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In attesa di Giustizia: scandalo!

Una recentissima decisione della Corte di Appello di Torino ha provocato indignazione generalizzata:, la Boldrini – tra gli altri – ha subito commentato che si tratta di una sentenza scandalosa  perché, riformando una condanna del Tribunale per violenza sessuale, ha assolto  l’imputato.

Vi è da dubitare che, come la Boldrini, molti altri commentatori (se non tutti) ignorino il contenuto del fascicolo e neppure la competenza tecnica per fare valutazioni giuridiche: è, piuttosto, ben possibile che si siano affidati a brandelli di motivazione pubblicati dai giornali alla ricerca di incongruenze argomentative. Neppure alla redazione de Il Patto Sociale conosciamo la vicenda e tantomeno i giudici: è, però, noto che la Corte fosse presieduta da una donna (il che, qualcosa può significare) e, come di consueto, in questa rubrica  non si tratterà  di processi senza cognizione di causa ma di ben altro.

E’, invero, opportuno riflettere su quella che è la  coazione a ripetersi di un corto circuito mediatico che in tema di processi per violenza sessuale segue un copione immodificabile.

Una prima riflessione è che in questo Paese la notizia di una assoluzione, in generale, desta allarme, non parliamo poi se ciò accade in appello dopo una condanna in primo grado,  per quegli stessi fatti ed in base al medesimo materiale probatorio: tutto ciò è percepito come il segno di una grave anomalia.

Avviene, invece il contrario se si è condannati  nel secondo grado di giudizio dopo una prima  assoluzione: in questo caso è la giustizia che ha trionfato, una stortura è stata raddrizzata. Questo riflesso forcaiolo è moltiplicato se il processo ha, per l’appunto, ad oggetto una accusa di violenza sessuale e si espongono al pubblico ludibrio dei giudici che hanno osato assolvere, si scava nella motivazione, la si riduce a brandelli, raspollando ogni locuzione eventualmente infelice utile a dimostrare che il proscioglimento è frutto esclusivo di un modo di ragionare maschilista e misogino.

Naturalmente, qualcosa di simile può sempre accadere ed è sicuramente accaduto in passato, va detto senza infingimenti, con responsabilità equamente divise tra avvocati e giudici asserviti a becere considerazioni del tipo: “era lei ad essere vestita in modo provocante, dove se ne andava in giro di sera conciata in quel modo, le è piaciuto”, e via dicendo. Sempre più raramente, per fortuna, si ascoltano avvocati che si affidano a simili bassezze, e giudici che mostrino di condividerle.

E’ intollerabile ed incivile, invece,  che siano giudicati gli esiti di un processo da qualche frase estrapolata qui e là. Anni fa fece storia, in proposito, una sentenza della Corte di Cassazione di cui si valorizzò una frase incidentale che ragionava, tra mille altri e ben più corposi argomenti, anche su quanto fossero stretti i jeans della presunta vittima e come potessero essere stati tolti senza impiegare violenza: si  scatenò subito il linciaggio contro una decisione  molto ben strutturata e meditata basandosi su un dettaglio ininfluente.

Nulla sembra essere cambiato oggi, e se è sacrosanta la condanna di comportamenti sessuali  alimentati da una subcultura misogina ed ottusamente maschilista, nemmeno si può pretendere, che vi sia una sorta di statuto speciale della prova per i reati di violenza sessuale. Si è disposti ad accettare il dubbio su un omicidio, ma non su una violenza sessuale. Tema invece, quest’ultimo, delicatissimo quando essa si colloca in quella zona grigia nella quale occorre accertare rigorosamente sia la certezza della mancanza di  consenso al rapporto sessuale, quanto la  percezione di un dissenso da parte di chi avanza l’approccio. Sono dati cruciali, che il giudice deve ricostruire in via induttiva da ogni possibile dettaglio; e se quella ricostruzione pone in crisi l’esistenza dell’uno o l’altro elemento della condotta, si impone l’assoluzione come per qualunque altro reato, anche il più efferato. Il Giudice deve essere libero da ipoteche ideologiche o da ricatti culturali, perché è chiamato semplicemente a ricostruire un fatto. Se lo fa male, c’è il rimedio delle impugnazioni, per fortuna. Ma non si può accettare l’idea che il giudice sia sospetto di aver fatto male il proprio mestiere solo quando assolve: questa sì, è la notizia che dovrebbe allarmare.

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