Politica

9 febbraio, giornata della memoria del futuro dell’Italia

Non fu una “parentesi”, ma un salto nel futuro; non fu nemmeno un’esperienza troppo precoce per i tempi, ma la dimostrazione che volendo l’Italia aveva già tutti i semi della più avanzata democrazia.

Eppure pare che l’Italia di oggi faccia fatica a ricordare la Repubblica Romana di Mazzini, Saffi e Armellini, che il 9 febbraio di esattamente 170 anni fa introdusse regole di diritto all’avanguardia e che poi il nostro paese si sarebbe scordato per un pezzo.

Non fu sogno utopico, ma realtà costituzionale. Non si parla di una landa del Nuovo Mondo, ma di una delle capitali più conservatrici d’Europa – la Roma papalina sottratta alle riforme illuministiche che pure toccarono Napoli, Firenze, Milano.

Ma, quasi in forma di riscatto, nel 1849 Roma si trasformò in un cantiere di innovazioni. Venne stabilito il suffragio universale, concedendo dunque il voto anche alle donne (anche se nella pratica poi prevalse una certa consuetudine) – un secolo prima della costituzione repubblicana del dopoguerra. Si affermò la libertà di culto, anche per gli ebrei, in una capitale che aveva ancora un vero ghetto. Si sancì la separazione tra Stato e Chiesa, in una Roma fino ad allora quasi teocratica, e con una determinazione ben maggiore di certi sotterfugi odierni.

Si dotarono i municipi di piena autonomia decisionale, in base a un semplice principio di sussidiarietà e introducendo quel decentramento e quel federalismo dei territori negato fermamente dalle riforme napoleoniche e sul quale ancora oggi si continua a pasticciare. Si abolirono la pena di morte, la tortura, perfino la censura, in un’epoca, che durò fino all’altro ieri, nella quale per certe cose si andava per le spicce. Senza demagogia la Repubblica declinò una serie di diritti – dalla libertà d’insegnamento a quella di associazione, fino al diritto alla casa e alla proprietà  – ma si soffermò anche su un concetto chiaro e caro a Mazzini: i doveri. Tra essi, anche il concorrere a un esercito di popolo, concetto modernissimo in quell’Italia schiava di mercenari e truppe straniere.

Tutto l’impianto della Repubblica Romana rappresentò una lezione di progresso in atto e non teorico, senza quelle ingenuità che si trovano facilmente in analoghi tentativi.

Basta concentrarsi su un tema oggi lacerante: il confronto con l’“altro”. La cittadinanza fu concessa a tutti i non italiani residenti da dieci anni, con uno spirito di apertura eccezionale per l’epoca come per il presente – e anziché demonizzare gli stranieri si preferì concentrarsi sui nemici interni, abolendo “tutti i privilegi di nobiltà, nascita o casta”. Nel 1849 a Roma si guardava al resto del mondo senza complessi, stabilendo che la “repubblica riguarda tutti i popoli come fratelli: rispetta ogni nazionalità: propugna l’italiana”. La felice formula è una lezione per lo stentato europeismo di oggi, per la confusione che continuamente si fa tra “popolo europeo” ed “Europa dei popoli”, tra identità nazionale e comune origine e destino di fratelli.

E a mettere chiarezza sulla legittimità democratica, il primo articolo della costituzione afferma un concetto ancora oggi tanto travisato: “La sovranità è per diritto eterno nel popolo”.  La sovranità dunque non è “del” popolo, ma “nel” popolo. I cittadini non dispongono della sovranità in modo tale da poterla cedere a terzi – siano l’uomo forte di turno che raccoglie consensi maggioritari, o un’astratta entità burocratica sovranazionale. No: la sovranità resta dentro il popolo, da lì non può muoversi.

Il 9 febbraio non si ricorda dunque un museo, un feticcio che poi viene messo in naftalina per i giorni restanti. Non si dovrebbe parlare di “commemorazione”, ma di festa, come si festeggia il futuro migliore. Ma non è così.

Se ogni anno i mazziniani preservano il rito di una laica “giornata della memoria”, con le tradizionali cene o con qualche convegno (in questi giorni se ne segnalano a Firenze, in Romagna, in Calabria, in Sicilia, e ancora), la ricorrenza resta sconosciuta ai più.

Quasi un’operazione di rimozione di quel coraggio, di quella laicità, di quello stato di diritto – troppo per l’Italia di ieri e forse anche di oggi. Al punto che molti problemi del nostro paese sono quasi diretta conseguenza di questo oblio e che la lezione più attuale della Repubblica Romana è una lezione “per assenza”.

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