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In attesa di Giustizia: R.I.P.

Se il Governo, per la parata del 2 giugno, avesse fatto sfilare la portaerei Trieste nel Mar Nero e sbarcare il Battaglione San Marco a Odessa avrebbe generato meno apprensione che approvando il D.D.L. sulla separazione delle carriere dei giudici e pubblici ministeri…almeno tra la magistratura associata e nelle redazioni di Repubblica e del Fatto Quotidiano.

Così è, se vi pare: dopo decenni di discussione dopo la promulgazione del codice che regola il processo penale nel 1989 con cui meglio si adatterebbe, quella che è una regola ordinamentale in molte democrazie occidentali di tradizione liberale, come il Regno Unito, sembra che stia per diventare legge anche da noi.

L’Associazione Nazionale Magistrati, in nome della indipendenza ed autonomia della magistratura si paluda da intemerato paladino di questi principi che non sono messi in discussione da un progetto di riforma che, per il divieto imposto da più di un articolo della Costituzione, non potrebbe neppure sottoporre il Pubblico Ministero al controllo del Ministro della Giustizia condizionando o impedendone le iniziative.

Ma, allora, se questa riforma non è un rischio per la democrazia – non è credibile che gentiluomini che i genitori hanno fatto studiare e praticano la giurisprudenza non lo comprendano – qual è o può essere il timore che attanaglia un gran numero (non tutti…) di appartenenti all’Ordine Giudiziario?

A pensar male si fa peccato ma, a volte, non si sbaglia: le ansie sono, forse, di natura diversa? Magari quella perdita di chance che deriva dal poter transitare da una funzione all’altra senza insormontabili ostacoli traguardando l’obiettivo di sempre nuovi incarichi direttivi che sono anche la rampa di lancio verso prestigiose e ben remunerate posizioni fuori ruolo, elezioni al C.S.M, candidature…?

In due parole può essere una questione di denaro e potere legati al raggiungimento di questi risultati di carriera per i quali il merito conta molto meno degli accordi spartitori tra le correnti della magistratura. Queste ultime sono tutte guidate da Pubblici Ministeri che – a loro volta – acquistano visibilità grazie ad inchieste gestite senza rispetto della riservatezza e spesso sviluppate applicando al contrario il criterio di Eudosso – un matematico dell’Asia Minore del V secolo A.C. – utilizzato per calcolare la superficie di figure geometriche irregolari: delimitano e misurano la superficie del teorema accusatorio come se gli indagati fossero già colpevoli conclamati, poi iniziano a centellinare dettagli alla stampa lasciando credere che si stiano avvicinando sempre più ad una verità assoluta facendo crescere interesse ed indignazione moralistica negli specialisti dei giudizi a priori e dando l’impressione che la quadratura del cerchio sia ormai prossima.

La separazione delle carriere, ahimè, prevede la creazione di due C.S.M.: uno per i giudicanti e l’altro per gli inquirenti con la conseguente perdita di controllo dei P.M. sui giudici, subalterni ai poteri correntizi (profondamente politicizzati) che, allo stato, ne gestiscono incarichi e progressi in carriera per le ragioni dette. E poi, senza vergogna, parlano di timore di finire sotto il controllo del Governo…

Il Guardasigilli, presentando la riforma, ha ricordato che la separazione delle carriere era stata auspicata da Giovanni Falcone, suscitando incomprensibile indignazione, tra gli altri, quella di Alfredo Morvillo (ex giudice) che ha negato vibratamente che suo cognato abbia mai sostenuto la separazione delle carriere ed anche che: “sia gravemente offensivo definire i giudici come passacarte delle procure, influenzabili solo per aver fatto lo stesso concorso. Ma risponde ad un’operazione portata avanti negli ultimi anni per diffondere sfiducia nella giustizia e quando in un paese viene meno la fiducia nella giustizia cominciano ad essere in pericolo anche le libertà democratiche”.

Ecco, un pizzico di allarme fascismo non guasta mentre Morvillo, a proposito di sfiducia nella magistratura, sembra non avere mai sentito parlare dell’affaire Palamara né letto il documentatissimo libro “La gogna” di Antonio Barbano, soprattutto sembra non ricordare chi disse queste parole: “Il P.M. non deve avere nessun tipo di parentela con il giudice e non deve essere, come è oggi, una specie di paragiudice. Chi, come me, chiede che giudice e P.M. siano invece due figure strutturalmente differenziate nelle competenze e nella carriera, viene bollato come nemico della indipendenza del Magistrato, un nostalgico della discrezionalità dell’azione penale, desideroso di porre il P.M. sotto il controllo dell’esecutivo”.

Questa riflessione appartiene a proprio a Giovanni Falcone: riposi in pace a patto di non guardare cosa accade quaggiù all’interno di quell’Ordine Giudiziario di cui è un martire e con il quale non ha nulla a che spartire.

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