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In attesa di Giustizia: potere assoluto

Charles-Louis de Secondat, barone di La Brède, chi era costui? Non chiedetelo a Fofò Bonafede né al suo mentore – il professore, specializzatosi in DPCM emanati via Facebook, che ha preso il titolo con i punti fragola dell’Esselunga – e forse neppure a spiegar loro che è più noto come Montesquieu, il nome gli direbbe qualcosa, figuriamoci se ne conoscono il pensiero, maturato negli anni del regno del Re Sole. In quel tempo il filosofo e giurista francese si rese conto che chi ha il potere è portato ad abusarne e così teorizzando la separazione dei poteri perché “il potere potesse limitare il potere”.

Il secolo dei lumi influenzò anche il costituente americano Alexander Hamilton (inutile parlarne con Toninelli che crede sia un pilota di Formula 1) il quale scrisse che il potere giudiziario è il meno pericoloso perché non controlla le forze armate e il bilancio.

La indispensabile funzione di bilanciamento della separazione dei poteri, nel nostro Paese e ai giorni nostri, peraltro è stata svilita e superata dall’esondazione funzionale dell’ordine giudiziario che ha fatto di quella italiana una società amministrata di fatto da una giustizia penale con l’ambizione alla popolarità.

Il supporto del più retrivo populismo ha dapprima alimentato il mito dei protagonisti di Mani Pulite, dei loro superstiti e degli emuli togati ma non ha impedito la attuale crisi di autorevolezza della giurisdizione che deve confrontarsi con il dato inconfutabile della irragionevole durata del processo, continui episodi di illegittima diffusione di dati che dovrebbero essere riservati e che risultano lesivi della dignità delle persone e della presunzione di innocenza. A tacere degli scandali a ciclo continuo che, ormai, non riguardano più solo il settore delle nomine ai vertici degli Uffici Giudiziari bensì svelano intese occulte per orientare l’esito dei processi, l’avvio stesso delle indagini, a seconda dell’avversario del momento che si intende colpire. E con ciò, addio al principio costituzionalizzato che predica l’indipendenza dell’ordine giudiziario.

In buona sostanza, preferendolo al pensiero illuminista, dal 1992, le Procure si sono ispirate a quello di Mao Zedong secondo cui il potere viene dalla canna del fucile. O, meglio, dal tintinnio delle manette, secondo la visione Davighiana del mondo.

Ed al peggio non c’è limite: le ultime rivelazioni di Luca Palamara lumeggiano l’inquietante esistenza di un dark web in cui allignano faccendieri di ogni provenienza e dei quali una parte della magistratura finisce con il divenire talvolta ispiratrice, altre braccio armato.

Forse, il procedimento a carico del P.M. milanese Fabio de Pasquale (per il quale è stata anche chiesta una proroga per proseguire gli accertamenti) potrebbe far luce su un episodio paradigmatico: quello legato al processo a carico dei vertici di ENI per una colossale tangente asseritamente volta ad ottenere lo sfruttamento di un giacimento petrolifero nigeriano. Furono tutti assolti, e – a quanto pare – per conseguire il successo non sono state sufficienti indagini “a senso unico” inquinate da testimoni falsi e prove a discarico occultate. Come dire: la madre di tutte le porcate il cui accertamento potrebbe costituire un argine alla opaca e dilagante influenza della magistratura perché va a colpire la Procura milanese, gettandola nel totale discredito grazie anche alla oscura vicenda collegata dell’insabbiamento dei “verbali Amara” sulla esistenza della cosiddetta Loggia Ungheria.  E chi si fida più della magistratura se crolla anche il tempio le cui vestali predicavano la rettitudine? Infatti, il consenso è crollato al 37%.

L’ordine giudiziario ha acquisito un ruolo diverso da quello prefigurato dalla Costituzione ed è diventato un potere che al compito di dare giustizia ha affiancato quello di predicare le virtù ma un potere determinato ad autalimentarsi e conservarsi grazie allo strapotere dell’accusa, indifferente a qualsiasi separazione dagli altri, manifestando la tendenza a diventare assoluto e le cui virtù – francamente – sanno un po’ di tappo.

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