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In attesa di Giustizia: a volte ritornano

Tiepida la notizia che Maria Angiuoni, l’ex P.M. che per prima si occupò del sequestro di Denise Pipitone, è stata indagata a sua volta per false dichiarazioni dopo essere stata ascoltata in relazione alle sue bizzarre investigazioni private sulla sparizione della bimba siciliana, troppo occupato il C.S.M. nel bandire un concorso per otto autisti da destinare ad altrettanti Consiglieri i cui tormentati arti inferiori non possono sopportare l’affronto di spostarsi utilizzando i mezzi pubblici messi a disposizione da Virginia Raggi; è bastata una settimana senza nemmeno un arresto, senza sputtanamenti per prove a discarico nascoste alle difese, senza regolamenti di conti più o meno palesi tra correnti diverse della magistratura associata, per ridare fiato al massimo cultore del giacobinismo manettaro e coraggio ad una paio di zombie di cui, nell’agone politico, nessuno sentiva la mancanza. A volte ritornano.

Ricorda, allora, Piercamillo Davigo che dopo una condanna ancora appellabile non si può più seriamente parlare di presunzione di innocenza e parla di effetti devastanti come conseguenza di una modifica referendaria delle norme sulla carcerazione preventiva, paventando un futuro in cui orde di criminali lasciati liberi potranno scorrere in armi le campagne.

Nel mentre che il sipario si alza su questo teatrino che non ha nulla di nuovo, neppure quanto a falsità (peraltro, abilmente ammannite) riappaiono sulla scena due filosofi della corrente di pensiero secondo cui il fatto prova il reato e l’unica spiegazione plausibile di un fatto è un reato.

Parliamo di Antonio Ingroia, insuperabile collezionista di fallimenti politici, e di Antonio Di Pietro che sembrano volersi mettere nuovamente in gioco cavalcando l’onda della secessione grillina.

Sì, a volte ritornano, proprio come in una raccolta di racconti firmata da Stephen King; per fronteggiare l’orrore ed alimentare la speranza può quindi essere di conforto proporre – a dieci anni esatti di distanza – lo scritto di un Magistrato, Giuseppe Maria Berruti.

“La vicenda nata dalle indagini palermitane (di Antonio Ingroia, n.d.r.) e sfociata negli attacchi al Quirinale, dimostra la necessità di cambiare profondamente il meccanismo giudiziario. Sono un Magistrato, sono stato componente del C.S.M.: i magistrati non possono avere la coscienza tranquilla. Hanno rifiutato il tentativo di autoriformarsi attraverso il loro governo autonomo e si trattava dell’ultima possibilità di affrontare il cambiamento. La grande intuizione del potere diffuso del giudice singolo, cioè della libertà del giudice singolo di interpretare la legge, si giustifichi solo con il possesso di una professionalità assoluta, controllata e controllabile: altrimenti diventa una volgare domanda di irresponsabilità alla quale si contrappone la barbarie della responsabilità civile diretta che trasforma il cittadino in avversario in giudizio nel momento stesso in cui entra nella stanza del giudice. La vicenda spaventosa del Presidente della Repubblica ascoltato in una conversazione di Stato dimostra che non c’è più tempo e mi auguro che le culture liberali e costituzionali facciano la parte che la Storia impone.”

Nell’Ordine Giudiziario, come si vede (lo scritto è del 24 giugno 2011) e come in questa rubrica si è sempre sostenuto, vi sono personalità di prim’ordine, capaci di lucide e lungimiranti analisi, di autocritica severa e costruttiva e nel ritorno alla ribalta di figure come questa, piuttosto che degli indignati in servizio permanente effettivo, si deve confidare perché si possa parlare, prima ancora che di attesa di Giustizia, di rinascita dello Stato di Diritto, di un sistema che più che di riforme ha necessità di essere rifondato.

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