International

Una pericolosa sudditanza

Finché possiamo dire ‘quest’è il peggio’, vuol dir che il peggio ancora può venire.

William Shakespeare; da “Re Lear”

“Le moschee sono le nostre caserme, le cupole i nostri elmetti, i minareti le nostre baionette e i fedeli i nostri soldati…”. Sono dei versi di uno scrittore turco. Versi che sono stati pronunciati nel 1998 anche dall’allora sindaco di Istanbul (1994 – 1998), attualmente presidente della Turchia, Recep Tayyip Erdogan. E proprio per aver recitato questi versi in pubblico, lui è stato condannato, nel novembre 1998, con la pena di dieci mesi ed il divieto di ricoprire cariche pubbliche a vita. Per i giudici il suo discorso pubblico è stato “un’attacco allo Stato ed incitamento all’odio religioso”. Una condanna della quale scontò soltanto quattro mesi di prigione. In più è stata annullata, dopo circa tre anni ed in seguito ad un emendamento costituzionale, anche quella parte della condanna che riguardava il divieto di ricoprire delle cariche pubbliche a vita.

Nel 2001 Erdogan è stato uno dei fondatori del partito della Giustizia e dello Sviluppo (Adalet ve Kalkınma Partisi – AKP; n.d.a.). Un partito che nel 2002 vinse con il 34,3% dei consensi, diventando il primo partito del Paese. Erdogan nel 2003 divenne il 59° primo ministro della Turchia. Incarico che ha mantenuto fino al 2014. Mentre il 28 agosto del 2014, è stato eletto 12o presidente della Turchia. Dopo quella sua elezione, Erdogan si è dimesso dalla guida del partito. In seguito al fallito colpo di Stato del 15 luglio 2016, lui ha deciso di rafforzare i propri poteri. Perciò, come presidente della Repubblica, ha decretato lo svolgimento del referendum costituzionale il 16 aprile 2017. Referendum che gli ha permesso, tra l’altro, di diventare di nuovo anche il dirigente del partito AKP. Bisogna sottolineare che Erdogan non ha mai nascosto anche la sua propensione per la religione islamica. E durante la sua lunga carriera politica ha contribuito attivamente ad un continuo e progressivo aumento del ruolo della religione islamica nella vita del Paese. E così facendo, Erdogan ha rinnovato il rapporto tra lo Stato e la religione islamica in Turchia. Invece, con un apposito emendamento della Costituzione del 1924, nel 1928 la Turchia si proclamava Stato laico. Un emendamento che non riconosceva più l’Islam come la religione dello Stato turco.

La Turchia, negli ultimi decenni, oltre ad aver attuato una crescita economica, ha avuto anche un ruolo non trascurabile negli sviluppi geopolitici regionali. Il che ha permesso ad Erdogan, sia come primo ministro che in seguito come presidente, di mettere attivamente in pratica quella che ormai viene riconosciuta come la “Dottrina Davutoğlu”. Una dottrina presentata in un libro di un professore di relazioni internazionali all’università di Istanbul. Il libro, intitolato Profondità Strategica. La Posizione Internazionale della Turchia, è stato pubblicato nel 2001. L’autore, Ahmet Davutoğlu, trattava nel suo libro quello che il presidente turco ai primi anni ’90 del secolo passato, Turgut Özal, considerava un obiettivo strategico della Turchia. Secondo il presidente “Il 21o secolo sarà il secolo dei turchi”. Il che poteva garantire una “… giusta posizione della Turchia nel mondo”. L’autore del sopracitato libro era convinto che “…era venuto il tempo di attuare un nuovo approccio proattivo e multidimensionale nella politica estera, cominciando con tutta l’area d’influenza dell’ex Impero ottomano”. Per lui erano “… molto importanti anche l’eredità storica e i legami etnico-religiosi e culturali stabiliti, intessuti e consolidati durante secoli dall’Impero Ottomano”. In seguito Ahmet Davutoğlu, per i suoi contributi, è stato consigliere di Erdogan, poi ministro degli Esteri (2009-2014) e anche primo ministro (2014-2016).

L’Albania è stata parte integrante dell’Impero ottomano dal 1385 fino al 1912. Perciò, come tale, rappresenta uno dei Paesi ai quali si riferisce la “Dottrina Davutoğlu”. E i rapporti tra la Turchia e l’Albania durante questi ultimi anni lo confermano. Ma oltre ai rapporti istituzionali tra i due Paesi, soprattutto dal 2013 ad oggi, bisogna evidenziare anche i rapporti di “amicizia” tra il presidente turco ed il primo ministro albanese. Rapporti che, fatti accaduti e pubblicamente noti alla mano, dimostrano e testimoniano che più che rapporti tra due massimi rappresentanti istituzionali, sono rapporti personali, basati su degli “interessi” spesso non trasparenti. Rapporti che presentano il primo ministro albanese come un “ubbidiente sostenitore” delle volontà del presidente turco. L’autore di queste righe ha informato il nostro lettore a tempo debito, sia di questi rapporti che del contenuto della “Dottrina Davutoğlu” (Erdogan come espressione di totalitarismo, 28 marzo 2017; Relazioni occulte e accordi peccaminosi, 11 gennaio 2021; Diabolici demagoghi, disposti a tutto per il potere, 18 gennaio 2021; Amicizie occulte e sudditanze pericolose, 24 gennaio 2022; Autocrati che usano gli stessi metodi non a caso si somigliano, 24 ottobre 2022; Come si può credere ad un ciarlatano?, 29 agosto 2023 ecc…).

Nell’ambito di questi rapporti è stata anche la visita del presidente turco giovedì scorso, 10 ottobre, nella capitale albanese. Una visita che formalmente era dovuta all’inaugurazione della più grande moschea nei Balcani, costruita con dei finanziamenti turchi. Un’inaugurazione che, nonostante la costruzione della moschea fosse terminata da alcuni anni, è stata rimandata proprio per volontà del presidente turco. Sì, perché lui condizionava l’inaugurazione della moschea con la condanna dei sostenitori di Fethullah Gülen, un suo amico che poi è diventato un odiato nemico. Compresi anche alcuni dirigenti della Comunità musulmana albanese. Comunità che doveva prendere possesso della sopracitata moschea. Anche di questi fatti il nostro lettore è stato informato.

Quello che è pubblicamente accaduto giovedì scorso ha testimoniato che il primo ministro albanese ha pienamente soddisfatto le richieste del presidente turco. La cerimonia dell’inaugurazione della moschea, vista la presenza del presidente turco, non è stata organizzata però dal protocollo dello Stato albanese, bensì da quello turco. I veri organizzatori della cerimonia non hanno invitato il dirigente della Comunità musulmana albanese e anche la maggior parte degli altri rappresentanti istituzionali della stessa Comunità. Senz’altro un’espressa condizione del presidente turco. Non solo, ma anche la cerimonia religiosa è stata presieduta da un imam turco, il quale è stato nominato dalle autorità del suo Paese come l’imam della nuova moschea. Da fonti ben informate risulterebbe che dentro la moschea erano non pochi i partecipanti non albanesi, ma che conoscevano molto bene la lingua turca. Lingua con la quale sono stati svolti tutti i riti religiosi durante la cerimonia, e non più quella araba, come di consueto. Tutto quanto è accaduto giovedì scorso, 10 ottobre, durante la cerimonia d’inaugurazione della nuova moschea a Tirana, ha riconfermato che la “Dottrina Davutoğlu” sta funzionando in Albania ed il primo ministro albanese ubbidisce ed acconsente. Quanto è accaduto giovedì scorso testimonia anche una sua pericolosa sudditanza, la quale potrebbe avere delle conseguenze non auspicabili e non solo per la stessa comunità musulmana albanese. Bisogna sottolineare che durante la sua visita il presidente turco ha annunciato anche un accordo per fornire dei droni kamikaze da combattimento “TB2 Bayraktar” all’esercito albanese. Droni che, guarda caso, si producono nelle fabbriche del genero di Erdogan. Chissà perché?!

Chi scrive queste righe considera come una vile e pericolosa sudditanza quella del primo ministro albanese nei confronti del presidente turco. Un autocrate con i cittadini albanesi, ma che ubbidisce vergognosamente però a colui che è ormai noto come il nuovo “sultano turco”. E con quell’autocrate, che ubbidisce al “sultano”, ma anche alla criminalità organizzata e ai clan occulti, il peggio non è finito per gli albanesi e non solo. Perché, come scriveva William Shakespeare, finché possiamo dire ‘quest’è il peggio’, vuol dir che il peggio ancora può venire.

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