni con i rappresentanti dell’Unione europea e degli Stati Uniti d’America, è stata decisa una nuova data, il 23 aprile 2023, per quelle elezioni comunali. Elezioni nelle quali si sono registrati come candidati sindaci soltanto rappresentanti dei partiti albanesi. Di fronte ad una simile realtà però sono stati proprio i rappresentanti dell’Unione europea e degli Stati Uniti d’America ad insistere perchè le elezioni si svolgessero. Nel frattempo gli elettori di etnia serba, che sono la maggioranza in quei quattro comuni, “consigliati” anche da chi di dovere in Serbia, hanno boicottato in massa le elezioni. Una “scelta” quella che ha permesso ai quattro candidati di etnia albanese ad essere eletti come sindaci, ma con una veramente bassa affluenza degli elettori ai seggi, che non superava i 4% degli aventi diritto al voto. Nonostante ciò le elezioni sono state regolari e secondo le leggi in vigore nel Kosovo i sindaci dovevano insediarsi ufficialmente il 26 maggio scorso.

Ebbene, da venerdì, 26 maggio scorso, si sono aggravati di nuovo i rapporti tra il Kosovo e la Serbia. Questa volta il casus belli è stato proprio l’insediamento dei nuovi sindaci di etnia albanese in quattro comuni nel nord del Kosovo. Sono stati molti i contestatori serbi che il 26 maggio scorso avevano circondato gli edifici dei comuni per impedire ai nuovi sindaci di entrare nei propri uffici. Protestavano esponenti ed aderenti di un partito dei serbi etnici del Kosovo, molto vicino al presidente della Serbia. Le proteste cominciate il 26 maggio scorso sono proseguite poi per tutta la successiva settimana. Da fonti di informazione credibili risulterebbe che in quelle proteste c’erano anche molti “violenti” arrivati dalla Serbia, tra paramilitari e persone con precedenti penali. Lunedì scorso, il 29 maggio, il governo del Kosovo ha deciso di intervenire e di permettere ai nuovi sindaci di cominciare ad esercitare il loro mandato. E siccome gli edifici comunali erano circondati dai “contestatori”, è dovuta intervenire anche la polizia del Kosovo. Ma i “contestatori” hanno aggredito i poliziotti. Poi, dopo l’intervento dei militari della KFOR (acronimo di Kosovo Force; n.d.a.), i “contestatori” serbi hanno aggredito anche loro. Risulta che sono stati 30 i militari della KFOR, 11 soldati italiani e 19 ungheresi, feriti durante gli scontri il 29 maggio scorso. Gli scontri sono continuati per tutta la settimana scorsa, anche se non più violenti come quelli del 29 maggio. Bisogna però sottolineare che la KFOR è un contingente militare internazionale a guida NATO, attivo in Kosovo dal 12 giugno 1999, due giorni dopo l’adozione della Risoluzione 1244 da parte del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.

Subito dopo l’inizio degli scontri dei “contestatori” serbi” con le forze di polizia del Kosovo e i militari della KFOR, hanno reagito le massime autorità del Kosovo e della Serbia. Hanno reagito anche i massimi rappresentanti dell’Unione europea, soprattutto quelli della Commisione, nonché il segretario di Stato statunitense ed il responsabile per i Balcani del Dipartimento di Stato. Però alcuni di loro hanno dovuto “correggere” le loro dichiarazioni dopo le reazioni del primo ministro e della presidente del Kosovo. E purtroppo anche durante la scorsa settimana si è verificato il solito atteggiamento ambiguo di non pochi alti rappresentanti istituzionali e statali europei e statunitensi per delle situazioni e realtà chiare e per niente ambigue. Già da lunedì scorso quasi tutti loro hanno cercato di incolpare non l’aggressore, bensì l’aggredito. Hanno cercato di fare pressione sulle autorità del Kosovo, le quali hanno semplicemente cercato di rispettare le leggi in vigore. Leggi fatte con la sempre presente ed attiva consulenza delle istituzioni specializzate sia dell’Unione europea che altre. Sono stati gli stessi rappresentanti che nell’aprile scorso sono stati determinati ad avere elezioni in quei quattro comuni nel nord del Kosovo che, un mese dopo, hanno “dimenticato” tutto ed hanno incolpato le autorità del Kosovo. Così facendo davano un “appoggio” al presidente della Serbia, nonostante tutti sanno che è lui e/o chi per lui ad aver “consigliato” gli aventi diritto al voto di etnia serba in quei quattro comuni a boicottare le elezioni il 23 aprile scorso. Bisogna sottolineare che il presidente della Serbia la scorsa settimana ha avuto il pieno e dichiarato sostegno della Russia. E per coloro che non lo sanno, o che lo hanno dimenticato, l’attuale presidente della Serbia è stato, dal marzo del 1998 fino all’ottobre del 2000 il ministro dell’Informazione della Repubblica Federale di Jugoslavia (Repubblica costituita allora solo dalla Serbia ed il Montenegro; n.d.r.). Ed in quel periodo il Presidente della Repubblica era Slobodan Milošević, accusato di crimini contro l’umanità per le operazioni di pulizia etnica dell’esercito jugoslavo in Croazia, Bosnia ed Erzegovina e Kosovo e processato poi dal Tribunale penale internazionale. In più l’attuale presidente della Serbia, durante la guerra del Kosovo (1998-1999) ha presentato una legge sull’informazione, poi approvata ed attuata, che penalzzava tutti i media che si opponevano al regime di Milošević. Ragion per cui allora lui, l’attuale presidente della Serbia, fu inserito nella Black List (Lista nera; n.d.a.) dell’Unione europea. Ed e proprio lui che non ha aderito neanche alle sanzioni poste dall’Unione europea alla Russia, dopo l’aggressione in Ucraina. Chissà perché da alcuni anni i massimi rappresentanti dell’Unione europea, soprattutto quegli della Commissione, cercano però di “prendere con le buone” il presidente della Serbia?!

I rapporti tra la Serbia ed il Kosovo sono stati sempre molto difficili e problematici. E quanto è accaduto la scorsa settimana lo dimostra. I massimi rappresentanti dell’Unione europea, soprattutto quelli della Commissione, hanno cercato di fare da mediatori nei negoziati tra le parti. Nel passato ci sono stati degli accordi (2013 e 2015) e quest’anno altri due: quello di Bruxelles del 27 febbraio e poi l’Accordo di Ohrid del 18 marzo. Questi due ultimi accordi però sono stati soltanto verbali, ma non ufficialmente firmati, sia dal presidente della Serbia che dal primo ministro del Kosovo, anche se quest’ultimo aveva dichiarato la sua disponibilità a firmare. Accordi che però sono stati presentanti come un “successo” dai massimi rappresentanti della Commissione europea! L’autore di queste righe già allora era convinto che “…l’accordo non firmato di Ohrid, raggiunto dopo le lunghe e difficili mediazioni europee, soprattutto dell’Alto rappresentante dell’Unione per gli Affari esteri e la Politica di Sicurezza, purtroppo non sarà rispettato. Non a caso è stata rifiutata la firma finale.” (Lunghe mediazioni europee e solo un accordo verbale; 27 marzo 2023).

Chi scrive queste righe, come molte altre persone, purtroppo constata che ancora non c’è pace nei Balcani. Come non c’era pace tra gli ulivi, nell’omonimo film del regista Giuseppe de Santis. Ma alla fine del film il maresciallo dei carabinieri capì chi era il vero colpevole e promise che avrebbe fatto di tutto per fare finalmente giustizia. Chissà se accadrà lo stesso anche nei Balcani che, come diceva Churchill, producono più storia di quanta ne possano consumare.

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