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In attesa di Giustizia: il giudizio del TVibunale

Il suicidio di un ragazzo è già, di per sé, un evento altamente drammatico quali che ne siano le ragioni e  non si è ancora compreso perché si sia suicidato – ormai più di un anno fa – il giovane innamoratosi perdutamente “on line” di un falso profilo femminile messo, viceversa, in rete da un uomo di sessantaquattro anni, né perché costui lo abbia fatto: forse un  cervellotico gioco d’amore, un tentativo di truffa finito male, un passatempo  idiota? Sta di fatto che, al di là dello squallore di fondo ed in mancanza di altri elementi da cui dedurre la prova di un’istigazione a togliersi la vita (che, esaminata tutta la “corrispondenza” tra i due) pare non vi siano, quell’uomo avrebbe dovuto rispondere di un reato minore: sostituzione di persona.

Ma è stato proprio quello squallore di fondo a suscitare morbose curiosità  mettendo in moto la macchina della giustizia mediatica, pronta ad enfatizzare la vicenda per offrire un tributo alla divinità pagana dello share. Ore ed ore al giorno a chattare, oltre ottomila struggenti messaggi con una sedicente Irene Martini conclusi dalla impiccagione di un giovanotto, la cui rete sociale era evidentemente molto debole, non possono liquidarsi con l’incriminazione per un reatuccio…e allora parte la caccia volta ad infiorettare il tutto mettendo alla gogna e citando in giudizio davanti al tribunale della TV il reprobo di turno. Che certamente nascondeva qualcosa di oscuro nella sua personalità, ma non è dato accertare se quella morte fosse il fine che si proponeva.

Braccato e linciato in favore di telecamera dai giornalisti de “Le Iene” (è il caso di dire: tanto nomine nullum paret  ossequium) il successivo suicidio anche di quest’uomo dovrebbe, più che porre interrogativi, segnare semplicemente un punto di non ritorno. Dovrebbe, perché questo non accadrà. Se ne parla, sì, con qualche sommessa riflessione, tanto sarà uno sporcaccione, un di meno: il massimo che si è ottenuto è un intervento dell’editore che naturalmente difende il modo di fare giornalismo della sua trasmissione concludendo che il suicidio disperato della preda dei cronisti è qualcosa che “non deve più succedere”, che  è successa perché “capita di andare oltre ciò che è editorialmente giusto”. Conclude, infine, con un autorevole monito: “dire basta ad un certo tipo di giornalismo sarebbe come tornare indietro invece che andare avanti. Ma il punto è come viene fatto, servono attenzione e sensibilità, non è facile …dico che quella cosa lì non mi è piaciuta”.

“Quella cosa lì”, come la chiama Piersilvio Berlusconi, è invece la cifra e la ragione stessa di quel giornalismo e se qualcuno che viene esposto al linciaggio si suicida è questione eventuale. C’è chi riesce a sopravvivere e chi no, presunto responsabile o innocente che sia.

E in cosa consiste questo “certo tipo di giornalismo”, rinunciando al quale cadremmo nelle tenebre più profonde della inciviltà? Va bene la prima parte: raccogliere notizie, riscontrarle, rendere pubbliche le testimonianze raccolte, sollecitare l’attenzione dell’autorità giudiziaria, ma il veleno è in coda e arriva dopo, ed è la presa al laccio del presunto colpevole per offrire quella spettacolarizzazione che alimenta l’interesse per l’inchiesta. E quel momento è lo sputtanamento: chi sia un colpevole, quanto sia colpevole, come e perché sia colpevole, lo decide una redazione e ne demanda il giudizio al TVibunale.

Inchieste che si alimentano di rimproverabilità solo ipotizzata: sono la riprovazione, la indignazione popolare tossica, che funzionano nel senso di  creare ascolti, il tutto alimentato dalla cultura della intolleranza e del sospetto. Che inchiesta sarebbe, del resto, se si dovesse stanare un colpevole vero, cioè accertato come tale in un giudizio? È il sospetto che ci inferocisce, è l’idea di avere stanato e dato in pasto ai guardoni un bastardo. Mostratelo, si celebrino tutti i rituali di degradazione proponendo in diretta in che modo si giustifica, balbetta, e suda un po’ come Arnaldo Forlani, trent’anni fa al processo “ENIMONT”: in fondo Mani Pulite fu la madre di qualsiasi sovversione dei parametri costituzionali e di elementari  sentimenti di umanità e, le sentenze non sono in nome del popolo italiano ma a furor di popolo, schiumando rabbia e sbavando.

Il Tribunale mediatico esercita così la sua giustizia ed infligge le sue sanzioni senza tanti inutili orpelli come quell’altra, celebrata da giudici e avvocati, che è una legalità soporifera, formalistica.

Panem et circenses, gladiatori contro leoni, questi sono gli spettacoli graditi e l’unica giustizia che funziona, quella – appunto – a furor di popolo. Ci scappa il morto? Pazienza, “quella cosa lì non ci è piaciuta”: tutto sommato è solo  la fine della vita di un essere umano.

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