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In attesa di Giustizia: fine pena mai

Si è concluso il processo a carico di Alessia Pifferi accusata dell’omicidio della piccola Diana, sua figlia, e si è concluso secondo un copione che sembrava già scritto prima ancora che iniziasse e che accadesse l’imprevedibile con la inusitata ed opinabile scelta del Pubblico Ministero di indagare – ad udienze in corso e con grande risalto – il difensore dell’imputata e le psicologhe di San Vittore sospettate di aver alterato gli esiti della osservazione diagnosticando disturbi della personalità che avrebbero potuto condurre ad una sentenza quantomeno mitigata dalla infermità di mente.

Ma il popolo italiano (quello nel cui nome sono, o dovrebbero essere, pronunciate le sentenze), animato dal vizio populista di reclamare la forca una decisione l’aveva già presa senza abbandonare quello di etichettare gli avvocati e senza bisogno di essere ulteriormente condizionati.

Sola nelle scelte tecniche e strategiche cruciali, criticata, indagata, insultata e minacciata, Alessia Pontenani ha mostrato un impegno come difensore che richiama al ricordo le parole di Ettore Randazzo – un grande avvocato che ora non c’è più – riferite ai colleghi che assistevano i presunti assassini di un collega ucciso per non essersi piegato ai desiderata di una cosca. Quelle frasi intense e intrise di sensibilità sono tornate alla mente modificate ed attualizzate: “non la invidio: difende una madre accusata di avere assassinato la sua bimba. La invidio: sventola il vessillo della Toga, ancora più bello e orgoglioso quando svetta tra le avversioni e le ostilità”.

L’avvocato Pontenani ha fatto del suo meglio, optando per una difesa tecnica per nulla banale e scontata che era ed è l’unica coerente con la logica e le prove: ha sostenuto che si trattasse di un caso di morte come conseguenza non voluta di altro reato. Se quella madre avesse voluto sopprimere la sua creatura, vista come un ostacolo alla sua quotidianità, lo avrebbe potuto fare in moltissimi altri modi e momenti, ma non vi è prova che fosse quella la sua intenzione. Scellerata, anaffettiva, libertina…della Pifferi si possono certamente dare giudizi molto severi che possono essere tenuti in conto come contributo non esclusivo nella misurazione della pena e solo dopo avere attribuito la responsabilità per fatti penalmente rimproverabili correttamente qualificati secondo i parametri della legge: e quello della piccola Diana non è un omicidio voluto ma la conseguenza dell’abbandono –(fatto spregevole, non v’è dubbio, ed è un reato infamante anche quello) per dedicarsi altrove al fidanzato del momento – circostanza eticamente riprovevole, nessun dubbio anche in ordine a ciò – e non era neppure la prima volta. Pessima cosa, ma non era mai successo niente in passato e per una persona affetta da evidenti deficit cognitivi pur non essendo una malata di mente è stato sufficiente per riprovarci “alzando l’asticella”.

E la volontà di uccidere la bimba da cosa si ricava, dov’è la prova di quello che si chiama “dolo di intenzione”? Colpevole, ma di un crimine diverso dall’omicidio volontario che prevede comunque pene severe.

Alessia Pontenani, sostenendo questa tesi giuridicamente sensata ha sicuramente fatto riflettere i due giudici togati, sicuramente ha non ha convinto i sei “giurati” che, esprimendo il proprio voto, hanno seguito percorsi argomentativi diversi, impressionati dal fatto in sé, dalla crudezza dei dettagli; e non è colpa loro se per nulla si intendono di sovrapponibilità della fattispecie concreta a quella astratta ai fini della qualificazione giuridica del fatto, elemento psicologico del reato, differenza tra dolo eventuale e colpa cosciente: questioni non sempre di agevole soluzione anche per i giuristi e complicatissime da chiarire in una camera di consiglio arroventata dalle emozioni, in una manciata di ore, con parole semplici.

Alla fine, è parere del curatore di questa rubrica, ha prevalso la visione di una giustizia più da Stato Etico che da Stato di Diritto.

La decisione della Corte deve, comunque, essere rispettata e se non condivisa la si appella. Indigna – invece – l’ondata di insulti e odio riversata sul difensore dalla solita accolita dei “leoni da tastiera” che, a modo loro, distinguono il mondo tra buoni e cattivi spostando l’asse dal mondo delle idee e del pensiero a quello degli schieramenti contrapposti.

Alessia Pontenani che ha unicamente fatto il suo dovere non merita tutto questo come la sua assistita, forse, non meritava l’ergastolo: molti nemici molto onore, avrebbe detto qualcuno ma non è politically correct e, allora, a questo coraggioso avvocato sia dedicato in omaggio il pensiero di Bertold Brecht: “abbiamo scelto di sedere dalla parte del torto perchè da quella della ragione i posti erano tutti occupati”.

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