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In attesa di Giustizia: sequel

Questa settimana – non diversamente dalle altre – c’è stato solo l’imbarazzo della scelta circa l’argomento da trattare in questa rubrica; alla fine “in concorso” sono rimaste due vicende: la prima è quella di una donna condannata e incarcerata (ed è tutt’ora in galera, a Roma in attesa di una soluzione) per un reato prescritto da anni al momento della pronuncia della sentenza. Vicenda che, senza entrare nei dettagli, è sufficiente commentare “complimentandosi” con il P.M., il giudice, il Sostituto Procuratore Generale che ha posto il visto sulla decisione e – naturalmente – anche con il difensore per avere offerto un rarissimo (per fortuna) esempio di corale e fatale disattenzione (o ignoranza anche di banali nozioni aritmetiche?).

La seconda, è stata prescelta perché è lo squallido sequel da B movie di una storia già raccontata tempo fa su queste colonne ed anche del più recente commento alla giustizia disciplinare “domestica” – e addomesticata – del C.S.M. Qualcuno, forse, ricorderà questo racconto di quanto accaduto al Tribunale di Asti dove si celebrava un processo per violenza sessuale di un padre sulla figlia, con la madre accusata di non averlo impedito: giunti alla conclusione e data la parola alle parti, discussero il PM, chiedendo una pena molto severa  ed i due difensori della madre, rinviandosi ad altra udienza per sentire quello del padre.

Tuttavia, alla udienza successiva, il Tribunale entrò in aula per leggere direttamente il dispositivo di condanna degli imputati ad 11 anni di reclusione. Gli avvocati presenti e lo stesso P.M. fecero notare che il difensore del secondo (e principale) imputato non aveva mai discusso ed il Presidente, dettosi dispiaciuto dell’incidente, con impeccabile nonchalanche accartocciò il foglio contenente il dispositivo appena pronunciato per dare la parola all’ultimo difensore. Quest’ultimo,  ovviamente,  oppose un rifiuto, rilevando l’abnormità di quanto accaduto. Il Tribunale, che tanto aveva già deciso, depositò egualmente la sentenza, che ovviamente non potrà che essere annullata dalla Corte di Appello (con comodo, eh! Stiamo aspettando solo da un paio di anni).

Questo scempio finì, comunque, al CSM e si apprende da notizie di stampa di questi giorni che si è concluso il procedimento disciplinare con la sanzione della censura, per di più – e il mistero si infittisce- nei riguardi del solo Presidente; prosciolti gli altri due giudici.

Non è ancora nota la motivazione della bizzarra (è un eufemismo) decisione ma non può farsi a meno di rilevare che la censura è poco più di una tirata di orecchie che staglia impietosamente la considerazione che il CSM nutre delle questioni di principio messe in discussione.

Questioni delicatissime: è inaccettabile che tre giudici abbiano potuto ritirarsi in camera di consiglio, discutere tra di loro della fondatezza dell’accusa condannando un imputato ad undici anni di reclusione senza averne mai ascoltato l’unico difensore.

Una sola è la spiegazione dell’accaduto: totale indifferenza di quel Tribunale (dunque di tre giudici, non uno solo) alle argomentazioni nell’interesse di quell’imputato ed un Tribunale pronunzi una sentenza nei senza aver ascoltato e vagliato la sua difesa, nega in radice la propria stessa funzione perché non è uno sciamano, chiamato ad interpretare il giudizio  divino.

Insomma, si tratta di un fatto di inconcepibile gravità punito con un buffetto sulla guancia di uno solo dei responsabili, pur avendo partecipato in tre allo scempio. La conseguenza che dobbiamo trarne è che, per il Consiglio Superiore della Magistratura, questa non è la condotta più grave che un giudice possa assumere, anzi, è una delle meno gravi, figurarsi le altre. Se qualcuno ha una spiegazione diversa…

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