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In attesa di Giustizia: quod deus coniunxit, homo non separet

Tratto dal Vangelo di Matteo, in diritto canonico questo brocardo esprime il principio della indissolubilità del matrimonio e sembra attagliarsi alla perfezione alla visione che il legislatore (ispirato non poco dalla Associazione Nazionale di categoria) ha delle carriere dei Magistrati: guai a chi osi proporre di separarle come viceversa avviene in molte democrazie occidentali che adottano un sistema processuale accusatorio.

La separazione, a partire dal concorso di accesso alle funzioni giudiziarie, tra Pubblici Ministeri e Giudicanti corrisponde ad un principio di civiltà pienamente condivisibile ma nel nostro Paese si è resa necessaria una raccolta di firme per dare vita ad un disegno di legge di iniziativa popolare perché di ciò si iniziasse – di malavoglia – a parlarne alle Camere. Dopo un primo passaggio in commissione giustizia, il testo è approdato nei giorni scorsi in Aula sostenuto nel dibattito da parlamentari di ispirazione liberale come Sisto e Costa ma, ahimè, vittima del fuoco di sbarramento (manco a dirlo) di M5S e PD che ha rimandato il d.l. in commissione con raffinati argomenti come quello del Dem Bazoli che paventa la reazione della magistratura. Confessione non necessaria di una politica tenuta sotto schiaffo.

D’altronde proprio un grande magistrato e giurista come Renato Bricchetti lo ha affermato senza infingimenti: se la magistratura non vuole la separazione delle carriere non se ne farà niente. Dargli torto è impossibile: il PD li teme e i pentastellati sono  il partito  dei P.M., della torsione autoritaria e manettara. Serve altro o c’è ancora chi si illude che se ancora non abbiamo la separazione delle carriere,  l’assetto e l’equilibrio democratico del Paese è assicurato – tra l’altro – da quella dei poteri?

Ancora Renato Bricchetti, presidente di sezione della Suprema Corte, intervenuto dopo la seduta alla Camera ad un webinar organizzato dall’Unione Camere Penali, con grande onestà intellettuale ha detto: “Le vere riforme non si possono fare con l’accordo di chi le subisce” ed ha, altresì osservato che sono maturi i tempi per una rivoluzione culturale, possibile però solo attraverso una rivoluzione meccanica sulle carriere: con la quale – tra l’altro – viene  restituita autorevolezza indipendenza e forza al giudice, innanzitutto al GIP rispetto al P.M., proprio attraverso la separazione di chi giudica da chi accusa.

Bricchetti, per chi non lo conosce, è uno che la carriera se l’è separata da solo: nato giudicante non ha mai inteso nemmeno provare la funzione inquirente, come altri hanno fatto, ovviamente, anche a parti invertite. Viene in mente qualche grande Pubblico Ministero rimasto sempre tale, sia pure dando permanente sfoggio di equilibrio, come Carlo Nordio. Ma questi esempi non rappresentano la maggioranza.

Circa la urgente necessità della separazione delle carriere vi è la prova vivente: Piercamillo Davigo, nato P.M.,  si vantava di avere denunciato alla Procura Militare dei poveri alpini di leva che trovava addormentati durante il turno di sentinella nel corso delle esercitazioni cui partecipava per l’aggiornamento come ufficiale di complemento; passato in seguito, alle funzioni giudicanti in Corte d’Appello a Milano ha lasciato dietro di sè un tappeto di tappi di bottiglie di champagne stappate quando se n’è andato…approdando, peraltro, in Cassazione.

Pulpito, quest’ultimo, dal quale ha lanciato l’intemerata secondo la quale non ci sono innocenti ma solo colpevoli che l’hanno fatta franca.

Il disegno di legge sulla separazione delle carriere, con buona pace del valore aggiunto dato dal fatto che è di iniziativa popolare, viene in buona sostanza destinato ad un freezer parlamentare, Davigo e i suoi emuli, i suoi epigoni, l’Eccellenza Bonafede,  la redazione intera del Fatto Quotidiano, possono tornare a sorridere. E anche stavolta la Giustizia può attendere.

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