Africa

  • Vladimir Putin sta adescando l’Africa

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi apparso su ‘ItaliaOggi’ l’8 aprile 2023

    Si intensificano le relazioni della Russia con l’Africa, perciò riteniamo che nei rapporti con i Paesi africani l’Italia e l’Ue dovrebbero mantenere un approccio sobrio e realistico, senza cedere alla tentazione di credere troppo alle narrazioni dell’Occidente sugli andamenti geopolitici planetari. Le loro priorità sono l’anticolonialismo, l’indipendenza e lo sviluppo del continente in un mondo multipolare.

    Basti riflettere sui risultati del meeting «Russia Africa Parliamentary Conference» sul tema di un mondo multipolare, tenutosi a Mosca il 19-20 marzo, cui hanno partecipato parlamentari di 40 Stati africani. Si tratta di uno degli incontri preparatori per il secondo «Summit Russia-Africa» dei capi di Stato e di governo già fissato il 28-29 giugno a San Pietroburgo. Le delegazioni africane a Mosca erano più delle 36 che nel 2019 avevano partecipato al primo Summit di Sochi.

    Prevedibile l’affondo politico del presidente della Duma, Vyacheslav Volodin, che ha denunciato «Washington e Bruxelles di voler controllare le risorse naturali della Russia e dell’Africa, con tutti gli strumenti possibili, anche con la forza».

    Sebbene in quei giorni fosse impegnato negli incontri con il presidente cinese Xi Jinping in visita a Mosca, Vladimir Putin ha parlato alla conferenza. Il presidente russo ha affermato che i rapporti con i paesi africani sono una priorità di Mosca. Ha ricordato l’appoggio dell’Urss nella lotta per l’indipendenza contro il colonialismo e per la cooperazione economica nel continente. Sebbene oggi i paesi africani rappresentino soltanto il 3% del pil mondiale, Putin ha detto che con un miliardo e mezzo di abitanti e un terzo di tutte le riserve minerarie del globo essi naturalmente saranno leader del nuovo ordine multipolare globale.

    Ha evidenziato che lo scorso anno il commercio è cresciuto fino a 18 miliardi di dollari e che Mosca ha cancellato vecchi debiti dei paesi africani per oltre 20 miliardi. Ha anche offerto la possibilità di una collaborazione tra l’Unione economica eurasiatica e l’Area continentale africana di libero scambio creata nel 2021.

    Il presidente russo si è impegnato a mantenere le forniture di cibo, di fertilizzanti e di energia verso l’Africa e a prolungare di 60 giorni l’accordo sul grano fatto a Istanbul per far transitare i prodotti agricoli ucraini attraverso il Mar Nero. Dopo tale periodo la Russia sarebbe pronta a mandare, a titolo gratuito, la stessa quantità di grano inviato in Africa nei mesi passati. Ha poi lanciato una provocazione: «Del totale di grano esportato dall’Ucraina, circa il 45% è andato ai paesi europei e solo il 3% all’Africa».

    Propaganda russa? Speriamo si possa dimostrare, poiché le convinzioni africane non sono quelle dell’Occidente.

    Dopo aver detto che circa 27.000 studenti africani frequentano le università russe, ha aggiunto che il personale militare di oltre 20 paesi africani si perfeziona nelle università del ministero della Difesa russo, i rapporti si sono fatti molto intensi, un po’ in tutti i campi, anche in quello delle nuove tecnologie. Il 13-14 aprile prossimi si terrà a Mosca il forum Russia – Africa sulle tecnologie digitali e governi e imprese private discuteranno su come realizzare la digitalizzazione nei settori della pubblica amministrazione, dell’economia, dell’educazione e della sanità.

    Un ruolo importante di battistrada della cooperazione continentale africana lo svolge il Sudafrica, membro del gruppo Brics. In un incontro tra rappresentati governativi russi e sudafricani si è convenuto di promuovere la creazione di una Brics geological platform che mapperà i territori per individuare nuovi depositi di minerali.

    *già sottosegretario all’Economia **economista

  • Green energy ‘profiting on back of Congo miners’

    Human rights campaigners are calling on companies to increase the pay for impoverished miners in the Democratic Republic of Congo who are digging up cobalt – an essential commodity in the production of electric cars.

    Huge mining companies engaged in the switch to greener energy are making multi-billion dollar profits, while the Congolese workers digging for cobalt are falling further into poverty.

    That is the warning from two human rights groups – the UK’s Raid, and Cajj, which is based in southern DR Congo near Kolwezi where most of the world’s cobalt is mined.

    Food prices there have been soaring and the campaign groups say most miners are being paid much less than the $480 (£390) a month they need to support their families.

    They want the mining giants, including those from Europe and China that operate DR Congo’s industrial mines, to pay more, and electric vehicle companies to end contracts with cobalt suppliers exploiting miners.

    “The switch to clean energy must be a just transition, not one that leaves Congolese workers in increasingly desperate living conditions”, Cajj’s Josué Kashal said in a statement.

  • Madagascar in ansia: a rischio il 50% della propria biodiversità

    ll Madagascar lancia un Sos: dai famosissimi lemuri al fossa, loro predatore e simile ad un piccolo puma, passando per lo strano pipistrello dai piedi a ventosa, sono 120 le specie di mammiferi a rischio di estinzione, più del 50% delle 219 presenti sull’isola simbolo della biodiversità. Hanno impiegato 23 milioni di anni di evoluzione per fiorire e ne impiegherebbero altrettanti per ricostruirsi, se dovessero scomparire: un arco di tempo molto più lungo di quanto ritenuto finora. Lo ha stimato uno studio pubblicato sulla rivista Nature Communications e guidato dal Centro per la biodiversità naturale di Leiden, nei Paesi Bassi, che dà l’allarme: secondo gli autori della ricerca, restano solo cinque anni per salvare il Madagascar dal punto di non ritorno.

    “È assolutamente chiaro che ci sono mammiferi unici al mondo che si trovano solo in Madagascar, alcuni dei quali si sono già estinti o sono sull’orlo dell’estinzione”, afferma Steve Goodman del Museo Field di storia naturale di Chicago, co-autore dello studio guidato da Nathan Michielsen: “Se non si intraprende un’azione immediata, il Madagascar perderà 23 milioni di anni di storia evolutiva, il che significa che tante specie uniche sulla faccia della Terra non esisteranno più”.

    Il Madagascar è la quinta isola più grande del mondo, ma se pensiamo alla ricchezza di ecosistemi e biodiversità presenti è più simile ad un mini-continente: il suo isolamento ha infatti permesso a piante e animali di evolversi in maniere uniche, basti pensare che il 90% delle specie non si trova da nessun’altra parte. Una biodiversità costantemente minacciata fin da quando gli esseri umani si sono stabiliti in maniera permanente sull’isola, circa 2.500 anni fa: da allora, molte estinzioni sono già avvenute, comprese quelle dei lemuri giganti, degli uccelli-elefanti e degli ippopotami nani.

    Per quantificare il rischio corso dalla vita sull’isola, i ricercatori hanno messo insieme una quantità di dati senza precedenti, che descrivono le relazioni evolutive tra tutte le specie di mammiferi che erano presenti nel Madagascar al momento della colonizzazione, 249 in tutto. Utilizzando simulazioni al computer, gli autori dello studio sono riusciti a calcolare il tempo impiegato da questa biodiversità per evolversi ed il tempo che impiegherebbe l’evoluzione per ‘sostituire’ tutti i mammiferi in caso di estinzione. I risultati mostrano che 120 specie su 219 attualmente viventi sono vicine alla scomparsa. Per ricostruire la diversità degli animali già estinti ci vorranno 3 milioni di anni, ma molti di più, 23 milioni di anni, saranno necessari se si estinguessero anche quelli attuali. Un arco di tempo che ha sorpreso i ricercatori: “È molto di più di quello che studi precedenti hanno calcolato per altre isole – commenta Luis Valente, uno degli autori dello studio – come la Nuova Zelanda o i Caraibi”. Questo non vuol dire che, se i lemuri scomparissero, potrebbero tornare a popolare la Terra tra 23 milioni di anni: quello che lo studio evidenzia è il periodo necessario all’evoluzione per raggiungere di nuovo un simile livello di complessità, anche se le specie sarebbero del tutto nuove.

  • Somalia water crisis ‘far from over’ – Unicef

    The Somalia water crisis is “far from over” and tens of thousands more people are projected to die from drought there, Victor Chinyama from Unicef told the BBC’s Newsday radio programme.

    A new report from Somalia’s government and the UN has found that 43,000 people in Somalia probably died from the drought last year – half of them children.

    It is estimated that from January to June of this year a further 25,000 people could die, Mr Chinyama said.

    However, there was still time to save lives, he said, recommending that aid agencies “continue to provide safe water to communities that are stressed”.

    He said more needs to be done to help Somali families grow their own food, as well as provide stronger healthcare, education and protection for children.

  • In Somaliland, i cuccioli sequestrati trovano la loro nuova casa

    Cizi e Bagheer, due cuccioli di ghepardo, sottratti ai bracconieri dal Governo del Somaliland nel mese di febbraio del 2020 e destinati al commercio illegale di fauna selvatica, per la prima volta possono godere del paesaggio senza muri di cimento che hanno coperto i loro occhi. Dopo essere stati confiscati, i cuccioli sono stati affidati al Ministero dell’Ambiente e del Cambiamento Climatico (MoECC) per essere accuditi dal partner ormai storico, il Cheetah Conservation Fund (CCF). Fino alla settimana scorsa, Cizi e Bagheer hanno vissuto in una delle tre strutture temporanee gestite dal CCF ad Hargeisa, capitale della Repubblica del Somaliland, condividendo gli spazi con altri 90 felini. Ma adesso Cizi e Bagheer sono tra i 52 esemplari che sono stati insediati nel Somaliland Cheetah Rescue and Conservation Centre (CRCC) del CCF a Geed-Deeble.

    Il CRCC e’ stato costruito per fornire una residenza permanente ai 92 felini salvati, con spazi sufficienti ad ospitare altri animali se necessario, ed è munito di ampi spazi cintati, che si trovano in aperta campagna in un ambiente naturale. Si tratta della prima struttura dedicata ai ghepardi strappati al commercio illegale nel Corno d’Africa. Il CRCC si trova su un territorio di circa 800 ettari a circa un’ora da Hargeisa, a Geed-Deeble (“Terra degli alberi”), e fungerà anche da centro di ricerca, educazione e formazione. E’ parte di un’area di circa 50.000 ha che il Governo del Somaliland ha istituito come Parco Nazionale di Geed-Deeble, il primo Parco nazionale del Somaliland. Il CRCC in seguito diventerà un centro di educazione e formazione, un museo vivente che attesterà l’esistenza del traffico illegale di ghepardi selvatici. Tutti I residenti del CRCC sono stati confiscati dalle agenzie governative del Somaliland al commercio illegale o a situazioni di conflitto animali-uomo. Dopo il sequestro, i felini hanno sempre vissuto sotto l’occhio vigile dei veterinari e I guardiani del CCF.

    Ora che i 52 cuccioli sono stati sistemati al CRCC, il CCF deve raccogliere i fondi necessari a costruire le recinzioni a Geed-Deeble per i restanti 39 ghepardi che ancora vivono nei Rifugi 2 e 3.

    Il CCF, con il partner MoECC, ha colpito duramente il commercio illegale di ghepardi nell’ultimo decennio, sia in Somaliland che nel Corno d’Africa e stanno lanciando attività di ricerca e conservazione sulle popolazioni selvatiche di ghepardi, che puntano a sostenere le comunità umane. Per incrementare le opportunità di sussistenza, il CCF sta introducendo la sua popolare formazione per allevatori e pastori in coesistenza con la fauna selvatica.

    Chi desidera dare un aiuto per la costruzione delle recinzioni mancanti presso il CRCC, può cliccare sul link https://cheetah.org/donate/ e donare per I ghepardi del Somaliland.

  • Malnutrition in pregnancy surges in poor countries

    The number of pregnant women and girls who are suffering from malnutrition has soared by 25% in the last two years, the UN children’s agency Unicef says.

    The world’s poorest regions, such as Somalia, Ethiopia and Afghanistan, have been most affected, its report finds.

    Unicef estimates that more than one billion women and adolescent girls worldwide are malnourished.

    It says recent crises including war and Covid have made it increasingly hard for them to get the food they need.

    Unicef has urged the international community to make food security a priority, including supporting failing nutrition programmes.

    It stressed the impact the malnutrition is having on children’s health.

    The Unicef report found that the one billion undernourished women and adolescent girls were “underweight and of short stature” as a result, according to data analysis of women in most countries in the world.

    It also found that they suffered from a deficiency in essential micronutrients as well as from anaemia.

    South Asia and sub-Saharan Africa “remain the epicentre of the nutrition crisis among adolescent girls and women”, the report said.

    It found that 68% of women and adolescent girls there were underweight, and 60% of those suffered from anaemia.

    “Inadequate nutrition during girls’ and women’s lives can lead to weakened immunity, poor cognitive development, and an increased risk of life-threatening complications – including during pregnancy and childbirth,” Unicef said.

    Malnutrition could also have “dangerous and irreversible consequences for their children’s survival, growth, learning, and future earning capacity”, it added.

    “Globally, 51 million children under two years are stunted. We estimate that about half of these children become stunted during pregnancy and the first six months of life, when a child is fully dependent on the mother for nutrition,” it said.

    Unicef estimates that between 2020 and 2022, the number of pregnant or breastfeeding women suffering from acute malnutrition increased from 5.5 to 6.9 million in the 12 countries deemed to be in food crisis.

    These are Afghanistan, Burkina Faso, Ethiopia, Kenya, Mali, Niger, Nigeria, Somalia, Sudan, South Sudan, Chad and Yemen.

    “Without urgent action from the international community, the consequences could last for generations to come,” said Unicef chief executive Catherine Russell.

    “To prevent undernutrition in children, we must also address malnutrition in adolescent girls and women,” she added.

    Unicef called for mandatory legal measures to “expand large-scale food fortification of routinely consumed foods such as flour, cooking oil and salt” to help reduce micronutrient deficiencies and anaemia in girls and women.

  • Fed, tassi ed i Paesi emergenti

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi apparso su ItaliaOggi il 4 marzo 2023

    Il continuo aumento dei tassi d’interesse da parte della Fed, seguito a ruota dalla Bce, sta avendo conseguenze catastrofiche soprattutto nei Paesi in via di sviluppo. Ciò ha spinto i capitali a lasciare questi Paesi e ha deprezzato le loro valute rispetto al dollaro. Ovvia conseguenza è l’aumento dei prezzi delle commodity, del costo delle importazioni, anche dei beni di sussistenza. Inoltre, l’enorme crescita del costo del debito li ha resi incapaci di far fronte al pagamento degli interessi.

    Si aggiunge una specifica situazione della Cina. Oltre agli effetti economici della pandemia, le sanzioni imposte a Pechino non colpiscono solo la Cina ma anche quei Paesi connessi alla sua «catena di approvvigionamenti». Le merci cinesi che vanno nel resto del mondo non sono prodotte esclusivamente in Cina, ma soprattutto nei Paesi dell’Asia e dell’Africa che fanno parte della sua filiera produttiva.

    Il «World economic outlook» di gennaio 2023 del Fmi stima che il 15% dei Paesi a basso reddito sia in difficoltà debitoria, un altro 45% sia ad alto rischio di sofferenza e il 25% delle economie dei mercati emergenti sia anch’esso ad alto rischio.

    L’ultimo rapporto della Banca Mondiale rileva che alla fine del 2024 il pil dei Paesi emergenti e di quelli in via di sviluppo resterebbe del 6% sotto di quello registrato prima della pandemia. Per loro si prevedono un lungo periodo di debiti crescenti e pochi investimenti. I capitali, infatti, saranno assorbiti dalle economie avanzate a loro volta colpite da tassi e debiti alti. Per 37 Paesi poveri la situazione sarà molto peggiore. Nell’Africa sub–sahariana si stima un aumento del tasso di povertà assoluta nel biennio 2023-4.

    Il vero problema, soprattutto per noi occidentali, è che si prendono iniziative prettamente geopolitiche legate alla sicurezza e alla forza militare, spesso senza valutarne le conseguenze economiche e sociali in altre parti del mondo. Gli effetti impattano i Paesi geograficamente lontani ma poi si riverberano in casa nostra. Di solito, quando i governi sono costretti a ridurre i bilanci, tagliano le spese sociali. Ciò porta all’instabilità politica e a rivolte popolari.

    Globalmente siamo di fronte a delle situazioni peggiori di quanto sperimentato, a cavallo del primo decennio di questo secolo, quando la speculazione sui beni alimentari ha mischiato l’inflazione con le cosiddette «primavere arabe».

    Il Libano, ad esempio, sta affrontando ciò che la Banca mondiale ha descritto come «tra le crisi più gravi a livello globale dalla metà del diciannovesimo secolo». Dal 2019 la moneta ha perso il 98% del suo valore. In Iraq, le proteste sono scoppiate a Baghdad per il crollo del dinaro, la valuta irachena. In Egitto, il valore della sterlina egiziana in un anno si è dimezzato mentre i prezzi sono aumentati.

    L’anno scorso lo Sri Lanka, nel mezzo di rivolte sociali, è stato inadempiente per la prima volta nella sua storia. Oggi le autorità hanno aumentato il prezzo dell’elettricità del 66% nel tentativo di ottenere un salvataggio dal Fmi. Il Pakistan sta affrontando la sua peggiore crisi economica, con mancanze di gas, interruzioni di corrente, aumenti dei prezzi. In Argentina, l’inflazione ha raggiunto, di nuovo, quasi il 100% su base annua.

    Alti tassi e inflazione sono un mix esplosivo. Il caso dell’Argentina è emblematico, dove il tasso della banca centrale è salito dal 35% di un anno fa al 75% di oggi. Allora la pensione media era di 450 dollari al mese, oggi è di 150.

    L’aumento del tasso d’interesse della Fed ha spinto anche quello della banca centrale del Brasile dal 10,7% di un anno fa al 13,75% di oggi. In Messico, il tasso d’interesse è quasi raddoppiato, passando dal 6% all’11,25%. Il tasso d’interesse della Nigeria è aumentato dall’11,5% al 17,5%, l’inflazione è del 22%.

    Il mondo sta pagando un altissimo prezzo. Le cause, secondo noi, sono l’acquiescenza della Fed di fronte a una finanza aggressiva, i suoi errori di valutazione e i suoi mancati interventi.

    Non è un caso che, come per la cecità dimostrata alla vigilia della grande crisi finanziaria del 2008, oggi, fino all’ultimo minuto, la Fed ha continuato a ripetere che l’inflazione era «transitoria». Tutto è transitorio, ma il problema è la durata della transizione e le sue conseguenze.

    In Europa non c’è da stare tranquilli. La Bce ha sempre dimostrato la sua «straordinaria indipendenza», ma ripetendo qualche mese dopo gli stessi errori della Fed.

    *già sottosegretario all’Economia **economista

  • E’ il momento di agire realizzando politiche nuove e giuste

    Piangiamo, parliamo, da anni, ma poi non si agisce concretamente, né In Italia né In Europa.

    Per impedire i troppi morti che ormai quasi quotidianamente rendono il Mediterraneo un cimitero a cielo aperto non basta trovare nuove regole per le Ong, cercare e colpire gli scafisti ed i trafficanti di uomini che li comandano, affermare che per evitare i morti la soluzione è non far partire i migranti.

    I migranti partono anche se sanno che molti di loro perderanno la vita perché, nella maggior parte, perderebbero la vita anche se restassero dove sono.

    Delle inumane situazioni dei campi lager della Libia ormai sappiamo molto, sono note, a chi segue la politica del terrore, le tragedie somale dove gli al-Shabaab imperversano con violenze e stragi di ogni genere e su quanto avviene in Afghanistan non c’è bisogno di aggiungere molte parole.

    Le persone cercano di sfuggire alle persecuzioni, cercano di rimanere in vita, di salvare i propri figli, cercano cibo dopo che in paesi come Eritrea ed Etiopia non piove da anni e siccità e carestia sono consolidate.

    Certo sicuramente tra i tanti disperati ci sono infiltrazioni di personaggi pericolosi o che non sono da annoverare tra le categorie sopra indicate: tra i migranti per fame, per guerra, per la ricerca della libertà, ma sta a noi individuare chi deve essere respinto e va fatta monte.

    Nessuna politica per l’immigrazione avrà mai successo senza regole chiare e condivise ed in assenza di un piano per i rifugiati, senza che si affrontino i drammatici e annosi problemi dei tanti campi profughi, non solo in Africa o in Turchia, senza che si risolva il problema delle quote, delle quali ogni paese europeo dovrebbe da tempo farsi carico.

    E nessuna politica avrà successo se mancherà una concreta politica di aiuti per quei paesi con i governi dei quali è possibile instaurare rapporti per evitare che gli aiuti si trasformino in elargizioni economiche per gli stessi governanti.

    Aiuti: significa costruire i pozzi per i villaggi africani, desalinizzare l’acqua del mare dove acqua dolce non c’è, significa dare vita a progetti agricoli, di sostegno alle donne, di lotta all’infibulazione, significa offrire ai più giovani qualche reale proposta e speranza di studio e di lavoro.

    Una delle prime iniziative dovrebbe essere, da parte europea, la presa in carico dei campi profughi in Libia e negli stati vicini, con personale europeo per il controllo della gestione, non si può chiedere a nessuno di morire di fame o di sopportare torture e privazioni ingiustificabili!

    Se vogliamo cominciare ad evitare le stragi, che periodicamente ci vedono spendere lacrime e parole sui morti del Mediterraneo, è arrivato il momento di agire non creando nuove sofferenze ma immaginando, realizzando politiche nuove e giuste.

  • Un caso per la reintroduzione dei ghepardi in India

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di un gruppo di scienziati tra qui Laurie Marker, fondatrice del Cheetah Conservation Fund, scritto dopo il rilascio di 12 ghepardi in India

    In una recente corrispondenza a Nature Ecology & Evolution, Gopalaswamy et al. si esprimono criticamente sulla reintroduzione in India dei ghepardi, riferendosi ripetutamente ai rischi ecologici, genetici e patologici che ritengono non siano stati considerati nel sostituire i ghepardi asiatici con i ghepardi dell’Africa australe. Inoltre affermano che tre elementi esposti nella reintroduzione di ghepardi in India sono privi di sostanza: che i ghepardi in Africa non hanno più sufficiente spazio; che c’è abbastanza spazio adeguato per accoglierli in India; che la translocazione per la conservazione dei ghepardi ha avuto successo nello sforzo di recupero di areali. Inoltre affermano che la densità bassa è un fatto naturale nei ghepardi, rendendoli sensibili alla rimozione di alcuni individui dalle popolazioni d’origine.

    Siamo stati coinvolti in consulenze scientifiche sul progetto di reintroduzione in India, e ci permettiamo rispettosamente di non essere d’accordo. In questa sede affronteremo tutti gli argomenti di Gopalaswamy e colleghi, dimostrando scientificamente e appoggiando l’operazione di rinaturalizzazione attualmente in corso.

    I ghepardi storicamente occupavano una nicchia ecologica all’interno delle savane indiane e nei sistemi di foreste aperte che attualmente sono deprivate della fauna selvatica. Riempire questo vuoto contribuirebbe a restaurare l’ecologia funzionale di questi sistemi tramite un processo top down. Ripristinare le specie ed il loro ruolo negli ecosistemi è essenziale per una rinaturalizzazione efficace e onnicomprensiva; la reintroduzione dei carnivori è particolarmente importante per il ripristino degli ecosistemi. Le minacce principali, quali soprattutto il conflitto umani/predatori che ha causato l’estinzione in India, sono state ridotte sensibilmente tramite leggi e azioni di contrasto efficaci. Inoltre, la reintroduzione è stata proposta all’interno di siti protetti negli areali storici, dopo un’attenta valutazione della disponibilità di habitat e prede, oltre alla pressione antropogenica. Attualmente esistono circa 100.000 km2 di riserve protette all’interno degli areali storici del ghepardo in India, che potenzialmente sono in grado di accogliere popolazioni di ghepardi in età riproduttiva, oltre a 700.000 km quadrati in grado di sostenere la presenza di ghepardi.

    L’UICN (Unione Internazionale per la Conservazione della Natura) ha sviluppato linee guida chiare sulla riproduzione delle popolazioni: nello specifico, i fondatori selezionati dovrebbero fornire diversità genetica adeguata, e la loro rimozione non dovrebbe mettere a rischio le popolazioni d’origine. Le linee guida appoggiano inoltre la sostituzione sostenibile di taxon (gruppo tassonomico) allorquando “una specie simile, imparentata, o una sub-specie può essere sostituita quale surrogato ecologico“.

    Nel 2022, il Dipartimento dell’Ambiente Iraniano ha riferito che solo 12 ghepardi asiatici in libertà sono stati confermati ancora in vita. Le cifre così basse ed il livello di endogamia della popolazione di ghepardi iraniani li escludono come fonte di popolazione potenziale per la reintroduzione in India. La popolazione di ghepardi sudafricani possiede la maggiore diversità genetica documentata ed è sufficientemente numerosa da fornire fondatori, senza che una rimozione vada a danneggiare le popolazioni coinvolte. Secondo nostri dati non ancora pubblicati (V.v.d.M. E Y.V.J.) la metapopolazione di ghepardi sudafricani (circa 500 individui) cresce con un incremento dell’8,8% annuo; l’analisi di fattibilità della popolazione suggerisce che la componente sudafricana di tale popolazione può reggere la rimozione annua di 29 ghepardi, senza effetti dannosi.

    Sulla base di queste informazioni, l’Autorità Scientifica del Sudafrica ha acconsentito all’esportazione del 10% di maschi e del 4% di femmine l’anno. Nel corso degli ultimi due decenni, in Sudafrica sono state coordinate settanta reintroduzioni di ghepardi. Anche se tali reintroduzioni sono avvenute principalmente in riserve recintate, 22 ghepardi sono stati liberati nel Zambezi Delta in Mozambico fin dall’agosto del 2021. In Namibia, in un altro progetto, 36 ghepardi sono stati rilasciati in territori agricoli o in riserve recintate e non, con il 75-96% degli esemplari che hanno raggiunto l’indipendenza dopo il rilascio ed con una percentuale di sopravvivenza annuale elevata.

    Come da prescrizioni della World Organization for Animal Health e dell’UICN noi (A.S.W.T., Y.V.J. E R.A.K.) ed altri abbiamo condotto un’analisi esauriente sui rischi di patologie per il progetto indiano di reintroduzione. La maggior parte dei rischi di patologie sono stati valutati come bassi o minimi.

    La trasmissione di patologie considerate di medio rischio viene mitigata dallo screening patologico e dalla somministrazione di vaccini e cure antiparassitarie durante il periodo di pre – e post quarantena.

    Pur convenendo che esistono spazi ecologici potenzialmente adatti alla reintroduzione di ghepardi in molte parti dell’Africa, la realtà ci dice che pochi siti in Africa sono in grado di fornire un livello adeguato di protezione per gli animali, tanto da garantire il successo delle reintroduzioni. I contributori culturali, religiosi e socioeconomici della tolleranza nei riguardi di grandi carnivori se paragonati all’India sarebbero troppo lunghi da dibattere in questa sede, ma riteniamo sia evidente che i ghepardi sono probabilmente meno minacciati dalle persecuzioni in India, dove altri sforzi di conservazione di grandi carnivori sono stati notevolmente pieni di successo.

    Non concordiamo con l’approccio di Gopalaswamy e coautori quando valutano la capacità di sopportare i rilasci sulla densità delle popolazioni di ghepardi dell’Africa orientale (circa 1 per 100 chilometri quadrati), in quanto le densità sono ampiamente definite dalle biomasse di prede adeguate – che a loro volta sono il prodotto delle condizioni della vegetazione. Le densità storiche di popolazioni di ghepardi in Africa Orientale probabilmente erano maggiori prima del marcato declino di prede di base, e i ghepardi a loro volta probabilmente abbondavano maggiormente in aree più produttive dei loro areali storici che oggi sono state soppiantate dall’allevamento di bestiame. In una riserva nel sud del Botswana, con recinzioni permeabili ai predatori, è stata riferita una densità media e reale di 5,23 ghepardi per 100 km2, il che sta ad indicare che densità superiori sono possibili.

    Le raccomandazioni generiche offerte da Gopalaswmy et al. relative a come l’India dovrebbe impegnarsi nella conservazione globale dei ghepardi sono affascinanti, ma ci permettiamo di suggerire che sono molto poco fattibili nell’attuale clima politico. Con alcune eccezioni degne di nota, i governi, soprattutto dei paesi in via di sviluppo, tendono a dare priorità agli investimenti nelle proprie giurisdizioni che non in progetti di conservazione in altri paesi.

    A nostro parere, i dati disponibili e le argomentazioni che abbiamo proposto precedentemente sostengono a sufficienza la reintroduzione sperimentale di ghepardi in india, e siamo ansiosi di valutare i risultati del progetto nel tempo. (Fig.1). I titoli dei media hanno recentemente dimostrato che i ghepardi hanno già richiamato positivamente l’attenzione del pubblico e dei politici indiani, che sono componenti cruciali per il successo del progetto.

    Il loro ruolo di specie ombrello, che gioverà alla conservazione della biodiversità più ampia e agli obiettivi di sussistenza in India – anche se sostenuti in teoria – dovranno essere valutati dopo che i ghepardi saranno reintrodotti e si saranno stabiliti in India.

    Adrian S.D. Tordiffe, Yadvendradev V.Jhala, Luigi Boitani, Bogdan Cristescu, Richard A. Kock, Leith R.C.Meyer, Simon Naylor, Stephen J.O’Brien, Anne Schmidt-Kuentzel, Mark R.Stanley Price, Vincent van der Merwe&Laurie Marker

  • Thousands flee to Ethiopia amid Somaliland violence

    The UN says tens of thousands of civilians have fled the self-declared republic of Somaliland and crossed the border into neighbouring Ethiopia following fighting between regional government forces and local militias.

    The number of people who have left Somaliland’s Las Anod district and arrived in Ethiopia’s Doole area in the past month could be as high as 80,000, the UN’s refugee agency, the UNHRC, has said.

    Most of those arriving are women, pregnant and lactating mothers as well as children – including some who are separated from their families – according to the agency.

    Last week the UN said that an average of 1,000 people were crossing into Ethiopia each day fleeing the violence.

    This has increased humanitarian needs in the hosting areas which themselves are among the worst hit by a severe drought affecting East Africa following five consecutive failed rainy seasons.

    Additionally, more than 180,000 people are believed to have been internally displaced and settled in 66 camps within Somaliland.

    Somaliland declared its independence from Somalia in the early 1990s but has not been internationally recognised.

    It had been a relatively stable region in the volatile Horn of Africa.

    Tensions have however been fermenting in recent months after elections were delayed. Scores were killed earlier this month when fighting broke out in Las Anod.

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