Interviste

Nessun uomo è un’isola

Intervista a Roberto Li Calzi, pioniere dell’agricoltura biologica e dei gruppi di acquisto solidale in Europa.

Sulla costa a metà strada tra Catania e Siracusa, in una zona di campagna, ha preso forma e si sta sviluppando un interessante progetto di comunità rurale denominato “Il Giardino delle Bio-Diversità”. Qui, oltre a favorire e a coltivare la biodiversità vegetali con metodi di agricoltura biologica lavorano, collaborano o soggiornano anche per tempi brevi, persone di diverse origini, cultura, età e credo religioso.

Ciao Roberto. Come nasce questo progetto?

Nasce sicuramente dall’incontro tra una lunga storia di militanza politico/sociale con l’esigenza di molti giovani di cambiare radicalmente paradigma (in questo, l’emergenza COVID sta molto aiutando la nostra esperienza così come tante altre analoghe in giro in Europa e forse anche altrove). L’evento catalizzatore è stato l’intenso confronto con Dominique Marchais, il regista francese del film Nul homme est un’ile (Nessun uomo è un’isola – dove si parla anche della nostra esperienza). In sostanza, tempo fa avevo abbandonato dei terreni che avevo coltivato per diversi lustri in bio ad ortaggi in quanto mi avevano costruito proprio in mezzo un’autostrada. Confrontandomi con Dominique, che nei suoi lavori cinematografici tratta sempre del rapporto tra l’uomo e la natura, mi sono detto: “Ma no! Piuttosto che arretrare di fronte all’antropizzazione che avanza, piantiamo una foresta che si mangi l’autostrada! Attorno ad essa facciamo crescere piante alimentari in quantità e diversità e mettiamoci dentro a lavorare tanta altra diversità umana, culturale, religiosa, etc; e non a lavorare da dipendenti, ma tutte e tutti responsabili!”

Attualmente con chi condividi questo progetto?

Ci sono io, un vecchio agricoltore biologico dal 1982 e promotore di molte iniziative nel campo dell’economia solidale (tra cui il Consorzio Siciliano Le Galline Felici) in Sicilia, in Italia e negli ultimi anni anche su scala europea ed otto giovani e giovanissimi di diverse nazionalità.

Moustafà, marocchino di trentasei anni (che lavora con me da sette) assieme alla sua compagna Naywal ed il loro piccolo neonato Ayub di tre mesi.

Catherine, parigina di trentun anni, che vive con me da poco più di due che lavora per il sunnominato Consorzio. Ha fatto studi nel campo della cultura. Ha lasciato il suo impiego presso un’associazione di cinema indipendente di Parigi per stare con noi dopo aver visto il film di Dominique. Da allora non se n’è più andata.

Giacomo, romano di ventinove anni con una brillantissima carriera di ricercatore universitario in matematica, pura e astratta, e con molte pubblicazioni alle spalle; ha lasciato l’università per venire a piantare qui banani ed avogados. Con lui e sua sorella, coordinatrice di ricerca negli stessi campi a Montpellier (Francia), abbiamo da poco costituito la società agricola “Il Giardino delle Bio-Diversità”.

Anna, ventiquattrenne ligure; studi economico-sociali ed anni di volontariato. Tempo fa mi chiese di poter passare un periodo di tempo con noi e adesso è nostra dipendente.

Malik, francese di origine algerina. Ventiquattro anni. Studi sociali. Era venuto a trovare Anna, conosciuta durante il volontariato nei Balcani. Oggi pianta e zappa con noi ed è anche lui un nostro dipendente.

Fusako, giapponese. Trentasette anni. Ha vissuto quattordici anni in Spagna. È con noi da pochi mesi. Pensiamo e speriamo che non vada più via.

A tutti questi ragazzi si sommano vari membri della comunità territoriale.

Poi molte altre persone di tutte le nazionalità sono passate e passano da qua. Negli anni scorsi abbiamo provato ad inserire un gruppo di migranti africani, ma l’arrivo al governo di alcuni personaggi ha fatto fuggire tutti in altri Paesi europei.

Quali sono le vostre attività?

Innanzitutto facciamo agricoltura biologica su una scala grande, per noi piccoli: un centinaio di tonnellate di agrumi vari, una ventina di banani e spero anche presto una decina di avogados (abbiamo diversi nuovi impianti), mentre su una scala molto più piccola, produciamo olio extravergine d’oliva, uova, una vasta gamma di ortaggi e un po’ di frumento. Al contempo stiamo anche costruendo una piccola comunità locale con altri soggetti attivi sul territorio (nel raggio di 4/5 km) per dimostrare che “insieme è molto, ma molto meglio!”.

Ci sosteniamo frequentemente in varie attività ed organizziamo settimanalmente “pranzi e cene di territorio”. Ci prendiamo cura anche dell’ambiente tenendo pulite dalla monnezza le strade di accesso e pulendo le coste prospicienti. Ricicliamo in modo artistico, quando possibile, alcune delle cose che vengono buttate dalla gente. In questo modo cerchiamo di dare una risposta concreta ad alcuni dei moltissimi giovani che stanno lasciando (o meditano di lasciare) la vita urbana ormai ritenuta da molti poco appagante. Giovani che ci chiedono lumi e appoggio (impossibile per tutte/i) e, per questo, stiamo pensando di costituire una cooperativa di servizi che possa da un lato impiegare giovani, anche migranti, e dall’altra facilitare l’esecuzione dei lavori agricoli ad alcuni dei piccoli e piccolissimi agricoltori. Sperimentiamo, inoltre, tecniche innovative, sia in campo agricolo, che in quello energetico. Cerchiamo di produrre e distribuire cultura, organizzando con discreta frequenza delle “cine-cene”, feste, incontri, etc.

Stiamo anche progettando di acquistare un casolare di proprietà di un mio fraterno amico allevatore, ormai vecchio e stanco, per realizzarvi un “condominio solidale”, un centro culturale ed una mensa aperta al territorio e rifornita principalmente dai nostri prodotti. E, caro Karl, abbiamo in mente tante e tante altre cose.

Quali obiettivi a breve, medio e lungo termine?

A breve: consolidare le posizioni lavorative, creando altra economia reale (lo stiamo facendo, impiantando altri alberi e banani)

A medio: realizzare il già citato condominio solidale /centro culturale /mensa territoriale.

A lungo periodo: essere ancor di più un esempio concreto per molti giovani per fare quel famoso passo e riuscire a produrre più intensamente eventi e cultura.

Roberto, cosa avresti piacere di dire ai nostri lettori più o meno giovani?

Il mondo scivola sempre più sulla china dell’autodistruzione. A parte le scelte dei potenti (che continuano a propinarci le stesse ricette consumiste e devastanti il pianeta) c’è molto che potremmo fare personalmente; ma siamo accecati da una smisurata fame di falsi bisogni, scientificamente creata attraverso tutti gli strumenti “culturali” a disposizione del potere economico, compresa l’induzione all’individualismo più sfrenato. Tuttavia, se rivalutiamo intimamente e praticamente, il senso di comunità, che è stata per millenni la condizione principale per la sopravvivenza della specie umana (perché anche se sei Rambo, il Mammoth da solo non lo prendi e col piffero che tieni acceso il fuoco, da solo, per tutta la notte, tutte le notti!), potremmo accorgerci che abbiamo veramente bisogno di poco e che ciò di cui abbiamo bisogno ci può arrivare, e facilmente ci arriva, dalla comunità stessa, alla quale ricambiare con la stessa “moneta”. In questo modo la vita diventa più facile e bella, abbiamo bisogno di molto meno lavoro (noi, al momento, lavoriamo parecchio, se necessario!), possiamo occuparci dei nostri figli (e sottolineo nostri, in senso comunitario; già lo facciamo con Ayub, il figlio di Moustafà), senza bisogno di infasciarli la mattina presto e lasciarli alla nonna o all’asilo per andare a vendere il nostro tempo in cambio di quattro soldi; possiamo godere di un cibo di altissima qualità intrinseca (da noi si mangia benissimo!) e sempre molto vario; possiamo godere della socialità stessa di una comunità che si sostiene reciprocamente, e fare feste e ballare spesso! Ma, si badi bene! Non sto parlando di una comunità rinchiusa al suo interno, bensì costantemente aperta a cercare di svolgere una semplicissima azione pedagogica, ovvero, “vi dimostriamo con tutti i nostri atti, che insieme è molto, ma molto meglio!”.

Perché noi tutto questo lo facciamo quotidianamente o, quanto meno, cerchiamo di farlo, umani come siamo, vittime di qualche secolo di cultura che ci ha indotto a pensarci ben diversamente.

 

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