In attesa di Giustizia: 2 giugno
E’ iniziata, con prima tappa a Cagliari il 29 maggio, la maratona oratoria a livello nazionale della durata di due mesi organizzata dall’Unione delle Camere Penali: avvocati, docenti universitari, garanti dei detenuti e rappresentanti di associazioni, con interventi della durata di un’ora ciascuno, si alterneranno a staffetta per giornate intere davanti ai Tribunali per informare e coinvolgere la società civile sul tema delle condizioni e dei suicidi nelle carceri che sono già oltre trenta da inizio anno.
Vigilando redimere era il motto del Corpo degli Agenti di Custodia prima che venisse trasformato in Polizia Penitenziaria e, senza scomodare Cesare Beccaria, dice tutto: il carcere deve essere un luogo destinato alla rieducazione e non una discarica umana nella quale rinchiudere uomini e donne – in attesa di giudizio, così come i condannati – a marcire con la punizione aggiuntiva della mancanza di igiene, spazi vivibili e strutture adeguate sia sanitarie che volte al recupero per restituirli migliorati alla libertà.
La Repubblica festeggiata il 2 giugno è, purtroppo, lontana da quella pensata e disegnata dai Padri Costituenti, è una Repubblica sotto processo che negli ultimi trent’anni ha visto sfumare la funzione essenziale della Giustizia attraverso il conflitto tra magistratura e politica e poi – o, meglio, nel frattempo – quello interno all’Ordine Giudiziario con rese dei conti e contrapposizioni che sono emerse in una realtà ancor più desolante e preoccupante di quanto si era immaginato dopo le rivelazioni di Luca Palamara e l’analisi impietosa che dell’indagine a carico di costui ha fatto Alessandro Barbano (licenziato dopo solo un mese dalla direzione del “Messaggero”, forse perché troppo liberale) in un libro in cui illustra come il regime delle intercettazioni distrugge vite e sovverte le regole del potere.
Ecco, da trent’anni a questa parte le riforme, quelle strutturali e ragionate, l’adeguamento degli istituti penitenziari ai canoni costituzionali, il rispetto per le vite umane, hanno subito l’effetto di bracci di ferro come quello tra i magistrati e Berlusconi la cui morte non ha chiuso la partita; e poi, populismo normativo con leggi che sono meri spot elettorali, l’assalto al Quirinale con la sconclusionata inchiesta sulla Trattativa Stato-Mafia, le lotte intestine alle correnti per l’aggiudicazione delle Procure più ambite e chi più ha memoria più ne metta.
Come dire: la storia d’Italia degli ultimi decenni si è scritta di più nei tribunali che nelle aule parlamentari e la deriva giustizialista non conosce confini: un esempio recentissimo si rinviene nella motivazione con cui è stata respinta la richiesta di scarcerazione dell’ex presidente dell’Autorità Portuale di Genova, Paolo Signorini: “perché non si è mostrato consapevole del disvalore della sua condotta”, insomma non si è pentito a sufficienza, stia in galera. Il ragionamento è più da Stato etico che di diritto e ben potrebbe essere uscita dalla penna di un GIP di Teheran come se il carcere dovesse servire a questo.
Vittime di un sistema, questo sì autoritario ed arroccato nella protezione del proprio debordante potere, sono state le centinaia di persone arrestate e assolte durante la stagione di Mani Pulite o sarebbe meglio dire mani grondanti di sangue se si considerano i quarantuno suicidi senza risposta risalenti all’epoca di Tangentopoli che ha segnato un modo di intendere la carcerazione preventiva che continua a mietere capri espiatori senza colpa né peccato mentre in carcere si continua a morire per una disperazione che non di rado è frutto della consapevolezza di patire ingiustamente quel tormento in condizioni che hanno indignato i partner europei o per sfiducia nella giustizia.
Troppe sono le morti di chi lo Stato dovrebbe salvaguardare e recuperare, morti che sono delle ferite inferte alla democrazia e non solo “possibili fonti informative perdute” come ritiene, mostrando ripugnante insensibilità Piercamillo Davigo.
Ma lo spirito di Einaudi e di quelli come lui che costituirono la classe dirigente del miracolo del dopoguerra è pur sempre nel DNA di questo Paese e dovrà pure tornare a manifestarsi insieme a quella disciplina ed onore che la Costituzione pretende dai cittadini, dunque anche i magistrati, cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di impiegare nel loro adempimento…in attesa di Giustizia.