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In attesa di Giustizia: le procure muoiono ma non si arrendono

Nei giorni scorsi si sono conclusi due processi che hanno molto interessato cronache ed opinione pubblica: a Cassino quello per l’omicidio di una ragazza, Serena  Mollicone, avvenuto molti anni fa (si sospetta in una caserma dei Carabinieri e ad opera di alcuni di costoro) e definito con l’assoluzione di tutti gli imputati, sia pure rilevando una insufficienza delle prove; il fatto di sangue, sicuramente, rientra tra quelli caratterizzati da depistaggi reali o presunti, opacità del contesto e distanza nel tempo tra gli accertamenti e quanto accaduto. Il che, anche con il supporto delle moderne scienze forensi, non aiuta l’opera  degli investigatori.

Un’ Assise, peraltro, si è pronunciata e le motivazioni della sentenza saranno rese note solo in autunno; è, quindi, forse un po’ presto per criticare una decisione senza conoscerne gli argomenti a sostegno: Il Procuratore capo di Cassino, peraltro, si è sentito in dovere di fare un comunicato stampa con il quale elogia il lavoro dei propri magistrati, l’impegno e rassicura i cittadini che si è fatto tutto il possibile, preannunciando che verrà in ogni caso proposto appello.

Orbene, che si sia fatto tutto il possibile per dipanare la matassa e fare chiarezza  su una vicenda oscura va a merito degli inquirenti ma che non si accetti che l’assoluzione sia uno degli esiti possibili della giustizia anticipando l’impugnazione senza neppure avere letto le motivazioni  non è accettabile come non lo è che si debba avere un colpevole ad ogni costo. Come dire: un bel tacer non fu mai scritto.

Il secondo caso di cui ci occupiamo questa settimana  riguarda invece proprio l’esito di un appello voluto a tutti i costi e presentato dalla Procura della Repubblica contro un’assoluzione: quella di tutti i manager accusati per un presunta maxi tangente oggetto della fallimentare indagine “ENI – Nigeria”.  Assoluzione in esito alla quale il P.M. che le aveva condotte e sostenuto l’accusa in giudizio – bricconcello –  è finito a sua volta sotto processo per sciocchezzuole  tipo nascondere le prove a favore degli accusati e, come sembra, anche falsificarne qualcuna per meglio sostenere le proprie tesi.

Il Sostituto Procuratore Generale cui era stato assegnato il fascicolo, in udienza ha rinunciato all’appello e per farlo sarebbe bastata una dichiarazione in tal senso chiudendo velocemente la partita con una conferma delle assoluzioni. Tuttavia,  di fronte alla pertinacia del Collega inquirente (e inquisito), ha ritenuto di andare oltre con una durissima reprimenda parlando di “una situazione di illegalità di fondo rispetto alle indicazioni di regolarità del processo, in assenza di qualsiasi prova a carico degli imputati e dell’esistenza solo di chiacchiere e opinioni generiche che hanno tenuto quindici persone e tredici aziende sulla graticola per oltre sette anni senza alcun motivo”.

Il processo, ha aggiunto, non è la sede per fare sperimentazioni dialettiche e i motivi di appello proposti contro la sentenza di primo grado sono incongrui, insufficienti  e fuori dai binari della legalità, che l’agire della Procura è sintomatico di una sorta di “colonialismo morale” e via picconando.

Queste due vicende possono essere l’occasione per riprendere a ragionare sulla eliminazione del potere di appello del Pubblico Ministero, che trova il suo fondamento nel rispetto del nostro assetto codicistico e costituzionale per il quale l’unica ragione che dia senso ai successivi gradi di giudizio è il dubbio che l’imputato sia innocente e non colpevole.

Troppo spesso l’appello del Pubblico Ministero si rivela come la seconda mano di una partita che l’accusa vuole vincere ad ogni costo quasi fosse una scommessa da cui dipenda la credibilità dell’Ufficio di Procura ma non è di scommesse o scommettitori di cui ha bisogno la Giustizia, e meno che mai di giocatori d’azzardo e bari.

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