Africa

  • Why Russia and Mali are firm friends

    Sergey Lavrov’s is the first visit by a Russian foreign minister to Mali as he tries to expand his country’s footprint on the continent.

    Relations first blossomed between the two in December 2021 with Russian forces being welcomed into the West African country in December 2021 to help with the fight against extremist groups.

    The authorities in Mali describe them as security advisers, but Western officials insist they are mercenaries from the private security company, Wagner, which the US recently designated as an international criminal organisation.

    Mali’s co-operation with these forces had led to a souring of relations with its traditional Western partners.

    French forces, which had been in the country fighting Islamist militants for close to a decade, withdrew last year as did their partners, including US special forces.

    In recent weeks, the authorities in Bamako expelled French ambassador Joel Meyer.

    The US government told the BBC it could not exist in the same space as a group it accuses of committing crimes.

    “That is not an organisation that would bring any value to the fight against terrorism,” the US ambassador to the UN Linda Thomas-Greenfield told the BBC last month about Wagner.

    She made the comment during a visit to the continent, which coincided with Mr Lavrov’s first tour of Africa this year.

    Last week, UN experts published a report calling for the Malian army and their Russian partners to be investigated for war crimes, drawing the ire of the military junta in Bamako and culminating in their expulsion of the UN Human Rights Representative, Guillaume Andali, from the country over the weekend.

    The UN High Commissioner for Human Rights, Volker Turk, has deplored the decision and asked Malian authorities to rescind it.

    Analysts say the fallout with forces engaged in the fight against militants in the Sahel, including the UN peacekeeping mission in Mali (Minusma), complicates efforts to deal effectively with the problem.

    Politically, the country has also found itself isolated in the region following successive military coups in 2020 and 2021.

    But the military junta has found a friend in Russia. The realignment of alliances has been rather swift and in both countries’ current interest. Mali hopes this engagement enables it to boost and “diversify security and defence ties”.

    Russia, on the other hand, has a foothold in Africa and it hopes to court more support amid its international isolation following its invasion of Ukraine.

  • Preoccupanti e pericolosi poteri occulti in azione

    La passione per il potere è insita nella maggior parte degli uomini

    ed è naturale abusarne una volta acquisito

    Alexander Hamilton

    Era l’11 aprile 2019. A Casa Santa Marta in Vaticano si svolgeva il ritiro spirituale di due giorni per la riconciliazione in Sud Sudan. Un ritiro “Per la pace” nel quale erano presenti oltre all’attuale presidente del Paese, anche il vice presidente ed i tre vicepresidenti designati, nonché gli otto membri del Consiglio delle Chiese del Sud Sudan. Diventato Stato indipendente il 9 luglio 2011, è però, dal dicembre del 2013, un Paese logorato dai continui conflitti etnici. Conflitti che hanno causato alcune centinaia di migliaia di vittime e tantissime crudeltà subite e sofferte dalla popolazione. Il Sud Sudan era e purtroppo tuttora è un Paese dove si incrociano molti interessi economici internazionali che mirano allo sfruttamento del ricco sottosuolo con petrolio e minerali molto richiesti dal mercato. Ragion per cui il Sud Sudan era ed è tuttora, però e purtroppo, anche un Paese dove si verificano dei preoccupanti e pericolosi abusi di potere, locali ed internazionali. Papa Francesco, l’11 aprile 2019, rivolgendosi ai partecipanti al ritiro “Per la pace” nel Sud Sudan, ha detto: “Non mi stancherò mai di ripetere che la pace è possibile!”. E poi si è inginocchiato davanti al presidente e al suo avversario, il vicepresidente ed ha baciato anche i loro piedi. Un gesto spontaneo, quello di Papa Francesco, che rimarrà impresso nella memoria collettiva.

    Dopo diversi rinvii per motivi di sicurezza o di salute, la scorsa settimana, dal 31 gennaio fino al 5 febbraio, Papa Francesco è andato prima in Congo e, da li, in Sud Sudan. Durante la sua visita di tre giorni nella Repubblica Democratica del Congo Papa Francesco ha avuto modo di ascoltare da alcune delle vittime molte testimonianze dirette di inaudite crudeltà. Il Paese è stato dilaniato dagli scontri armati. Soprattutto quelli scoppiati dal maggio del 1997 e durati per alcuni anni. Durante quel periodo si valuta che ci siano stati circa quattro milioni di morti, vittime di un micidiale conflitto armato che, secondo gli analisti, risulterebbe essere stato il più grande dopo la seconda guerra mondiale. Papa Francesco ha ascoltato, durante l’incontro nella sala della rappresentanza pontificia a Kinshasa, delle testimonianze di orrori e di tanta brutalità subita dalla popolazione indifesa durante lunghi anni di scontri etnici e di altre ingerenze occulte e pericolose di gruppi di interesse internazionali. Interessi tuttora attivi che si concentrano sulle tanto appetibili risorse naturali del Paese. Risorse che si trovano soprattutto nella parte meridionale, ricca di giacimenti di minerali, di diamanti e di petrolio, molto richiesti dai mercati internazionali. Come anche in Sud Sudan, con il quale il Congo confina a nord.

    Il 1 febbraio scorso è stato proclamato giorno di festa nazionale proprio per onorare l’arrivo di papa Francesco in Congo. Commosso da tutto quello che ha ascoltato dalle testimonianze delle vittime, Papa Francesco ha detto: “Davanti alla violenza disumana che avete visto con i vostri occhi e provato sulla vostra pelle si resta scioccati”. Ma il Papa ha parlato anche del “…sanguinoso, illegale sfruttamento della ricchezza di questo Paese” e dei “…tentativi di frammentarlo per poterlo gestire”. Aggiungendo perentorio che “Riempie di sdegno sapere che l’insicurezza, la violenza e la guerra che tragicamente colpiscono tanta gente sono vergognosamente alimentate non solo da forze esterne, ma anche dall’interno, per trarne interessi e vantaggi”. Era convinto però il Santo Padre che “…è la guerra scatenata da un’insaziabile avidità di materie prime e di denaro che alimenta un’economia armata, la quale esige instabilità e corruzione”. Ma era soprattutto una frase pronunciata da Papa Francesco, una lucida constatazione, che per l’autore di queste righe è molto significativa. Il Pontefice è stato diretto e perentorio dicendo: “Che scandalo e che ipocrisia! La gente viene violentata e uccisa mentre gli affari che provocano violenze e morte continuano a prosperare!”. E poi ha aggiunto, sempre riferendosi a tutti coloro che sono i diretti responsabili e colpevoli di queste atrocità: “…Vi arricchite attraverso lo sfruttamento illegale dei beni di questo Paese e il cruento sacrificio di vittime innocenti”.

    Dal Congo Papa Francesco è arrivato il 3 febbraio scorso in Sud Sudan. Come sopracitato, anche quello è un Paese colpito e sofferente per i continui conflitti etnici e per la povertà diffusa. E come in Congo, anche nel Sud Sudan sono presenti ed in azione dei preoccupanti e pericolosi poteri occulti internazionali. Sono interessi economici per le tante ricchezze del sottosuolo del Paese che contendono la gestione di quei giacimenti minerari e di petrolio. Da quel 9 luglio 2011, giorno in cui divenne uno Stato indipendente ad oggi, il Sud Sudan è, purtroppo, un Paese profondamente colpito da una lunga e sanguinosa guerra civile e da una diffusa povertà che causa fame. Non sono valsi a niente neanche gli accordi di pace del 2018. E neanche le aspettative, dopo il sopracitato ritiro “Per la pace”, di costituire un governo di alleanza nazionale previsto allora per maggio 2019. Una simile realtà ha generato anche un inevitabile flusso migratorio. Secondo le valutazioni delle istituzioni specializzate internazionali, risulterebbe che durante questi anni siano stati almeno quattro milioni gli sfollati nel Sud Sudan. Al suo arrivo a Giuba, capitale del Paese, Papa Francesco, accompagnato dall’arcivescovo anglicano di Canterbury e dal moderatore della Chiesa di Scozia, ha incontrato il presidente sudsudanese. Lo stesso che aveva incontrato l’11 aprile 2019 a Casa Santa Marta in Vaticano. Proprio colui di fronte al quale quel giorno Papa Francesco si era inginocchiato ed aveva baciato il piede, chiedendogli la pacificazione del Paese. Rivolgendosi a lui il Pontefice ha detto: “…È tempo di voltare pagina, è il tempo dell’impegno per una trasformazione urgente e necessaria. […] È tempo di un cambio di passo!”. Ed è proprio tempo per dare finalmente la possibilità al “Paese fanciullo”, come ha chiamato Papa Francesco il Sud Sudan, di passare “…dalla inciviltà dello scontro alla civiltà dell’incontro”. È tempo di riuscire finalmente ad impegnarsi seriamente anche nella lotta contro la corruzione e l’arrivo e traffico delle armi.

    Domenica, il 5 febbraio, Papa Francesco ha presieduto la Santa Messa nel Mausoleo “John Garang” a Giuba. In seguito nell’aereo, durante il volo di ritorno a Roma, egli, insieme con l’arcivescovo anglicano di Canterbury ed il moderatore della Chiesa di Scozia, ha risposto alle domande dei giornalisti. Rispondendo ad un giornalista sulla realtà nel Congo, il Pontefice ha detto che “c’è questa idea: l’Africa va sfruttata. Qualcuno dice, non so se è vero, che i Paesi che avevano colonie hanno dato l’indipendenza dal pavimento in su, non sotto, vengono a cercare minerali. Ma l’idea che l’Africa è per sfruttare dobbiamo toglierla”. Un altro giornalista era interessato a sapere cosa si potrebbe fare per impedire la continua e palese violazione delle leggi internazionali, come accade in Sud Sudan, ma anche in altri Paesi africani. Papa Francesco è convinto che bisogna impedire la vendita delle armi perché, come egli ha ribadito, “nel mondo questa è la peste più grande”. Aggiungendo però convinto che “… è anche vero che si provoca la lotta fra le tribù con la vendita delle armi e poi si sfrutta la guerra di ambedue le tribù. Questo è diabolico!”. Rispondendo ad un altro giornalista, il Pontefice ha parlato anche della gravità e delle preoccupanti conseguenze di tante guerre in corso in diverse parti del mondo. Per lui non c’è soltanto la guerra in corso in Ucraina. “Da dodici-tredici anni la Siria è in guerra, da più di dieci anni lo Yemen è in guerra, pensa al Myanmar […] Dappertutto, nell’America Latina, quanti focolai di guerra ci sono! Sì, ci sono guerre più importanti per il rumore che fanno, ma, non so, tutto il mondo è in guerra, e in autodistruzione. Dobbiamo pensare seriamente: è in autodistruzione!” ha detto Papa Francesco. Poi un giornalista ha fatto riferimento a quello che egli ha denominato come la “globalizzazione dell’indifferenza”. A lui il Pontefice ha risposto convinto: “C’è dappertutto la globalizzazione dell’indifferenza”. E poi ha continuato, aggiungendo: “Pensare che le fortune più grandi del mondo sono nelle mani di una minoranza. E questa gente non guarda le miserie, il cuore non gli si apre per aiutare”. Perciò bisogna conoscere le specifiche realtà, visitando diversi paesi nel mondo. Papa Francesco ha ricordato anche il primo suo viaggio apostolico in Europa. Il 21 settembre 2014 andò in Albania che era “il Paese che ha sofferto la dittatura più crudele, più crudele, della storia”.

    In realtà quella visita in Albania ha attirato l’attenzione mediatica internazionale. Ha suscitato speranze anche tra gli albanesi. Il Papa ha incontrato le massime autorità istituzionali e quelle religiose. Ha incontrato anche il primo ministro che da un anno aveva cominciato il suo primo mandato come tale. Colui che attualmente sta esercitando il suo terzo mandato. Chissà cosa ha detto lui al Pontefice? Di certo però non ha parlato di quello che aveva in mente di fare e che poi, nel corso di questi anni, ha veramente fatto. E lo aveva dichiarato al Parlamento un anno prima, nel settembre 2013. Rivolgendosi ai deputati dell’opposizione, il primo ministro aveva dichiarato con tanta enfasi: “Voi non avete visto ancora niente!”. Purtroppo, in realtà quello che aveva fatto fino al 2013 non era niente in confronto a quello che il primo ministro albanese ha fatto durante questi anni. Il nostro lettore ha avuto modo di essere continuamente informato del suo operato, con tutta la dovuta ed obbligatoria oggettività, fatti alla mano. Sono stati lui ed i suoi stretti collaboratori che hanno diffuso sul tutto il territorio nazionale la coltivazione della cannabis, per poi trafficare il prodotto. Una realtà questa che ha messo in allarme le istituzioni specializzate internazionale e che ha sconvolto il mercato degli stupefacenti. Lo ha fatto coinvolgendo direttamente il ministro degli Interni, il quale ha garantito il diretto coinvolgimento delle strutture della polizia di Stato. Una realtà quella che continua. Il nostro lettore è stato informato, a più riprese e a tempo debito, anche di questo. Così come è stato molto spesso informato soprattutto del restauro e del consolidamento di una nuova dittatura sui generis in Albania. Il nostro lettore è stato molto spesso informato anche della costituzione di un’alleanza pericolosa capeggiata, almeno formalmente, dal primo ministro. Un’alleanza tra il potere politico, la criminalità organizzata locale ed internazionale e determinati raggruppamenti occulti, anche quelli locali ed internazionali. Il nostro lettore è stato spesso informato, fatti documentati e denunciati alla mano, della galoppante corruzione che sta divorando sempre più la cosa pubblica in Albania, mentre la povertà si sta diffondendo sempre più in tutto il Paese. Ragion per cui si sta verificando, da alcuni anni ormai, un preoccupante spopolamento del paese. Come nel Sud Sudan ed in altri paesi dove da anni, pero, sono attivi scontri armati tra diverse etnie. Anche di questo il nostro lettore è stato informato. Così come è stato spesso informato del clamoroso abuso di potere, partendo proprio dal primo ministro e dai suoi più stretti collaboratori. Il nostro lettore è stato informato durante questi anni del fallimento ideato, programmato ed attuato della riforma del sistema della giustizia in Albania. Un fallimento che ha avuto il supporto dei “rappresentanti internazionali” in Albania e di alcuni alti rappresentanti dell’Unione europea. La scorsa settimana il nostro lettore è stato informato del diretto coinvolgimento del primo ministro albanese in uno scandalo internazionale tuttora in corso (Collaborazioni occulte, accuse pesanti e attese conseguenze; 30 gennaio 2023). Ovviamente lui, bugiardo ed ingannatore innato qual è, ha detto tutt’altro a Papa Francesco durante il loro sopracitato incontro nel settembre 2014.

    Chi scrive queste righe è convinto che in molti Paesi del mondo, compresi il Congo e il Sud Sudan, ma anche l’Albania, si stanno verificando delle presenze di preoccupanti e pericolosi poteri occulti in azione. Poteri che abusano, sfruttando la disponibilità dei politici corrotti. È vero, la passione per il potere è insita nella maggior parte degli uomini ed è naturale abusarne una volta acquisito. Come sta facendo da anni irresponsabilmente e spudoratamente anche il primo ministro albanese.

  • Il 2023 dell’Africa si apre all’insegna del debito

    Se il 2022 non è stato “facile” per l’economia dell’Africa Subsahariana, quello che si apre sembra non essere roseo. All’inizio del 2022 la regione soffriva a causa della pandemia e dei suoi effetti sull’economia. Il 2023 si apre con molte nazioni che stanno affrontando un’altra crisi: il debito insostenibile. La newsletter settimanale di Bloomberg spiega che la crisi è in  atto da anni, i prestiti a lungo termine sono più che raddoppiati raggiungendo i 636 miliardi di dollari nel decennio 2011-2021, una cifra che supera il Prodotto interno lordo di oltre 40 Paesi africani considerati nel loro insieme. La pandemia da Covid ha peggiorato la situazione economica e la guerra in Ucraina ha spinto sull’orlo del baratro molti Paesi, chiudendo l’accesso ai finanziamenti, esaurendo le riserve di valuta estera e mandando in tilt i bilanci nazionali. Non a caso il Fondo monetario internazionale parla di una regione che “vive sul filo del rasoio”. Il Ghana si è unito a Zambia e Etiopia nel tentativo di ristrutturare le passività, paesi come Nigeria e Kenya sono appesantiti da un debito sempre più preoccupante.

    Il debito è il problema maggiore che i Paesi della regione dovranno affrontare anche se l’agenzia di ratings, Fitch, prevede che il debito medio “nell’Africa subsahariana migliorerà e sarà al di sotto del 65% nel 2023, dopo aver raggiunto il 72% nel 2020, aiutato dalla ripresa economica dopo la pandemia, dall’aumento dei prezzi delle materie prime e dagli sforzi per ridurre i deficit di bilancio, ma questo livello si confronta con una media del 57% nel 2019, prima della pandemia, e con meno del 30% tra il 2007 e il 2013”. Secondo l’analisi del debito pubblico dei 19 Paesi dell’Africa subsahariana, quasi la metà dei Paesi (42%) a cui Fitch assegna un rating nella regione “hanno un rapporto debito-Pil superiore al 70%, mentre il rapporto medio debito-reddito continuerà a essere superiore al 300%, il doppio del valore del 2013”. Questo, secondo Fitch, prova il deterioramento dei fondamenti economici dei paesi della regione, nonché delle prospettive di evoluzione di queste economie. I rischi che dovranno affrontare questi paesi, dovuti al significativo rallentamento globale, sono legati all’elevata inflazione, alle difficili condizioni finanziarie, al generale indebitamento delle economie determinato dalla pandemia e ora dall’invasione russa dell’Ucraina. Fitch, inoltre, prevede che l’inflazione media nella regione scenderà dal circa 8% del 2022 al 5,5% di quest’anno e che la crescita del Pil sarà intorno al 4%, vicino alla media del 3,8% nei 5 anni fino al 2019, ma ben al di sotto della crescita registrata fino al 2014. In alcuni Paesi della regione, tuttavia, l’inflazione è ben al di sopra della media regionale.

    A ciò si aggiunge che ci sono 8 Paesi dell’Africa Subsahariana con pagamenti del debito pubblico, nel 2023, che rappresentano un quarto delle riserve estere. Secondo Bloomberg i responsabili politici africani possono far ben poco per influenzare i venti contrari globali, ma possono adottare misure per costruire una sorta di “tesoretto”. L’aumento dei prezzi delle materie prime in un continente in cui ce ne sono in abbondanza – dai diamanti ai minerali di ferro, alla bauxite, al cobalto, al platino, al rame, alle cosiddette terre rare, al petrolio e al gas – offre la possibilità di creare fondi di stabilizzazione o fondi sovrani per proteggersi da shock futuri. Il 2022, inoltre, è stato un anno in cui la maggior pare delle valute africane hanno perso valore, una tendenza che potrebbe proseguire anche nel 2023.

    Tra le monete più deboli ci sono quelle dei Paesi con un contesto complesso sia dal punto di vista economico sia da quello politico-sociale come il Sudan e lo Zimbabwe, mentre le monete di Ghana, Malawi, Sierra Leone, Etiopia ed Egitto, potrebbero subire un ulteriore deprezzamento di oltre il 10% a causa dell’inflazione. Non dovrebbe, invece, subire scossoni il franco Cfa, adottato da molti Paesi francofoni, la cui stabilità è legata all’euro. Sul fronte politico molti paesi saranno chiamati alle urne durante il 2023 e anche questi appuntamenti potrebbero far crescere il malcontento delle popolazioni già fortemente sofferenti per l’aumento dei prezzi dei generi di prima necessità. I cittadini di 8 Paesi saranno chiamati alle urne per le elezioni presidenziali. In Nigeria, il peso massimo del continente con oltre 200 milioni di abitanti, le lezioni generali sono previste per il 25 febbraio. Il presidente uscente Muhammadu Buhari non potrà candidarsi avendo già portato a termine 2 mandati. La Sierra Leone andrà al voto a giugno, la Liberia a ottobre, il Madagascar a novembre, i  presidenti uscenti di questi paesi – rispettivamente Jiulius Maada Bio, George Weah e Andrei Rajoelina – potranno candidarsi per un secondo mandato. In Gabon, la Costituzione consente al presidente Ali Bongo di ricandidarsi, in questo caso si tratterà di un terzo mandato settennale. Prima di lui il governo del Gabon e’ stato nelle mani del padre Omar Bongo per 41 anni. La Repubblica democratica del Congo andrà alle urne il 20 dicembre, la registrazione degli elettori è già iniziata, il presidente uscente, Felix Tshisekedi, ha già annunciato la sua ricandidatura, anche se molti analisti temono che possano essere rinviate a causa della perenne condizione di guerra che regna nell’Est del paese. Anche lo Zimbabwe andrà alle urne. Le elezioni generali, invece, sono già state rinviate in Sud Sudan, non si terranno quest’anno e la transizione è stata prorogata di due anni, fino al 2024. Il Sud Sudan non ha avuto elezioni presidenziali dalla sua indipendenza nel 2011. Nel 2013 è scoppiata una sanguinosa guerra civile e ancora oggi, nonostante gli accordi di pace, il paese vive una instabilità cronica.

  • Nuovi passi per salvare il ghepardo

    Laurie Merker, fondatricee del Chetah Conservation Fund, si è di recente recata in Kenya per una riunione del Horn of Africa Wildlife Enforcement Network (HAWEN) come parte della sovvenzione LICIT del CCF da parte del Dipartimento per l’ambiente, l’alimentazione e gli affari rurali del Regno Unito (DEFRA). Creato in Namibia e da qualche anno attivo anche in Somaliland, il centro che tutela, cura e protegge dall’estinzione i ghepardi, sta facendo grandi progressi grazie al generoso sostegno che riceve da tutto il mondo.  Donando, visitando, facendo volontariato e condividendo il lavoro sui social media il CCF è aiutato nella sua missione di salvare il ghepardo in tutto il suo areale.

  • Il presidente del Ghana esorta l’Africa a smettere di “mendicare”

    Il presidente del Ghana, Nana Akufo-Addo, ha affermato che i paesi africani devono smettere di “pregare” l’Occidente per guadagnarsi il rispetto globale e cambiare la percezione errata del continente.

    “Se smettiamo di essere mendicanti e spendiamo soldi africani all’interno del continente, l’Africa non avrà bisogno di chiedere rispetto a nessuno, se la rendiamo prospera come dovrebbe essere, il rispetto arriverà”. Le parole sono state pronunciate durante l’apertura del vertice dei leader USA-Africa a Washington DC al quale partecipano decine di leader africani per discutere della cooperazione con gli Stati Uniti mentre cresce l’influenza cinese e russa nel continente.

    Akufo-Addo ha sollecitato una maggiore solidarietà tra gli africani per affrontare le aspirazioni condivise.

    “Gli africani sono più resilienti al di fuori del continente che all’interno. Dobbiamo tenere presente che per il mondo esterno, [non c’è] niente come la Nigeria, il Ghana o il Kenya, siamo semplicemente africani. Il nostro destino come persone dipende l’uno dall’altro”.  Per il presidente il continente dispone di capacità e manodopera, ma necessita di una volontà politica concertata per far “funzionare l’Africa”.

    Le osservazioni di Akufo-Addo sono arrivate il giorno in cui il Fondo monetario internazionale ha accettato di concedere al Ghana un prestito di 3 miliardi di dollari (2,4 miliardi di sterline) per alleviare una recessione economica senza precedenti nel paese dell’Africa occidentale.

    Decine di leader africani sono a Washington per discutere della cooperazione con gli Stati Uniti in mezzo alla crescente influenza cinese e russa nel continente.

  • Agenzie rating, sfida africana

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi apparso su ‘ItaliaOggi’ il 6 dicembre 2022

    L’Africa ha una sua agenzia di rating, la Sar, Sovereign Africa Ratings. È una novità importante nel panorama finanziario del continente africano, e non soltanto.

    La Sar è nata in Sud Africa per iniziativa di un gruppo di imprenditori locali con l’intento di contrastare l’attività speculativa e la dipendenza dalle tre agenzie di rating americane.

    Il modello di rating del credito di Sar comprende una serie di variabili classiche, quali alcuni aspetti fiscali, economici, monetari, ambientali e di governance, i cambiamenti climatici e la crescita del pil.

    L’elemento innovativo sta nel fatto che si attribuisce un peso rilevante alla ricchezza mineraria del territorio come indicatore di performance. Quindi, non solo le fonti energetiche ma anche le materi prime nascoste nelle viscere del continente: oro, diamanti, cobalto, rame, zinco, cobalto e le tante cosiddette terre rare.

    Finora i Paesi africani sono stati vittime dei voti dati dall’oligopolio formato da Standard & Poor’s, Moody’s e Fitch, che hanno il controllo del 95% del mercato del rating mondiale. Le «tre sorelle» sono imprese private il cui capitale azionario è controllato da grandi fondi d’investimento.

    Nel 2022 dette agenzie avevano stilato dei rating di solvibilità molto negativi nei confronti dei governi, delle obbligazioni di Stato, dei titoli pubblici e privati africani. I loro giudizi si sono basati su previsioni insufficienti e molto superficiali. I governi, a cominciare da quello del Sud Africa, hanno lamentato la politica invasiva delle agenzie statunitensi.

    Si ricordi che i declassamenti portano all’isolamento finanziario con un impatto devastante sulle economie africane. È, infatti, noto che un rating basso comporta il pagamento di un tasso d’interesse maggiore per ottenere dei crediti o per piazzare dei titoli sui mercati. Indebolisce anche l’offerta di capitali da parte degli investitori stranieri. Per i governi, questo implica scelte spesso impopolari come lo spostamento di fondi di bilancio dalle spese sociali verso il servizio del debito pubblico.

    Di solito i declassamenti accrescono l’esosità degli speculatori e delle multinazionali delle materie prime. Ciò significa povertà, instabilità sociale e sottosviluppo.

    Il rating creditizio di S&P per il Sud Africa è di BB- con outlook positivo. BB- equivale a junk, spazzatura. Di conseguenza, le obbligazioni sono considerate titoli speculativi. Le banche centrali, come la Bce, non accettano in garanzia titoli con tale voto. Le assicurazioni e i fondi pensione non possono acquistarli e sono tenuti a disfarsi di quelli già in possesso.

    Invece, la Sar ha dato al Sud Africa il rating BBB (investment grade, degno di investimento), lo stesso che S&P concede all’Italia.

    David Mosaka, chief rating officer dell’agenzia Sar, ritiene che l’economia del Sud Africa stia crescendo a un tasso dell’1,9% quest’anno e dell’1,4% nel 2023, il che certamente non favorisce l’occupazione e nuove entrate fiscali. Egli ritiene, però, che un approccio valutativo diverso rispetto al passato possa frenare le spinte speculative. Man mano che l’agenzia crescerà sui mercati internazionali, essa potrà produrre valutazioni per i paesi africani al fine di contrastare il deprezzamento delle commodity e delle economie nazionali.

    Lo scorso 15 maggio, anche Macky Sall, capo di Stato senegalese e attuale presidente dell’Unione Africana, aveva auspicato «la creazione di un’agenzia panafricana di rating finanziario». Sall aveva affermato che il rating delle agenzie internazionali è «talvolta molto arbitrario». Esse esagererebbero il rischio d’investimento in Africa, aumentando così il costo del credito. Secondo il presidente senegalese, almeno il 20% dei criteri di valutazione per i Paesi africani sarebbero «fattori culturali o linguistici piuttosto soggettivi, estranei ai parametri che misurano la stabilità di un’economia».

    L’iniziativa del Sud Africa si colloca all’interno dei programmi dei paesi Brics, di cui fa parte con Brasile, Russia, Idia e Cina. Tra le loro iniziative c’è proprio la creazione di un’agenzia di rating. Èanche una lezione d’indipendenza e d’intraprendenza rispetto all’Unione europea che, dopo la grande crisi del 2008 in cui le «tre sorelle» ebbero un ruolo centrale e nefasto, aveva speso tantissime parole in merito alla creazione di un’agenzia di rating europea. Parole che sono rimaste solo sulla carta. Se ne ignora il perché.

    *già sottosegretario dell’Economia **economista

  • Vietare l’esportazione di vecchi veicoli inquinanti fuori dall’UE e per i paesi africani possibilità di acquisto di veicoli tramite accordi con le case automobilistiche

    Riceviamo e pubblichiamo una lettera che l’On. Cristiana Muscardini ha inviato al Commissario europeo all’Ambiente

    Virginijus Sinkevičius

    Commissario europeo all’Ambiente

    Rue de la Loi 200

    1049 Brussels

    Belgium

    Milano, 21 novembre 2022

    Signor Commissario,

    anche alla luce dei vari problemi emersi durante Cop 27 svoltosi in Egitto Le chiedo di affrontare un tema che sembra sfuggito all’attenzione di molti di coloro che si occupano di ambiente e di lotta all’inquinamento.

    Come Ella sa, mentre in Europa si obbligano i cittadini a sostituire le vetture inquinanti, dalle macchine ai veicoli agricoli, offrendo anche incentivi, gli stessi sono poi esportati e rivenduti nei paesi più poveri, specialmente in Africa.

    In questo modo noi spostiamo il problema, ci saranno meno emissioni inquinanti a Parigi, Milano, Bruxelles, Berlino ma ci sarà  ancora più inquinamento nelle città africane e, come sappiamo bene, il problema non si risolve spostandolo ma eliminandolo.

    La Commissione ritiene di poter intervenire mettendo allo studio una proposta che da un lato vieti l’esportazione di vecchi veicoli inquinanti fuori dall’Unione Europea e dall’altro crei, per i paesi africani, possibilità di acquisto di veicoli per il trasporto privato, pubblico e per l’agricoltura a prezzi calmierati attraverso i fondi per la cooperazione e tramite accordi con le case automobilistiche?

    Certa che alla Sua sensibilità non sfuggirà la necessità di affrontare anche questo problema resto in attesa di conoscere il Suo pensiero.

    Cordiali saluti,

    Cristiana Muscardini

  • Twitter lays off staff at its only Africa office in Ghana

    Twitter has fired nearly all its staff in Ghana, which was home to its only office in Africa.

    The firm “is re-organising its operations as a result of a need to reduce costs,” read Twitter’s email, seen by the BBC.

    The layoffs were part of a global staff cull introduced by new boss Elon Musk.

    The Ghana office was opened to some fanfare last year with the company saying it wanted to be more “immersed” in African conversations.

    Ghana staff were sent messages about the end of their contracts to their personal accounts, after being denied access to work emails.

    “It’s very insulting,” one person who wanted to stay anonymous told the BBC.

    “From the mail to the lack of next steps to the tone of the letter. Just everything. Ridiculously insulting,” the staff member continued.

    There were just under 20 people employed in Ghana’s Twitter office, the BBC understands.

    The termination of employment notice indicates that the “last day of employment will be 4 December 2022”.

    This move is against local labour laws which state that employers must give employees at least three months’ notice before the termination of contract date.

    It is also against the law in Ghana to not offer redundancy pay, which the anonymous staff members said they have not received, but will get their normal salary.

    The letter from Twitter’s management further warned staff not to “contact or deal with any customers, clients, authorities, banks, suppliers or other employees of the Company and are required to inform the Company if contacted”.

    It also told staff not to commence any other employment or engagement until their last day with the organisation, while wishing them the very best in their future endeavours.

    Mr Musk, Twitter’s new owner, has been laying off staff worldwide. He said he had “no choice” but to slash the company’s workforce as the firm was losing more than $4m (£3.5m) a day.

    Last year, Twitter announced it was opening its first Africa office in Ghana in a bid to “be more immersed in the rich and vibrant communities that drive the conversations taking place every day across the African continent”, it said in an April 2021 statement.

    At the time, Twitter had praised Ghana for “free speech, online freedom, and the Open Internet” with the news even being welcomed by Ghana’s President Nana Akufo-Addo who described it as “excellent”.

  • Tanzania deploys army to fight Kilimanjaro fires

    Tanzania’s army has deployed hundreds of troops to help firefighters who have been battling fires on Africa’s highest peak, Mount Kilimanjaro, for close to two weeks now.

    Army officials say the Tanzania People’s Defence Forces (TPDF) will co-operate with other agencies and volunteers to ensure the fire is controlled before it causes more damage to vegetation on the mountain.

    “Officers and men of TPDF have already arrived in Siha and Mweka areas in Kilimanjaro Region ready to fight the fire,” a statement by the TPDF says.

    A BBC team on the slopes of the mountain witnessed some of the soldiers arriving at the two entry points to the mountain on Tuesday.

    A series of wildfires have been breaking out in different areas on the mountain, after an initial fire started near a camp along a popular hiking route on 21 October.

    Hundreds of people, including firefighters, national park staff, tour guides and civilians, have been battling to put out the fires with little success.

    The cause of the fires is not known yet but the government says human activities are most likely to blame.

    The government says a prolonged drought, layers of decaying organic material and strong wind are part of the reasons the fire has been hard to control.

    Two years ago, a week-long inferno destroyed thousands of hectares of woodland on the mountain’s slopes.

  • I Paesi poveri non ce la fanno a tirare avanti, anche se molti di essi posseggono un sacco di materie prime

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi pubblicato il 2 novembre 2022 su ‘ItaliaOggi’ 

    Il debito dei Paesi più poveri tra quelli in via di sviluppo è tornato a essere ad alto rischio. Lo afferma il recente studio del Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (Undp) intitolato «Avoiding: too little, too late», si fa troppo poco e troppo tardi per evitarlo!

    Lo studio si riferisce a Paesi che rappresentano quasi il 18% della popolazione mondiale e il 50% delle persone che vivono in povertà estrema. Pur essendo ricchissimi di materie prime e di altre commodity alimentari, essi rappresentano un misero 3% del pil globale. Sarebbero 54 i Paesi in via di sviluppo che necessitano di una riduzione urgente del debito pubblico, pena una imminente catastrofe umanitaria, emigrazioni incontrollate e guerre di vario tipo: 25 sono nella regione sub sahariana, 10 nell’America Latina e nei Caraibi.

    L’aggravamento è dovuto al fatto che i suddetti Paesi emettono debito in dollari e, di conseguenza, subiscono le decisioni prese dagli Stati Uniti. Per esempio, l’aumento dei tassi d’interesse da parte della Fed ha per loro un effetto negativo insostenibile. Da qualche tempo almeno 19 Paesi pagano interessi superiori del 10% rispetto a quelli dei Treasury bond.

    Queste obbligazioni sono in caduta libera con un deprezzamento del 40-60%. Se si considerano tutte le economie in via di sviluppo, ben 26, circa un terzo, sono classificate «rischio sostanziale, estremamente speculativo o insolvenza».

    Il peggioramento della loro situazione economica e sociale è confermato anche da un altro studio dell’Undp sul Multidimensional Poverty Index (mpi). Tale indice analizza la povertà combinando il livello del reddito pro capite con i diversi aspetti della vita quotidiana di persone in povertà: l’accesso all’istruzione e alla salute e lo standard di vita come alloggi, acqua potabile, servizi igienici ed elettricità. I dati di prima della pandemia e dell’impennata inflazionistica mostrano che 1,2 miliardi di persone in 111 Paesi vivono in condizioni di povertà multidimensional acuta. Questo è quasi il doppio del numero di chi è considerato povero perché ha un reddito inferiore a 1,90 dollari al giorno.

    L’analisi evidenzia che oltre il 50% delle persone povere (593 milioni) non ha elettricità e gas per cucinare; quasi il 40% dei poveri non ha accesso all’acqua potabile e ai servizi igienici; più del 30% delle persone povere è privato contemporaneamente di cibo, combustibile per cucinare, servizi igienici e alloggio. La maggior parte delle persone povere multidimensional (83%) vive nell’Africa sub sahariana (579 milioni) e nell’Asia meridionale (385 milioni).

    L’Undp sostiene che la risposta del G20 sia del tutto inadeguata. Ricorda anche che, nella pandemia del 2020-2021, il G7 ha stanziato ben 16 mila miliardi di dollari. Lo stesso Fmi potrebbe espandere le sue linee di credito e accelerare la ricanalizzazione dei diritti speciali di prelievo. Perciò, volendo, «i problemi di liquidità non sono ingestibili».

    Lo studio propone il coordinamento dei creditori, compresi quelli privati, e l’uso di clausole per le obbligazioni statali che mirino alla resilienza economica e fiscale. Si sostiene che in alcuni casi si debba cancellare il debito. Oggi mancano le assicurazioni finanziarie dei principali governi creditori per raggiungere un accordo. Perciò si proporrebbero i cosiddetti Brady Bonds, obbligazioni della durata di 30 anni, sostenute da Treasury bond, emesse negli anni Ottanta dai Paesi in crisi per finanziare il debito con le banche commerciali. Si ricordi il default dell’Argentina.

    *già sottosegretario all’Economia **economista

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