In attesa di Giustizia: la fabbrica della peste
Bene ma non benissimo: questa volta, invece di affidarsi a spifferi di cancelleria o Questura, la notizia della chiusura delle indagini, nome degli indagati, incolpazioni è stata ufficializzata direttamente dalla Procura della Repubblica di Bergamo prima ancora che venissero effettuate le notifiche a difensori ed accusati. Il riferimento è all’inchiesta per epidemia colposa a causa della mancata istituzione della zona rossa: un’opera investigativa mastodontica che ha fatto incetta di migliaia di documenti, sms, mail e – neanche a dirlo – della corposa consulenza del virologo di turno, Crisanti naturalmente, il quale ha precisato che il suo intento non era quello di formulare un atto di accusa ma restituire la verità agli italiani: evidentemente dispone anche di una sfera di cristallo tramite la quale ha divinato il numero di morti, precise al decimale, che si sarebbero potute evitare applicando le restrizioni.
Anche dalla Procura orobica si levano voci e considerazioni circa l’esigenza di soddisfare la “sete di verità” che con un processo penale ha poco a che vedere: il Capo dell’Ufficio per primo ha affermato “noi non accusiamo nessuno (e due!) ma offriamo uno spunto di riflessione”; bizzarro, e noi che credevamo che le Procure avessero come compito quello di perseguire i reati e non di far meditare quel popolo italiano nel cui nome viene amministrata la giustizia e neppure di valutare scelte politiche, districandosi tra competenze comunali, regionali e governative confusamente accavallatesi di fronte ad un “nemico” sconosciuto ed apparentemente invincibile: un’analisi che competerà alla istituenda Commissione d’Inchiesta Parlamentare…se mai verrà istituita.
La sensazione è che la montagna (di atti d’indagine) partorirà un topolino (in termini di risultato sotto il profilo della rimproverabilità penale) ma nel frattempo una prima risposta – per quanto ondivaga – c’è stata per mano dei pubblici dispensatori di sicurezza e giustizia e l’immagine del processo esemplare trasmessa a reti unificate.
Gli indomiti paladini della legge, a prescindere da quali responsabilità verranno mai accertate, se mai lo saranno, hanno dalla loro un precedente lombardo cui – forse – si sono ispirati per saziare quella ribadita aspettativa di verità dei cittadini: gli untori ed il processo che portò al supplizio Giangiacomo Mora e Guglielmo Piazza.
Ecco, sì, gli untori: tipologia di uomini partoriti dalla irrefrenabile voglia di individuare un bersaglio in carne ed ossa grazie anche al contributo delle bizzarre teorie di dotti e benpensanti del 1630 (e qui, la similitudine si rafforza con gli accadimenti ed i protagonisti dei giorni nostri). Serve sempre un colpevole, giustiziato il quale un traballante equilibrio sociale va a ricomporsi sul principio “occhio per occhio, dente per dente”.
Gli untori del XXI secolo sono, però, più sofisticati e tecnologicamente avanzati: forse si annidavano originariamente nei sotterranei di qualche segretissimo laboratorio dedicato allo studio dei virus per impiego bellico ed i loro complici involontari sono politici imbelli ed incapaci, ma la tendenza di vedere negli uomini le tracce di una malvagità da estirpare è sempre formidabilmente radicata non meno dell’aspettativa di una giustizia da realizzare a furor di popolo, nella post moderna erezione di una colonna infame questa volta stampata sulle pagine di una avviso di conclusione delle indagini invece che iscritta nella epigrafe “lungi, adunque, da qui buoni cittadini, chè voi l’infelice, infame suolo, non contamini”.
Tuttavia, quando il furore entra nelle aule di Tribunale per rispondere ad una salvifica missione, con il vento in poppa del senso comune, l’errore è dietro l’angolo ed è da scongiurare avendo come monito proprio quella colonna, rimossa nel 1778, che un simbolo lo è diventata ma di segno opposto: quello della giustizia ingiusta.