Albania

  • Che possano servire di lezione

    La coerenza è comportarsi come si è e non come si è deciso di essere.

    Sandro Pertini

    Un furbo derviscio era riuscito a convincere il sultano di sapere, in ogni momento, cosa faceva Dio. Il sultano, a sua volta, faceva quello che secondo il furbo derviscio facesse Dio. E ne andava fiero il sultano di quello che faceva. Un giorno chiese al patriarca di Costantinopoli se lui avesse qualcuno che sapeva cosa facesse Dio in ogni momento. E se no, allora il patriarca sarebbe stato decapitato. Disperato il patriarca ritornò nella sua dimora. Un diacono, vedendolo così disperato, gli chiese cosa aveva. Dopo aver saputo, il diacono lo tranquillizzò e gli chiese soltanto di portarlo con se presso il sultano. E così fu. Il sultano chiese al diacono se lui sapeva cosa faceva Dio in qualsiasi momento. Sì, rispose il diacono. Ma prima, siccome sono stanco e affamato, posso avere qualcosa da mangiare insieme con il derviscio? I servi portarono subito una grande tazza con latte e un pezzo di pane. Il diacono e il derviscio cominciarono a spezzettare il pane e mescolare i pezzi nel latte e si misero a mangiare. Subito il diacono diede una cucchiaiata sul naso al derviscio. Il sultano arrabbiato lo sgridò. Allora il diacono gli rispose: ma come mai, lui che sa in qualsiasi momento cosa fa Dio, non sa riconoscere i suoi bocconi dai miei? Il sultano, svergognato e umiliato, non poteva dire niente. Ordinò di uccidere il furbo derviscio e lasciò tranquillo il patriarca e il diacono. Questo racconta una vecchia fiaba con intelligente ironia. E dalle fiabe c’è sempre da imparare.

    La metafora di questa fiaba è sempre attuale. Purtroppo, e non di rado, anche le istituzioni dei singoli paesi e quelle internazionali sono soggette e patiscono dalle premeditate e spesso anche profumatamente “sponsorizzate” fandonie e bugie Non fanno eccezione nemmeno le istituzioni dell’Unione europea. Quanto sta succedendo, soprattutto negli ultimi anni, ne è una testimonianza. L’operato dei rappresentanti delle istituzioni europee, per la maggior parte nominati e non eletti, non sempre ha giustificato e onorato la fiducia data. Non a caso determinate decisioni delle istituzioni hanno provocato e continuano a provocare malcontenti e disappunti. Non a caso in diversi paesi dell’Unione sono nati e stanno avanzando i movimenti e/o i partiti politici euroscettici. E non a caso anche i tradizionali partiti, in diversi paesi europei, hanno perso e stanno perdendo consenso. Lo dimostrano chiaramente i risultati elettorali degli ultimi anni. Quanto sta succedendo dovrebbe essere un campanello d’allarme per tutti. Per i partiti e per le istituzioni locali e/o internazionali, ma soprattutto per i cittadini responsabili. Per quei cittadini che, con i loro voto, eleggono i propri rappresentanti, sia nazionali che nel Parlamento europeo. Rappresentanti che, a loro volta, scelgono e nominano i funzionari di tutti i livelli delle istituzioni dell’Unione europea. Compresi, anche e soprattutto, quelli della Commissione europea, le cui decisioni hanno un diretto impatto non solo nei singoli stati membri, ma anche oltre.

    Ragion per cui, le prossime elezioni per il Parlamento europeo rappresentano un avvenimento molto importante, visti anche gli sviluppi in altri singoli paesi e quegli geopolitici a scala mondiale, con tutte le loro conseguenze. Il Consiglio dell’Unione europea ha deciso, in maniera unanime, che le prossime elezioni si svolgeranno dal 23 al 26 maggio 2019. Si voterà in tutti i 27 stati membri dell’Unione per eleggere i rappresentanti del Parlamento europeo. Per la prima volta, dal 1979, non si voterà nel Regno Unito, dopo il referendum del 23 giugno 2016, per rimanere o uscire dall’Unione europea.

    Proprio domenica scorsa, dopo un vertice straordinario, il Consiglio europeo ha approvato all’unanimità l’accordo dell’uscita e delle relazioni future tra il Regno Unito e l’Unione europea. E tutto ciò è dovuto anche ad alcune determinate scelte e decisioni delle istituzioni europee nel corso degli anni che hanno scatenato il malcontento e la reazione dei cittadini del Regno. Una separazione che non è stata e non sarà facile. La frase del presidente Juncker, il quale riferendosi al sopracitato accordo, ha detto che “è un giorno triste. Non un momento di gioia ma una tragedia, perché un grande Paese lascia l’Unione europea”, rappresenta lo stato d’animo e la realtà attuale e futura. Realtà che metterà a dura prova anche la premier Theresa May e il suo governo. Nel frattempo rimane in bilico l’esito della votazione del Parlamento britannico sull’accordo raggiunto domenica scorsa a Bruxelles, visto che la May non ha la maggioranza per farlo approvare.

    Ma non è soltanto quanto è successo tra l’Unione europea e il Regno Unito, quello che dovrebbe far riflettere seriamente e con la massima responsabilità tutti, sia i rappresentanti politici e istituzionali, che i cittadini. Basta pensare ai risultati elettorali nei diversi singoli paesi dell’Unione. L’avanzata dei partiti e dei movimenti euroscettici e populisti è un segnale da prendere seriamente in considerazione. E non soltanto con delle “belle parole”, bensì con delle scelte responsabili, anche se difficili. Scelte che dovrebbero mirare quanto avevano ideato con chiarezza e lungimiranza i Padri Fondatori circa settant’anni fa. Scelte che dovrebbero far diventare l’Unione europea, tra l’altro, anche portatrice dei valori fondamentali dell’umanità. Scelte che dovrebbero far pensare due volte, prima di agire, determinati alti rappresentanti delle istituzioni europee. Scelte che dovrebbero ostacolare e condannare comportamenti irresponsabili e, peggio ancora, comportamenti “profumatamente sponsorizzati” da interventi occulti e contro gli interessi dei singoli paesi. Sia di quelli membri dell’Unione che di quelli che ambiscono a diventare tali.

    Il caso dei paesi balcanici ne è un eloquente e significativo esempio. Come lo sono, fatti alla mano, alcuni determinati comportamenti di certi alti rappresentanti delle istituzioni europee, la Commissione in primis. Con il loro operato, hanno clamorosamente fallito in Macedonia, anche ultimamente con il referendum per il nome. Hanno fallito con le trattative tra la Serbia e il Kosovo, soprattutto appoggiando il progetto della revisione delle frontiere tra i due paesi. Ma hanno fallito vistosamente e altrettanto clamorosamente in Albania, chiudendo gli occhi e permettendo la diffusa cannabizzazione del paese, la galoppante corruzione e tanto altro. Lo hanno fatto ripetutamente con le loro irresponsabili e sponsorizzate dichiarazioni sia Federica Mogherini, l’Alto rappresentante dell’Unione per gli Affari Esteri e la Politica di Sicurezza, che Johannes Hahn, Commissario per la Politica di Vicinato e i Negoziati per l’Allargamento. E lo hanno fatto, mentre i rapporti ufficiali delle istituzioni specializzate, comprese anche quelle della Commissione europea, affermavano l’opposto contrario (Patto Sociale n.292; 304; 318;321 ecc.).

    Chi scrive queste righe auspica che quanto sia successo ultimamente in diversi paesi dell’Europa possa e debba servire di lezione. Egli, altresì, avrebbe veramente preferito che l’inqualificabile comportamento di alcuni alti rappresentanti dell’Unione fosse dovuto semplicemente alla leggerezza di credere ai loro consiglieri. Perché, per lo meno, non si sarebbero trovati, in seguito, nelle pietose condizioni del sultano mentito dal suo furbo derviscio.

  • Despoti che scappano

    E sai perché non trovi sollievo nella fuga?
    Perché mentre fuggi ti porti sempre dietro te stesso.

    Lucio Anneo Seneca

    Dopo aver governato per dieci anni con il pugno di ferro la Macedonia (27 agosto 2006 – 18 gennaio 2016), dall’8 novembre scorso l’ex primo ministro è in fuga. Tutto ciò accadeva  soltanto poco prima d’essere stato accompagnato in carcere, dalla sua abitazione in Scopie. Abitazione di fronte alla quale c’erano sempre agenti delle truppe speciali, sue guardie del corpo e sua scorta. Ma nessuno ha visto e/o sentito niente. Condannato a due anni per corruzione e abuso di potere, e in attesa di altri probabili processi giudiziari, Nikola Gruevski, con il passaporto ormai confiscato, è riuscito comunque a scappare. Non si sa se di nascosto oppure con qualche “copertura occulta”. Da sottolineare che il mandato di cattura internazionale per Gruevski è stato rilasciato soltanto il 13 novembre scorso dalle autorità macedoni, mentre da cinque giorni risultava irreperibile. Sono tante le riflessioni che si possano fare, riferendosi al mancato controllo e alla fuga. Una, per esempio, potrebbe essere: a chi gioverebbe la fuga di Gruevski? Non è che forse, con Gruevski non più in Macedonia, si eliminerebbe una seria e presente preoccupazione per l’attuale primo ministro macedone e per altri politici locali?! Forse.

    Nella sua ben organizzata fuga, prima è entrato in Albania, ma non si sa dove e quando questo sia avvenuto. Perché non risulta registrato in nessuno dei punti di controllo di frontiera tra l’Albania e la Macedonia. Si sa però che è uscito dall’Albania, viaggiando con una macchina di proprietà dell’ambasciata ungherese a Tirana e usando una carta d’identità. Da un comunicato stampa della polizia albanese, risulta che Gruevski ha lasciato il territorio albanese per entrare in quello del Montenegro, l’11 novembre 2018 alle ore 19.11. In più si sa anche la targa della macchina diplomatica con la quale viaggiava. La fuga dell’ex primo ministro macedone è continuata poi nel territorio montenegrino, dal quale risulta essere uscito lo stesso giorno. Ma anche in questo caso, da notizie e indiscrezioni mediatiche, risulterebbero alcuni elementi, tipici dei film polizieschi e di spionaggio.

    La meta prestabilita, almeno per il momento, della fuga di Gruevski sembra essere l’Ungheria. E non a caso. Si sa pubblicamente che tra lui e il presidente Orban ci siano da tempo buoni rapporti di amicizia e di sostegno reciproco. Lo scorso 13 novembre sembra che Gruevski abbia postato un messaggio su Facebook, dichiarando che si trovava a Budapest, in attesa dell’asilo politico. La sua presenza in Ungheria la conferma una dichiarazione di un alto rappresentante del governo ungherese. Dalla dichiarazione risulta che le autorità ungheresi “hanno permesso a Gruevski di consegnare ufficialmente la richiesta di asilo e hanno sentito il suo ragionamento presso gli uffici per la Migrazione e Asilo a Budapest”. In più, nella dichiarazione si conferma che le autorità ungheresi tratteranno la richiesta e che la valuteranno “in accordo con le leggi ungheresi e quelle internazionali”. Sempre nella sopracitata dichiarazione si sottolinea che le autorità ungheresi non interverranno nelle questioni interne dei paesi sovrani, considerando perciò che “la valutazione della richiesta d’asilo per l’ex primo ministro (Gruevski; n.d.a.) sarà trattata soltanto per l’aspetto giuridico”. Nel frattempo, i rappresentanti dell’ambasciata ungherese in Albania non hanno accettato di commentare il perché dell’accompagnamento di Gruevski al passaggio di frontiera con il Montenegro, con una macchina diplomatica, insieme con uno o due impiegati dell’ambasciata.

    Una storia di fuga quella, che ha avuto l’attenzione mediatica internazionale in questi ultimi giorni. Ovviamente, come accade in simili casi, non mancano neanche le speculazioni e le false notizie. Ma comunque sia, si sa con certezza ormai che Gruevski è fuggito dalla Macedonia, dove doveva scontare una condanna di due anni di carcere per corruzione e abuso di potere legata all’acquisto di una macchina per circa 600.000 Euro. Si sa anche che su di lui gravano pure altre accuse di corruzione, di malgoverno ecc., e che la giustizia doveva determinare la veridicità. Accuse che si basano su fatti evidenziati e documentati. Scappando, lui, in qualche modo, ha ammesso la sua colpevolezza. Da indiscrezioni mediatiche risulterebbe anche che, da settembre scorso, Gruevski abbia provveduto a ritirare tutta la liquidità dai sui depositi bancari.

    L’ex primo ministro in fuga ha dominato la scena politica macedone in questi ultimi dodici anni. Ma la sua carriera politica comincia nel 1996, come consigliere locale a Scopie, per poi diventare ministro del Commercio nel 1998 e, un anno dopo, ministro delle Finanze. All’inizio della sua attività politica e governativa non era lo stesso che diventò in seguito. O, perlomeno, così appariva. È stato lui che ha avviato la riforma della deregolamentazione dell’economia, chiedendo anche la tassa sul valore aggiunto, la tassa piatta e la restituzione delle proprietà sequestrate durante il periodo del comunismo. All’inizio ha avuto un vasto consenso elettorale, non solo dai macedoni, ma anche dagli albanesi in Macedonia, che rappresentano circa il 25% della popolazione. Poi, nel 2015, ha cominciato il suo inarrestabile declino. Tutto dovuto alla pubblicazione di migliaia di intercettazioni telefoniche, da parte del suo avversario, l’attuale primo ministro macedone. Intercettazioni che testimoniavano degli abusi clamorosi del potere, delle diffusa corruzione, delle continue manipolazioni delle elezioni ecc. (Patto Sociale n.257).

    Il caso Gruevski però rappresenta più che un caso personale. Rappresenta un fenomeno, almeno regionale. Politici ai vertici del potere, onnipotenti, autocrati, spesso arroganti, ma comunque corrotti e coinvolti in chissà quanti scandali, si trovano attualmente anche in altri paesi della regione balcanica, come in Kosovo e in Serbia, ma soprattutto come in Albania.

    La continua e consapevole violazione della Costituzione e delle leggi sono purtroppo, fatti alla mano, una costante del modo di pensare e di agire del primo ministro albanese. La corruzione radicata e diffusa, la connivenza con la criminalità organizzata e l’uso di quest’ultima per garantire il condizionamento e la manipolazione del risultato elettorale, sono soltanto alcune delle gravi e allarmanti realtà vissute quotidianamente in Albania.

    Chi scrive queste righe è convinto che, in confronto a Gruevski, il primo ministro albanese ha molte più colpe e perciò, anche molte più ragioni per fuggire. E forse verrà, auguratamente, un giorno che lo faccia. Ma se ancora non lo ha fatto è perché il sistema della giustizia, tutto il sistema, è ormai da circa un anno, totalmente controllato da lui. Perciò il primo ministro non può indagare e condannare se stesso. Soltanto la rivolta popolare può salvare l’Albania e gli albanesi da un despota peggio di Gruevski. Ma prima però, bisogna costituire una vera, consapevole, determinata e attiva opposizione. Non come quella attuale, semplicemente di facciata, incapace e che facilita le malefatte del primo ministro. Un’opposizione che fa ridere anche i polli.

  • Incubi e pretese irredentistiche

    La violenza non risolve mai i conflitti, e nemmeno
    diminuisce le loro drammatiche conseguenze.

    Papa Giovanni Paolo II

    Giovedì scorso, 8 novembre, una cerimonia religiosa ortodossa di sepoltura, in un villaggio in cui vive in pace una minoranza greca in Albania, è stata trasformata in una manifestazione violenta antialbanese. Tutto dovuto ad interventi offensivi, intollerabili e legalmente condannabili di gruppi organizzati paramilitari di estremisti ultranazionalisti greci, venuti appositamente dalla Grecia. Espressione arrogante di pretese, incubi e richiami di irredentismo covati e mai nascosti, da più di un secolo. Mentre le frontiere tra l’Albania e la Grecia sono state definitivamente delineate dal Protocollo di Firenze delle grandi potenze del 27 gennaio 1925 e in seguito sancite, il 30 luglio 1926 a Parigi, dalla Conferenza degli Ambasciatori delle grandi potenze (Patto Sociale n.330). Ciò nonostante, le pretese greche su determinati territori albanesi continuano e si manifestano, come una costante, di volta in volta. Si tratta però, di pretese che non solo non hanno credibili fondamenta storiche, ma che, purtroppo, non di rado sono state appoggiate anche da coperture e manipolazioni religiose.

    Da più di settanta anni, un fatto storico ha offerto un cavillo alla diplomazia greca e non solo, per sancire le loro rivendicazioni irredentistiche. Ai greci sono venuti in aiuto gli scontri militari tra loro e l’esercito italiano. Il 28 ottobre 1940 cominciò quella che è stata riconosciuta come la campagna italiana in Grecia. Nel frattempo l’Italia aveva invaso l’Albania nell’aprile 1939. Da allora, Vittorio Emanuele III, oltre ad essere Re d’Italia e Imperatore d’Etiopia si proclamò anche il Re dell’Albania. Dal territorio albanese il Regio Esercito italiano cominciò l’offensiva contro la regione greca dell’Epiro. Ma la campagna italiana contro la Grecia risultò subito un totale fallimento. Le forze greche, in poco tempo, cominciarono un vasto contrattacco, respingendo le truppe italiane oltre frontiera. Ma non si fermarono lì. Per i greci era rappresentata una ghiotta occasione per entrare e occupare dei territori albanesi. Territori che, per i greci, facevano parte di quella regione per la quale avevano coniato il nome “l’Epiro del Nord”. L’esercito italiano comunque riuscì, a fine febbraio 1941, a tener testa all’avanzata greca. Poi tentarono una massiccia controffensiva per respingere i greci dall’Albania, che purtroppo si concluse con un altro sanguinoso fallimento. Nel frattempo la Germania, con degli interventi ben organizzati e attuati, riuscì ad invadere sia la Jugoslavia che la Grecia. Paesi che subito sono stati costretti ad accettare la capitolazione. Soltanto grazie all’intervento tedesco, la campagna italiana in Grecia si concluse il 23 aprile 1941 come vittoriosa nel finale, nonostante sia stata considerata come un grave insuccesso politico e militare.

    Per la Grecia l’importanza storica del conflitto armato con l’Italia è talmente grande che come Festa Nazionale è stata proclamata non la fine della Seconda Guerra Mondiale, bensì l’inizio del conflitto con l’Italia, cioè il 28 ottobre. Una data questa che, da un anno a questa parte, è entrata ufficialmente anche nei rapporti tra l’Albania e la Grecia. In seguito anche il perché.

    Stranamente però, la Grecia mantiene tuttora lo “stato di guerra” con l’Albania, mentre da tempo non lo ha più con l’Italia! E questo perché la sopracitata campagna greca cominciò dal territorio albanese! Un ragionamento questo che fa acqua da tutte le parti, ma che la diplomazia greca porta ancora avanti. Nonostante l’Albania e la Grecia abbiano anche ratificato un Trattato di Amicizia tra di loro, che è entrato in vigore il 5 febbraio 1998. Tutti questi sopramenzionati fatti storici e ufficiali non bastano però a placare, una volta per sempre, i piani irredentistici della Grecia verso determinati territori albanesi.

    Parte integrante di questi piani, sembrerebbe sia anche la presenza di alcuni cimiteri militari dei caduti greci in territorio albanese durante la controffensiva del 1941. Cimiteri distribuiti nel sud e sud-est dell’Albania, in seguito a lunghe trattative tra l’Albania e la Grecia. Ma secondo credibili testimonianze storiche e/o di anziani abitanti, spesso nei luoghi scelti per i cimiteri non è stato mai combattuto! In questo ambito non sono mancati neanche gli scandali. Scandali condannabili non soltanto legalmente, ma soprattutto moralmente. Si è trattato di consapevoli riempimenti di bare non con le ossa dei soldati greci, bensì con scheletri di bambini e donne. Scandali che sono diventati ancora più clamorosi perché sono stati coinvolti anche alcuni preti ortodossi, sia albanesi che greci, e altri rappresentanti delle due chiese. Fatti gravi, evidenziati e resi pubblici in diverse parti del territorio albanese, sempre nell’ambito della costruzione dei cimiteri militari per i caduti greci. Da una delibera del 13 dicembre 2017 del governo albanese è stata stabilita anche la data della ricorrenza: ogni 28 ottobre. Tutto questo e altro ancora è storia vissuta.

    Tornando alla realtà di queste ultime settimane, il 28 ottobre scorso, durante la ricorrenza per i caduti greci del 1941, in un villaggio della minoranza greca nel sud dell’Albania, un abitante ha provocato e ha sparato con un mitra, prima in aria e poi verso una macchina della polizia. Dopo alcune ore, continuando a non consegnarsi e sparando contro i poliziotti, l’aggressore è stato ucciso dalla polizia albanese. Si è saputo in seguito, secondo fonti mediatiche, che la vittima era un estremista e ben addestrato per l’uso delle armi e non solo. Tutto ciò è diventato subito un caso diplomatico tra i due paesi. A gettar benzina sul fuoco è servita anche una irresponsabile dichiarazione del Primo Ministro albanese. E, guarda caso, un giorno dopo le tante discusse dimissioni del ministro degli Interni. Un’ottima opportunità per spostare l’attenzione pubblica e mediatica.

    Dopo le dovute verifiche e le procedure legali, è stato dato anche il nulla osta per la sepoltura. La cerimonia ha avuto luogo nel villaggio natale della vittima, l’8 novembre scorso. Un villaggio di pochi abitanti ormai. Ma durante la cerimonia, oltre ai familiari, i parenti e i compaesani erano in tanti, alcune migliaia, quelli venuti dalla Grecia. E, purtroppo, si trattava di persone con degli obiettivi ben definiti e che poco avevano a che fare con la pacificità e la sacralità della cerimonia di sepoltura. I manifestanti, tenendo delle gigantesche bandiere della Grecia, gridavano “ascia e fuoco contro i cani albanesi”. Altri tenevano dei grandi manifesti offensivi nei quali, tra l’altro, era scritto “Qui è Grecia”. Inequivocabili incitamenti dell’odio nazionale e testimonianze dell’offesa nazionale. In seguito sono arrivate le dovute reazioni diplomatiche da entrambe le parti. La faccenda non è chiusa ancora, almeno mediaticamente.

    Chi scrive queste righe, riferendosi a quanto sopra e ad altri precedenti avvenimimenti, considera quanto è accaduto una grave e aggressiva offesa fatta alla dignità nazionale albanese sul proprio territorio. Egli è convinto anche dell’incapacità dei politici albanesi, e soprattutto del primo ministro, di affrontare come si deve situazioni del genere. Essendo altresì convinto che, come diceva Papa Giovanni Paolo II, la violenza non risolve mai i conflitti, e nemmeno diminuisce le loro drammatiche conseguenze.

  • Chi mente e chi controlla chi e cosa?

    Nel paese della bugia, la verità è una malattia.
    Non ha vaccino, non ha cura e neanche a metri si misura.
    La verità è presagio solo di buona sorte e ai bugiardi
    non rimane che tenersi il naso lungo o le gambe corte.

     Gianni Rodari

    Coloro che hanno governato durante gli ultimi anni in Albania hanno mentito spudoratamente e senza sosta. Ma purtroppo ha mentito consapevolmente il primo ministro, sempre, ovunque e su tutto. Ha mentito anche quando ha chiesto supporto elettorale agli albanesi nel 2013, promettendo mare e monti. E anche la luna. Le sue bugie e i suoi inganni hanno avuto delle gravi ripercussioni nella vita pubblica del paese. Sta mentendo anche in queste ultime settimane, dopo allarmanti scandali, che ormai sfuggono dal suo controllo. E con lui stanno mentendo, in pieno panico, anche i suoi luogotenenti e la maggior parte dei media da lui controllati.

    Circa due settimane fa sono state rese pubbliche in Albania alcune intercettazioni, dalle quali si testimoniava la connivenza della criminalità organizzata con alti esponenti politici, molto vicini al primo ministro. Tutto ciò grazie ad una vasta operazione di polizia, chiesta e coordinata dalle strutture specializzate tedesche, statunitensi e di altri paesi europei. Sono stati arrestati alcuni noti trafficanti di stupefacenti. Tra loro anche due ex deputati della maggioranza del primo ministro. Altri, purtroppo, sono riusciti a sfuggire. Le cattive lingue dicono che qualcuno è stato protetto dalle strutture statali. E tra quelli anche politici molto altolocati.

    Quell’operazione è stata subito considerata un successo sbandierato e applaudito sia dal primo ministro, che dal ministro degli Interni. Ma alcune intercettazioni telefoniche, “stranamente” rese pubbliche in seguito, hanno rovinato la festa. Mentre altre intercettazioni, alcune settimane fa, hanno sgretolato degli scenari, concepiti dalla propaganda del primo ministro e messi in atto dalle strutture specializzate dello Stato. Scenari che dovevano ridicolizzare un precedente scandalo del maggio scorso, che vedeva coinvolto il fratello del ministro degli Interni. Scenari che invece, hanno dimostrato la falsità della propaganda governativa e hanno messo in difficoltà sia il primo ministro, che il ministro degli Interni. Ma dopo il successo della sopracitata operazione di polizia, coordinata dai servizi segreti stranieri, il ministro degli Interni ha avuto il suo momento di gloria. Ma che, purtroppo, non ha potuto goderlo per molto. Forse perché, con l’operazione e gli arresti, aveva “osato” troppo, pestando i piedi di persone molto potenti del mondo di mezzo. E quelli non scherzano.

    Sabato scorso, il 27 ottobre, inaspettatamente, è stata diffusa la notizia delle dimissioni del ministro degli Interni. Si, proprio di lui, che ancora paventava i risultati e godeva del successo della sopracitata operazione di polizia. Sabato 27 ottobre, di buon’ora, è stato il primo ministro albanese ad annunciare, via Twitter, che il ministro degli Interni aveva rassegnato le sue dimissioni. Un modo nuovo per annunciare avvenimenti di questo genere! Di regola lo doveva fare il ministro dimissionario e con una dichiarazione pubblica e ufficiale.E invece no. Il primo ministro informava di aver accettato le dimissioni del ministro e lo ringraziava “per il prezioso contributo”. Ha anche indicato il successore, del quale era sicuro che “porterà una nuova energia positiva” E pensare che fino a pochi giorni fa, il ministro dimissionario era sotto le luci della ribalta e il campione del successo della “Polizia che vogliamo”!

    Solo alcune ore dopo, il ministro dimissionario ha confermato la notizia, anche lui con un messaggio su Facebook. Viviamo ormai nell’era dei messaggi in rete! Ma come se non bastasse, “stranamente”, il messaggio iniziale del ministro è stato in seguito sostituito da lui, con una “piccola modifica” però. Piccola ma molto significativa. Un giallo dentro il giallo. Perché la “piccola modifica” riguardava il tempo nel quale il ministro aveva rassegnato le sue dimissioni. Nel primo messaggio era chiaramente scritto “con la mia volontà avant’ieri ho rassegnato al primo ministro le mie dimissioni”. Mentre nel successivo e modificato messaggio tutto era identico, tranne la cancellazione della parola “avant’ieri”. In seguito non sono mancati neanche i messaggi in codice tra i due diretti interessati. Il perché lo sa il ministro dimissionario e il primo ministro, conoscendo benissimo anche le vere ragioni delle dimissioni, se veramente di “volontarie dimissioni” si tratta, oppure di rimozione dall’incarico. O forse, come dicono alcune cattive lingue, lo sanno soprattutto i poteri occulti, criminalità organizzata compresa. Secondo le cattive lingue il ministro è stato rimosso dall’incarico perché aveva fatto quello che non doveva fare, urtando gli interessi del mondo di mezzo. Nel frattempo si continua a mentire e ad ingannare l’opinione pubblica con delle versioni appositamente fabbricate dalla affannata propaganda governativa.

    Comunque, ad oggi, sia il ministro che il primo ministro non hanno dato alcuna spiegazione sulla ragione delle “dimissioni volontarie”. E lo dovevano fare, perché è un obbligo istituzionale, in rispetto della trasparenza. Un fatto questo che non è sfuggito all’attenzione pubblica e a quella di alcuni media internazionali che hanno riferito sul caso. Chissà perché?!

    Da sottolineare che il ministro dimissionario è stato sempre accusato, sia per il suo passato durante la dittatura, che per la copertura che ha fatto al suo fratello trafficante internazionale di stupefacenti. Ma anche per il suo operato in questi ultimi anni, compreso quello come presidente della commissione parlamentare per la riforma della giustizia. Riforma che ormai risulta un clamoroso fallimento (Patto Sociale n. 285; 302; 307; 311 ecc.).

    Per la cronaca, sabato 27 ottobre, il presidente della Repubblica ha decretato le dimissioni del ministro degli Interni. Mentre sabato 3 novembre ha rifiutato ufficialmente di decretare il suo successore, scelto e indicato con insistenza dal primo ministro. Senza dare ulteriori spiegazioni. Anche in questo caso, chissà perché?! Sarà forse un nuovo scontro?!

    Chi scrive queste righe è convinto che un primo ministro responsabile non avrebbe mai scelto e chiesto di decretare come ministro una persona, il cui fratello è stato condannato per traffico internazionale di stupefacenti. E soprattutto, dopo che anche il suo predecessore aveva “rassegnato le dimissioni” per coinvolgimento e favoreggiamento del traffico illecito della cannabis. Come mai e chissà perché non ha avuto altre scelte da fare?! Ma anche se non fosse stato informato, cosa molto improbabile, un primo ministro responsabile avrebbe allontanato il ministro degli Interni a maggio scorso, quando era stato reso pubblico lo scandalo delle intercettazioni del fratello. Lo avrebbe fatto anche alcune settimane fa, quando è stato sgretolato e discreditato il gioco con “l’attore infiltrato”. Ma non lo ha fatto. Ha invece mentito e ingannato continuamente e spudoratamente.

    Parafrasando Gianni Rodari, si potrebbe dire che nel paese del crimine e della corruzione, l’onestà e l’integrità morale sono delle malattie. Mentre in Albania non si sa chi mente e chi controlla chi e cosa. Una cosa è certa però: che la criminalità organizzata è diventata sempre più forte e onnipresente.

  • Accordi peccaminosi

    Non vendere il sole per acquistare una candela.
    Proverbio ebraico

    La questione dei confini tra l’Albania e la Grecia è stata trattata, all’inizio, dalla Conferenza degli Ambasciatori a Londra del 30 maggio 1913 e successivamente dal Trattato di Bucarest del 13 agosto 1913. L’autorità internazionale dell’Albania in quel periodo era quella di un paese che aveva proclamato la sua indipendenza dall’Impero Ottomano soltanto il 28 novembre 1912.
    Da quegli accordi il territorio dove vivevano storicamente gli albanesi è stato diviso ingiustamente a favore della Serbia e della Grecia. Una situazione questa contestata dai rappresentanti albanesi nelle capitali europee. Ad onor del vero, in quel periodo il nascente Stato albanese, tra l’altro, continuava ad essere succube anche dei contrasti e degli scontri interni tra i diversi capi clan che controllavano il territorio. Il che ha indebolito molto la voce delle delegazioni albanesi nelle sedi internazionali. Anche il Trattato di Versailles, sottoscritto il 28 giugno 1919 ed entrato in vigore il 10 gennaio 1920, non ha reso giustizia alla separazione di molti territori albanesi da quello della madre patria, per “ragioni geopolitiche”.
    Nel periodo tra le due guerre mondiali i confini tra l’Albania e la Grecia sono stati oggetto di dibattiti e trattative a livello internazionale. La decisione definitiva per la delimitazione dei confini tra i due paesi ha trovato espressione nel Protocollo di Firenze delle grandi potenze del 27 gennaio 1925. In seguito, il 30 luglio 1926 a Parigi, la Conferenza degli Ambasciatori delle grandi potenze ha sancito definitivamente e unanimemente tutti i confini tra l’Albania e la Grecia. La decisione presa dalla Conferenza degli Ambasciatori era obbligatoria per le parti. Nonostante i rappresentanti dei due paesi avessero delle obiezioni per la delimitazione dei confini, l’Accordo di Parigi è stato firmato e, in seguito, rispettato sia dall’Albania che dalla Grecia. Gli Atti Ufficiali che delineavano i confini tra i due paesi, una volta firmati, sono diventati incontestabili e obbligatori. Quegli Atti sono stati depositati, all’inizio, presso la Lega delle Nazioni e dal 1945, presso l’Organizzazione delle Nazioni Unite. Quanto previsto e definito in quegli Atti è stato rispettato dalle parti e non sono state mai espresse ufficialmente e in sede internazionale rivendicazioni territoriali dai diretti interessati. Questo fino ai primi anni 2000.
    Era proprio il periodo in cui sono state effettuate perforazioni sulle piattaforme marine per cercare probabili giacimenti petroliferi e definire le loro potenzialità. Dallo studio dei dati elaborati, risulterebbe che sotto la piattaforma marina albanese, al confine con quella greca, potrebbero esserci buone probabilità di trovare ricchi giacimenti di petrolio e/o di gas. Ragion per cui la diplomazia greca si mise subito in moto per trovare dei motivi e aprire un “Caso marino bilaterale” tra la Grecia e l’Albania. Un compito non difficile, visto anche che non sempre la controparte albanese era allo stesso livello come esperienza, professionalità e altro. Il che ha facilitato l’abile diplomazia greca a trovare, tecnicamente, un modus vivendi e portare le trattative per i contenziosi relativi alla delimitazione dei confini marini, dalla sede legale internazionale, come prevedevano gli Atti Ufficiali sanciti dalla Conferenza degli Ambasciatori delle grandi potenze il 30 luglio 1926 a Parigi, ad una sede bilaterale tra i due paesi. La parte albanese ha acconsentito. Musica per le orecchie dei greci.
    Nell’arco di pochissimi anni le delegazioni dei due paesi hanno negoziato insieme un accordo bilaterale sulla delimitazione del confine marino. Il 27 aprile 2009 a Tirana è stato firmato l’Accordo tra la Repubblica d’Albania e la Repubblica di Grecia per la “Delimitazione delle loro rispettive zone della piattaforma continentale sottomarina e delle altre zone marine, che a loro appartengono in base al diritto internazionale”. Quell’Accordo è stato contestato fortemente allora in Albania dall’opposizione, capeggiata dall’attuale primo ministro. La questione arrivò alla Corte Costituzionale, la quale il 15 aprile 2010 decretò l’anticostituzionalità dell’Accordo e proclamò la sua nullità. Nonostante ciò, la diplomazia greca ha continuato a fare pressione perché la parte albanese continuasse a rispettare il sopracitato Accordo, tenendo sempre aperto il “Caso marino” tra i due paesi. Trattative che sono state riprese, in modo del tutto non trasparente e in palese violazione della sopracitata decisione della Corte Costituzionale, e sono state molto attive da un anno a questa parte. Le cattive lingue dicono che tutto era dovuto alla disperata situazione in cui si trovava il primo ministro albanese. Lui cercava di trovare, a tutti i costi, l’apertura dei negoziati, come paese candidato, per l’adesione dell’Albania all’Unione europea. La Grecia poteva mettere il veto contro. Come da anni sta facendo con la Macedonia. La grande fretta per concludere il “Caso marino” potrebbe dare ragione alle cattive lingue. Anche perché simili contenziosi tra paesi sui confini non mancano. Neanche nei Balcani. Sono almeno tre e tutti e tre durano da almeno una ventina d’anni. Mentre il caso tra l’Albania e la Grecia è stato “risolto” in quattro e quattr’otto! Basta riferirsi al caso tra la Slovenia e la Croazia e quello tra la Romania e la Bulgaria. Quest’ultimo per una piccola area di mare, con sotto il petrolio. Molto aspro è anche il contenzioso tra la Turchia e la Grecia, sempre per alcune aree marine sul mar Egeo. Anche in questo caso, la presenza dei giacimenti petroliferi sottomarini sembra sia la vera ragione dei disaccordi.
    Le inattese dimissioni del ministro degli Esteri greco hanno riportato a galla non poche gravi problematiche. Compresa anche quella del “Caso marino” e il rispettivo accordo tra l’Albania e la Grecia. Alcuni giorni dopo le sue dimissioni, l’ex ministro degli Esteri greco si vantava che dopo 75 anni, in pieno accordo con l’attuale ministro albanese degli Esteri, hanno “allargato il confine [marino] della Grecia”. Senza più vincoli istituzionali, il ministro dimissionario greco ha cominciato a dire delle verità tenute segrete fino ad ora. Chissà perché! Forse per mettere in imbarazzo anche il suo “amico” primo ministro Tzipras.
    Immediate sono state le reazioni in Albania. Ma anche e soprattutto in Turchia. Il 23 ottobre scorso il ministro turco degli Esteri dichiarava che ogni tentativo della Grecia “per allargare la sua linea marina, nello Ionio o nell’Egeo, rappresenterà [per la Turchia; n.d.a.] un Casus belli”. È bastata questa dichiarazione e la reazione statunitense, per costringere Tzipras, subito dopo, a ritirarsi, per il momento, dalle sue pretese. Il che riguarda anche il “Caso marino” con l’Albania. Tutto è da vedere!
    Nel frattempo un’altra e inattesa dimissione, questa volta in Albania, ha suscitato molte reazioni. Sabato scorso si è dimesso il ministro degli Interni. Un nuovo caso che produrrà, forse, altri inattesi sviluppi.
    Chi scrive queste righe tratterà il caso la prossima settimana. Egli però è convinto che colui che si dovrebbe dimettere è proprio il primo ministro. Lo doveva fare da tempo, ma probabilmente non lo farà neanche adesso. Le cattive lingue dicono che non glielo permette la criminalità organizzata. Lo doveva sapere. Il peso degli accordi peccaminosi spesso ti schiaccia!

  • Perfidie e mercanteggiamenti balcanici

    Temo i danai [greci] anche quando portano doni

    Virgilio, Eneide; II, 49

    “Timeo danaos et dona ferentes”. Una ben nota frase scritta da Virgilio nel suo famoso poema epico Eneide. Una frase che ormai da molto tempo, invece che ai danai, si riferisce ai greci. Così disse Laocoonte, veggente e gran sacerdote, ai troiani. Gli ammoniva di non accettare il dono che gli achei, discendenti dei danai, avevano portato come testimonianza di pace ai troiani. Si trattava del famoso cavallo di legno, lasciato dagli achei alle porte di Troia, dopo aver fatto finta di abbandonare il campo. Laocoonte fece di tutto per convincere i troiani che non era un dono, ma bensì un inganno, una trappola degli achei. Purtroppo non ci riuscì. Il resto è storia. Secondo la leggenda, per punire Laocoonte, gli dei protettori degli achei mandarono a lui e ai suoi figli due enormi serpenti, strangolandoli tutti e tre. Questo accadeva più di tremila anni fa.

    La settimana scorsa invece, ha rassegnato le sue dimissioni il ministro greco degli Esteri. La ragione delle dimissioni si presume sia stata, per lo meno, lo scontro con il ministro della Difesa sull’accordo tra la Grecia e la Macedonia per il nome di quest’ultima. Con le sue dimissioni il ministro si pensa abbia voluto esprimere anche il suo malcontento per il mancato supporto del primo ministro durante lo scontro con il collega nazionalista della Difesa. Secondo indiscrezioni mediatiche risulterebbe che l’ormai ex ministro sia stato accusato di “uso improprio dei fondi ministeriali” e di “essere un uomo del finanziere americano George Soros”. L’indomani il primo ministro Alexis Tsipras ha accettato le dimissioni del ministro degli Esteri, assumendo lui stesso la responsabilità del ministero. Negli ultimi giorni i media hanno riferito di un fondo segreto di circa 45 milioni di euro del ministero degli Esteri greco, usato abusivamente dall’ormai ex ministro, per influenzare i media e determinate persone, politici compresi, sia in Macedonia che in Albania e altri paesi della regione. Domenica scorsa il fatto è stato ammesso anche dal capo del gruppo parlamentare del partito del primo ministro Tsipras, precisando però che si trattava di un fondo segreto, approvato dal Parlamento. Sempre secondo le indiscrezioni mediatiche, soltanto in questo mese sono stati versati circa un milione di euro a certi media albanesi. Negli ultimi giorni i media hanno reso noti alcuni dei nomi degli approfittatori.

    Storicamente il territorio dei Balcani è diventato un’arena di contrasti e di scontri armati. Nel 19o secolo e fino alla prima guerra mondiale, soltanto l’Albania era sotto l’Impero Ottomano, mentre gli altri paesi avevano acquisito l’indipendenza dall’Impero. Il che gli metteva in una posizione di vantaggio agli inizi del 20o secolo, nelle loro pretese territoriali, mentre l’Impero si stava sgretolando. Le mire espansionistiche della Grecia e della Serbia, ma non solo, verso i territori albanesi sono ben conosciute. Basta ricordare quanto succedeva nel periodo dalla Conferenza di Londra (1913) fino ai trattati di Versailles (1919). Alla fine di quel lungo processo di spartizione e riconoscimento ufficiale di territori nazionali e di confini, intere regioni abitate dagli albanesi sono state annesse alla Serbia (in seguito Regno dell’Jugoslavia) e alla Grecia. Realtà che continua tuttora, tranne il caso del Kosovo.

    Il Kosovo, abitato per quasi 90% dagli albanesi, è stato fino al 2008 una regione, prima dell’ex Jugoslavia e poi della Serbia. Dopo i bombardamenti della NATO, dal 24 marzo fino al 10 giugno 1999, il Kosovo ha assunto uno status speciale. In seguito e in rispetto della Risoluzione n.1244 delle Nazioni Unite, in Kosovo ha esercitato la sua autorità l’UNMIK (United Nations Interim Administration Mission in Kosovo). Il 17 febbraio 2008 il Parlamento della Repubblica del Kosovo, costituito con un vasto e molto significativo appoggio internazionale, ha proclamato l’indipendenza del Kosovo. Da quel periodo in poi il paese è stato riconosciuto da più di 110 stati, appartenenti all’Organizzazione delle Nazioni Unite. Ma, inaspettatamente, nei primi giorni dell’agosto scorso, il presidente della Repubblica del Kosovo ha parlato di una nuova delimitazione del confine tra il Kosovo e la Serbia. Una dichiarazione che ha subito suscitato una vasta e contraria reazione, sia in Kosovo che in diversi paesi europei e oltre. Molti noti ed influenti politici e opinionisti locali e internazionali hanno reagito determinati contro la dichiarazione del presidente kosovaro, sottolineando, tra l’altro, la riapertura di un nuovo e vasto scontro nei Balcani. Da indiscrezioni mediatiche, risulterebbe che uno degli artefici di quella inattesa e pericolosa mossa sarebbe il miliardario statunitense George Soros, tramite suo figlio. Figlio che nei giorni prima della sopracitata dichiarazione ha incontrato diverse volte sia il presidente kosovaro, che quello serbo e il primo ministro albanese. Il caso, che rappresenta uno scandalo, è tuttora aperto.

    Il 30 settembre scorso in Macedonia si è votato per il referendum che chiedeva ai cittadini di esprimersi sul cambio del nome del paese da “Repubblica di Macedonia” in “Repubblica della Macedonia Settentrionale”. L’assenteismo è stato vasto e determinante. Ha partecipato al voto poco più del 35% degli aventi diritto e quasi il 91% di essi hanno votato a favore del cambiamento del nome. Il che non ha sancito il cambiamento. La scorsa settimana il Parlamento macedone ha approvato un pacchetto di emendamenti costituzionali in supporto del cambiamento del nome. Tra un mese si voterà per quegli emendamenti. Soltanto in seguito e soltanto se anche il parlamento greco approverà l’Accordo di Prespa sul nuovo nome, allora si proclamerà la Repubblica della Macedonia Settentrionale. Nel frattempo, e sempre da indiscrezioni mediatiche, risulterebbe anche il coinvolgimento di George Soros in tutto ciò. Una cosa è comunque ben evidenziata. E cioè il fallimento, con il referendum, anche della strategia dell’Unione europea e il supporto al cambiamento da parte dei massimi rappresentanti della Commissione europea.  Anche questo rimane un caso aperto e tutto da seguire.

    Le dimissioni dell’ormai ex ministro greco degli Esteri hanno riacceso in questi giorni in Albania lo scandalo, almeno per quanto riguarda il paese, del presunto accordo raggiunto, in totale mancanza di trasparenza, tra i rappresentanti dell’Albania e della Grecia. L’accordo prevede la delimitazione del confine marino tra i due paesi. Tutto è stato appreso, almeno in Albania, soltanto da alcune dichiarazioni pubbliche del dimissionario ministro degli Esteri. Mentre le massime autorità locali parlavano malvolentieri e con un linguaggio sibillino. Il che fa pensare veramente ad uno scandalo che sa di tradimento degli interessi nazionali. Anche in questo caso e sempre da indiscrezioni mediatiche, risulterebbe presente lo zampino di George Soros.

    Chi scrive queste righe cercherà di trattare la prossima settimana questo scandalo in tutti i suoi dettagli, almeno quelli pubblicamente noti. In gioco sono parte della piattaforma marina albanese, quella che da qualche anno risulterebbe ricca di giacimenti di petrolio. Guarda caso i greci mirano proprio a quell’area! Nel frattempo lui condivide quanto scriveva Virgilio, e cioè che bisogna temere i greci anche quando portano doni.

  • Affievolimento delle responsabilità

    Non sono persone, sono cose. E con le cose non si può intendere.

    Anatole France

    “Il Consiglio dei topi” è una delle tante bellissime e molto significative favole di Jean de La Fontaine. Un gatto, di nome Mangialardo, un infame carnefice, era diventato il terrore dei topi. Era così vero che quei pochi rimasti ancora vivi, non osavano neanche metter fuori il muso. Perciò, dalla paura erano costretti a rimaner nascosti, a costo anche di morir di fame. Un giorno, mentre il gatto era andato a far visita alla sua amante, i topi si riunirono in consiglio. Dovevano decidere finalmente cosa fare per salvarsi dal gatto. Il presidente, un topo saggio, propose di attaccare al gatto un campanello, in modo che si sentisse quando il gatto si fosse avvicinato. I topi in consiglio applaudirono la proposta del presidente. Ma quando si trattò di scegliere colui che doveva attaccare il campanello al collo del gatto, tutti diedero le proprie ragioni e nessuno accettò. Al presidente non rimase altro che sciogliere la seduta. La morale della favola: a parlar sono tutti bravi, ma tutto cambia quando bisogna fare. Una significativa e sempre attuale allegoria, dalla quale bisogna sempre trarre insegnamento.

    Per qualsiasi paese è sempre una disgrazia quando viene governato da persone irresponsabili e corrotte, che convivono e condividono tutto con dei poteri occulti, Ma per un paese, in simili condizioni, è molto più grave quando ha anche un’opposizione che non convince e non nutre speranza; un’opposizione quasi inesistente, le cui responsabilità si affievoliscono ogni giorno che passa. Guai a quel paese con una simile opposizione, che crede di risolvere tutto e compiere devotamente i propri doveri, solo e soltanto tramite le dichiarazioni e le denunce contro il malgoverno. Perché le dichiarazioni e le denunce, da sole, non bastano a rovesciare un governo corrotto e che controlla tutto. Come nella favola di La Fontaine. Perché, nonostante quanto avevano detto e deciso i topi in consiglio, il gatto Mangialardo continuava indisturbato a girare senza campanello attaccato al collo.

    Purtroppo questo sta accadendo attualmente in Albania. La situazione sta diventando, ogni giorno che passa, più drammatica e allarmante. E non è retorica, ma realtà vissuta. Ormai gli scandali si susseguono l’un l’altro con una frequenza accelerata. Perciò coprirli, smentirli e portarli nel dimenticatoio sta diventando sempre più una seria preoccupazione anche per la potente e ben organizzata propaganda governativa, orchestrata direttamente dal primo ministro. Tant’è vero, che da una settimana a questa parte, il primo ministro ha cominciato a minacciare con una legge contro la diffamazione mediatica. E tutto ciò in un paese in cui ormai il sistema di giustizia, fatti ed evidenze alla mano, è completamente controllato dal primo ministro in persona. Basta riferirsi soltanto alle buffonate propagandistiche degli ultimi giorni, per convincersi che le procure e i tribunali sono succubi della volontà e delle minacce del primo ministro. Buffonate che in realtà stanno smascherando, tra l’altro, anche l’allarmante connivenza del potere politico con la criminalità organizzata. Soltanto grazie alle denunce dell’opposizione e di quei pochi media rimasti non controllati che il pubblico è venuto a conoscenza di tutto quel marcio. Per l’ennesima volta. E per l’ennesima volta la campagna diffamatoria e minatoria della propaganda governativa con tutti i suoi mezzi si è messa in moto.

    In una simile situazione, fa bene l’opposizione a denunciare quando sta accadendo in Albania. Sono e saranno tante le cose da denunciare, anzi troppe! Soltanto quanto è successo durante queste due ultime settimane mette a nudo senza equivoci la grave situazione in cui versa il paese. Mette a nudo il fatto che diverse strutture e istituzioni statali sono messe al servizio del primo ministro, per coprire gli scandali clamorosi e cercare di ridicolizzare le denunce. Come ha fatto sempre il primo ministro in simili casi in passato. Perciò denunciare simili casi, tramite dichiarazioni ufficiali, è un obbligo istituzionale dell’opposizione. Le dichiarazioni e le denunce sono necessarie e utili, sono parte dei mezzi con i quali opera un’opposizione in una società democratica. Ma quelle non bastano, perché l’Albania non è ancora un paese democratico, essendo anche ufficialmente classificato come un paese con una “democrazia ibrida”. Purtroppo, fatti alla mano, in Albania ormai si sta restaurando un regime autoritario e autocratico. In Albania ormai si sta restaurando una nuova e camuffata dittatura, con soltanto una facciata, una parvenza di pluralismo. E l’opposizione sta rischiando di diventare parte di quella facciata. Così facendo, volente o nolente, l’opposizione sta diventando una copertura mediatica, molto utile e necessaria al primo ministro. Proprio a quel primo ministro che ormai controlla tutti e tre i poteri di una democrazia, definiti circa tre secoli fa da Montesquieu. In più il primo ministro ormai controlla anche i media, che al tempo di Montesquieu non erano ancora un potere. Perciò limitarsi soltanto alle dichiarazioni ufficiali e le denunce, come sta facendo adesso l’opposizione in Albania, significa semplicemente l’affievolimento delle sue responsabilità istituzionali. Il che, da qualche tempo, sta diventando veramente un serio e preoccupante problema (Patto Sociale n.255; 262; 268; 280; 291; 296; 300; 324).

    L’opposizione giustamente e doverosamente denuncia e accusa l’allarmante realtà. Mettendo in evidenza che la criminalità organizzata, in connivenza con il potere politico, primo ministro e alcuni ministri in testa, controlla ormai tutto il territorio. Controllando e condizionando anche il risultato elettorale, come ha accusato e accusa giustamente e doverosamente l’opposizione. Perciò non si spiega il perché delle ultime dichiarazioni del capo dell’opposizione che alle prossime elezioni, con il voto libero, metterà fine a questa grave situazione! Perché da un lato esprime la convinzione, realistica, che il governo convive con la criminalità organizzata, che controlla tutto il territorio, che il potere occulto decide di tutto e di tutti e, dall’altro lato, esprime la convinzione che il voto sarà libero e che deciderà il risultato delle elezioni! Una stridente contraddizione logica (magari!) che solo il capo dell’opposizione non doveva permettersi. Mentre le cattive lingue, da tempo, dicono che lui e alcuni suoi collaboratori seguano “una missione”. Chissà!

    Chi scrive queste righe è convinto che l’attuale governo in Albania bisogna rovesciarlo quanto prima, per tutto quello che ha fatto subire al paese e non solo. Ma è altresì convinto che questo governo non si rovescia con solo delle denunce e delle dichiarazioni ufficiali. Non si rovescia con messaggi sul Twitter e Facebook. Si rovescia nelle piazze e dalle piazze. La storia insegna che nessuna dittatura, in nessun paese e in qualsiasi tempo, non è stata rovesciata con il voto libero. Perché, per definizione, in una dittatura non viene mai permesso il voto libero. Perché una dittatura, per definizione, non permette mai il funzionamento di qualsiasi opportunità e/o mezzo che porterebbe alla sua fine. Perché, parafrasando Anatole France, quelli che governano in Albania non sono persone, sono dei criminali. E con i criminali non ci si può intendere!

  • Giustizia sottomessa non solo in Turchia

    È giunto ormai il tempo di andare, o giudici, io per morire, voi per continuare a vivere.
    Chi di noi vada verso una sorte migliore, è oscuro a tutti, tranne che al Dio.

    Platone; Apologia di Socrate

    “Passeremo il resto della nostra vita in una cella di tre metri per tre metri. Verremo portati fuori a vedere la luce del sole solo per una ora al giorno. Non avremo la grazia e moriremo in prigione. Sto andando all’inferno. Cammino nel buio come un Dio che ha scritto il suo stesso destino”.

    Così scriveva lo scorso febbraio Mehmet Altan, un giornalista turco di 65 anni, da una cella di prigione, dopo che un tribunale di Istanbul lo aveva condannato all’ergastolo aggravato. E con lui anche suo fratello Ahmet Altan, scrittore di 67 anni, di cui ultimamente è stato pubblicato un libro, anche in Italia, scritto in prigione e con un titolo molto significativo: Non rivedrò più il mondo. Una convinzione maturata dallo scrittore in questi anni, mentre sta soffrendo una ingiusta pena. Tutti e due sono in carcere dal settembre 2016. La dichiarazione che avrebbe compromesso lo scrittore, secondo l’accusa, è stata: “Qualsiasi siano stati i motivi che hanno portato in passato ai colpi di Stato militari in Turchia, prendendo le stesse decisioni, Erdogan sta seguendo la stessa strada”. Una dichiarazione quella, rilasciata da lui durante una trasmissione televisiva il 14 luglio 2016, mentre suo fratello giornalista è stato accusato di aver parlato, nella stessa trasmissione, di “…un’altra struttura […] all’interno del governo pronto ad agire”. Parole che sono state considerate, durante il processo, come chiari appelli per aderire al colpo di Stato, il giorno dopo.

    Insieme con i due fratelli, il 16 febbraio scorso, sono stati condannati all’ergastolo, in primo grado, anche quattro altri giornalisti. Tutti molto noti e con una lunga esperienza professionale, ma con una solo colpa: quella di non condividere il modo di fare del presidente turco Recep Tayyip Erdogan. Tutti e sei sono stati accusati di “attentato all’ordine istituzionale”, avendo appoggiato, secondo l’accusa, il mancato colpo di Stato del 15 luglio 2016. La pena che prevede, per i sei accusati, un regime di totale isolamento, avendo diritto a soltanto un’ora d’aria al giorno, e non potendo incontrarsi con i propri familiari, tranne che per alcune molto limitate ragioni. Lo scorso 2 ottobre i giudici della corte d’Appello di Istanbul hanno confermato la pena di primo grado per «attentato all’ordine costituzionale». Non è valso a niente nemmeno un appello, fatto all’inizio del marzo scorso, da trentacinque premi Nobel. Riferendosi al caso dei sei sopracitati incarcerati, essi chiedevano al presidente Erdogan “…un rapido ritorno allo Stato di diritto e una totale libertà di parola e di espressione”. Soltanto a luglio scorso però, risulterebbero confermate 84 condanne all’ergastolo, in seguito a processi giudiziari poco convincenti.

    Quanto succedeva tra il 15 e il 16 luglio 2016, nonché le gravi e continue ripercussioni ai partecipanti e/o presunti tali, nella ribellione contro Erdogan, sono ormai note all’opinione pubblica. Durante quelle ore morirono almeno 265 persone, tra dimostranti e militari. Decine di migliaia di persone sono state arrestate in Turchia, dopo il fallito golpe. Quello che è successo allora ed in seguito rappresenta un’allarmante realtà. Il presidente Erdgan, subito dopo il fallito colpo di Stato, ha ordinato l’epurazione dell’esercito, arrestando circa 2800 militari, compresi molti alti ufficiali. Ma non si è fermato nella sua corsa di vendetta contro i golpisti e/o presunti tali. Durante la campagna di epurazione non sono stati risparmiati neanche i giudici. Risulterebbero circa 2700 tali rimossi dall’incarico. E non poteva essere diversamente. Perché Erdogan aveva delle idee molto chiare su come e contro chi colpire pesantemente, per poi concentrare più poteri possibili nelle sue mani. Quanto ha fatto e sta facendo ne è una chiara e inequivocabile dimostrazione. Dopo il golpe del 15 luglio 2016 sono stati arrestate alcune decine di migliaia di persone, compresi cittadini stranieri. Risulterebbe che più di 150 mila dipendenti pubblici siano stati licenziati perché considerati “pericolosi”.

    Ma per portare al termine il suo progetto, Erdogan doveva controllare anche i media. Non solo giornali chiusi e decine di giornalisti incarcerati, ma anche oscuramento e controllo di Internet. Perché per il regime di Erdogan, anche internet, con le sue opportunità, rappresenta una minaccia da colpire. Da studi e inchieste fatte, risulterebbe che nelle prigioni turche attualmente siano trattenuti circa un terzo dei giornalisti e altre persone legate ai media, imprigionati in tutto il mondo. Risulterebbe anche che per non pochi di loro sono stati violati i diritti fondamentali, compresa anche la ritenzione per lungo tempo in carcere senza un regolare e dovuto processo giudiziario. I media non controllati sono stati presi di mira, per intimidirli e farli tacere. Così facendo, il regime di Erdogan cerca di soffocare qualsiasi azione di dissenso e di opposizione nei suoi confronti. Non mancano, poi, i casi in cui i giornali chiusi sono stati “acquistati” da persone che godono della fiducia e dell’appoggio del presidente.

    Purtroppo, quanto sta succedendo da alcuni anni in Albania, rappresenta una similitudine con quanto accade in Turchia. Ovviamente si tratta di due realtà diverse per molti aspetti. Ma la somiglianza non può sfuggire, se si considerano, tra l’altro, il modo in cui funzionano il “riformato” sistema di giustizia in Albania e i media. Sono due dei principali obiettivi preposti dal primo ministro, fin dall’inizio del suo mandato nel 2013. Obiettivi che, dati ed evidenze alla mano, sono stati ormai raggiunti. Attualmente il primo ministro albanese controlla, con modi pubblicamente noti, sia la giustizia che i media. Il che significa che ormai, controllando “per diritto acquisito” anche il sistema legislativo e quello esecutivo, il primo ministro controlla tutto. Ma il modo in cui sta esercitando il suo potere, dimostra palesemente che lui è diventato, purtroppo, un dittatore sui generis. E non poteva essere diversamente. Anche perché, e tra l’altro, il primo ministro albanese non solo non nasconde più le sue simpatie per il presidente turco Erdogan. Ma lui, come ha dichiarato pubblicamente alcuni mesi fa, considera Erdogan “il suo modello”!

    La scorsa settimana, uno scandalo reso pubblico, grazie a un’intervista di un ispettore di polizia rilasciata ad un media incontrollato (Patto Sociale n.326), ha messo in visibile difficoltà il primo ministro. Ragion per cui lui ha minacciato con la proposta, di trattare come atto penalmente perseguibile, la “diffamazione mediatica”. Chissà perché questa scelta e proprio adesso?!

    Chi scrive queste righe forse capisce perché diversi paesi europei potrebbero avere un determinato atteggiamento con Erdogan, Ma non riesce a capire però che cosa, invece, li lega con il primo ministro albanese, chiudendo così gli occhi di fronte alle sue malefatte!

    Circa un anno fa, lo scrittore Ahmet Altan, in una lettera aperta ai suoi giudici scriveva: “Se continuate a giudicarci e a metterci in prigione senza prove, violerete le basi stesse della giustizia e dello Stato. Il vostro sarà un grave crimine”. Quanto scriveva Platone nell’Apologia di Socrate circa 2400 anni fa è sempre attuale.

  • Una ragazza orfana violentata anche dallo Stato

    Tutte le luci della verità purtroppo nulla possono per arrestare la violenza. Ma tutti gli sforzi della violenza non indeboliscono la verità, anzi, la rafforzano

    Blaise Pascal

    Succedeva nella seconda metà del luglio scorso in Albania. Una ragazza orfana, che vive soltanto con la madre e la sorella ad una trentina di chilometri dalla capitale, è stata spietatamente stuprata e violentata fisicamente e psicologicamente dal suo fidanzato, una persona problematica e riconosciuta in zona per le sue bravate. La ragazza, appena ha potuto, è andata a denunciare tutto presso il commissariato di Polizia più vicino. Ma il poliziotto di turno, appena ha sentito il nome dello stupratore, ha desistito di trattare il caso. Sì, perché il ragazzo stupratore è il figlio del deputato di zona, rappresentante della maggioranza governativa. Allora la ragazza orfana e senza difesa, tranne il suo coraggio, la sua rabbia e la sua disperazione, ha provato in un altro commissariato. La stessa cosa. Poi è andata in un commissariato a Tirana, dove finalmente ha ufficializzato la sua denuncia. Ma la pratica è stata rinviata, per competenza, presso il primo commissariato. Poi tutto si chiuse lì. Questo per quanto riguarda la cronaca.

    Il caso è stato denunciato allora dall’ex primo ministro. Ma la propaganda governativa, messa subito in moto, ha offuscato tutto. Poi altri scandali politici quotidiani, come sempre, hanno attirato l’attenzione, cosicché il caso della ragazza orfana avrebbe avuto la triste e drammatica sorte di chissà quanti altri casi. Ma grazie alla denuncia di un coraggioso ispettore di polizia il caso è stato riaperto la settimana scorsa. Si tratta dell’ispettore che aveva ricevuto la ragazza, dopo il trasferimento della sua pratica presso il commissariato di competenza. Lui, dopo aver sentito la ragazza, aveva contattato la procura e ha avuto l’ordine di arrestare lo stupratore. Ma niente ha potuto fare perché subito all’ufficio dell’ispettore sono piombati il padre deputato e suo fratello, insieme con il capo del gruppo parlamentare della maggioranza governativa e il sindaco della città. Mentre fuori attendevano altre persone armate. Tutto questo in un commissariato della polizia di Stato! Lo zio dello stupratore ha minacciato senza mezzi termini l’ispettore mostrandoli una pistola, se avesse cercato di arrestare suo nipote. L’ispettore ha informato subito dell’accaduto il suo superiore. Poi, non avendo avuto risposta o reazione alcuna, ha fatto lo stesso con i funzionari della Direzione Generale della Polizia di Stato. Ma anche da quegli uffici nessuna risposta o reazione. Sono arrivate ripetute, però, le minacce di morte all’ispettore. Al che egli ha scritto, chiedendo protezione per se e per la sua famiglia, al direttore generale della polizia di Stato, al ministro e al primo ministro. Come sempre, nessuna risposta. Allora l’ispettore ha deciso di fare quello che non avrebbe mai voluto fare. Avendo contro non solo il clan criminale del deputato di zona, ma anche le strutture dello Stato, egli è stato costretto il 14 settembre scorso a lasciare l’Albania, chiedendo asilo all’estero.

    Questi fatti e altri ancora sono stati resi noti dall’ispettore durante un’intervista televisiva la scorsa settimana. Una dettagliata intervista fatta da un professionista. Da sottolineare che l’ispettore non è un poliziotto qualsiasi. Risulta essere una delle pochissime persone della polizia di Stato che sono state addestrate per essere infiltrate in operazioni speciali di polizia. Cosa che lui ha fatto con successo in precedenza. Ed è stato grazie alla sua professionalità, alla sua integrità morale e al suo coraggio, che il caso della ragazza orfana e indifesa è stato riaperto, attirando tutta la dovuta attenzione pubblica e mediatica.

    I rappresentanti della maggioranza governativa, la sua potente propaganda insieme con i soliti opinionisti mercenari, trovandosi impreparati di fronte a tutto ciò, hanno reagito in maniera disordinata. Il primo a farlo è stato il capo del gruppo parlamentare della maggioranza, allo stesso tempo anche segretario generale del partito guidato dal primo ministro. Lo ha fatto perché l’ispettore lo ha nominato come una delle persone presenti mentre veniva minacciato nel suo ufficio. Come suo solito, lui ha mentito spudoratamente, per poi negare, senza batter ciglio, la sua precedente dichiarazione pubblica con un’altra successiva che non reggeva. Perché una data in un suo status, portato come prova, non lasciava dubbi. Si è verificato per l’ennesima volta quanto dice la saggezza popolare, secondo la quale chi si scusa si accusa. Poi sono entrati in gioco la propaganda governativa con i suoi pezzi grossi. Ma non potevano nascondere la verità e non potevano annebbiare i fatti documentati che non lasciavano dubbi. Durante questi ultimi giorni sono state tante le agghiaccianti novità, dalle quali risulta che la ragazza orfana è stata stuprata non solo dal figlio del deputato, ma anche dallo Stato. Costretti dagli sviluppi degli ultimi giorni, domenica scorsa finalmente hanno arrestato lo stupratore. Ma soltanto per molestia. E, tutto sommato, hanno già preparato la sua liberazione. Proprio lui che nel frattempo girava indisturbato e armato, nonostante dovesse essere arrestato. Perché si sentiva intoccabile. E lo era, se non fosse stato per le dichiarazioni del coraggioso ispettore, ora in esilio.

    Ma quello che irrita e offende l’intelligenza, in tutto questo caso, è l’atteggiamento del primo ministro. Dopo un silenzio iniziale, ha attaccato con la sua solita arroganza il coraggioso ispettore, chiamandolo farabutto. Proprio come ha fatto tre anni fa, il 16 settembre 2015, con un altro coraggioso commissario di polizia, anche lui ora in esilio all’estero, perché minacciato di morte. Proprio quel commissario che per primo ha denunciato il coinvolgimento diretto dell’ex ministro degli Interni, delfino del primo ministro, nel traffico internazionale degli stupefacenti. Adesso quel ministro è indagato. Il primo ministro ha fatto lo stesso come quando l’ex primo ministro denunciava in Parlamento l’uso degli aerei per il trasporto delle droghe. Alloro il primo ministro ha cercato di ridicolizzare, chiamando zanzare gli aerei. Il tempo però ha dimostrato che le “zanzare” del primo ministro trasportavano veramente e indisturbate droga verso le coste italiane. E l’elenco delle bugie del primo ministro, smentite in seguito, è lungo. Ma lui, per il momento, se ne infischia altamente, perché sa di controllare tutto e tutti, grazie alla connivenza con la criminalità organizzata. Chissà però fino a quando?!

    In questi giorni chi scrive queste righe ha pensato, tra l’altro, anche agli inchini mafiosi in Italia, con i quali la mafia pretende rispetto e devozione dai cittadini. Ma in quei casi le forze dell’ordine intervengono e fanno il loro dovere. Mentre in Albania sono le forze dell’ordine che si inchinano di fronte al potere occulto. Si inchina lo Stato! L’inchino in Albania assume, perciò, un aspetto diverso. Quello in cui le forze dell’ordine si mettono al servizio dei potenti, familiari e parenti compresi, per coprire le loro malefatte di ogni genere. Grazie al coraggio di un ispettore di polizia, questa grave realtà si è evidenziata di nuovo. Ma purtroppo questa volta una ragazza orfana e indifesa è stata violentata anche dallo Stato. Dallo stesso Stato che doveva proteggerla e che invece ha protetto il suo stupratore.

  • Anime in vendita anche a Bruxelles

    Non abbiate paura di alzare la voce per l’onestà e la verità e la solidarietà contro l’ingiustizia e la menzogna e l’avidità. Se la gente di tutto il mondo avesse fatto questo, sarebbe cambiato il mondo.

    William Faulkner

    Due ladruncoli andarono a rubare uva in un vigneto. E siccome le uva stavano in alto e loro non potevano raggiungere i grappoli, pensarono bene di salire uno sulle spalle dell’altro. Ma non riuscirono a prendere niente, perché il proprietario con alcuni altri arrivarono e presero i due ladruncoli, portandoli davanti al giudice. Il giudice chiese loro cosa avessero da dire di fronte all’accusa del proprietario del vigneto. Uno di essi, quello che era salito sulle spalle dell’altro, giurò di non aver messo mai piede sul terreno del vigneto. L’altro, quello che portava l’amico sulle spalle, giurò di non aver mai toccato con le mani nemmeno un grappolo d’uva del vigneto. Tutti e due dicevano soltanto una parte della verità, cercando di apparire innocenti dietro giuramento, schivando però la vera verità. E cioè che erano entrati nel vigneto per rubare.

    Purtroppo persone che, come i due ladruncoli, cercano di nascondere le vere verità con linguaggio sibillino e altri sotterfugi si trovano dappertutto. Anche nelle istituzioni importanti internazionali, quelle europee comprese, dove si elaborano dati, informazioni e realtà diverse, e dove si prendono delle decisioni. Decisioni delle quali potrebbero beneficiare meritevolmente delle comunità coinvolte, ma potrebbero creare ingiustamente anche non pochi problemi. Non di rado anche gravi. L’operato di alcuni alti funzionari e/o di certi “burocrati europei” potrebbe, perciò, danneggiare fortemente la causa stessa per cui i Padri Fondatori hanno deciso di costituire  l’Unione, con i Trattati di Roma del 25 marzo 1957. Purtroppo, parafrasando Amleto di Shakespeare, c’è del marcio anche a Bruxelles.

    Negli ultimi anni anche in Albania si sono fatte sentire e pesare le conseguenze dell’operato, degli atteggiamenti e delle dichiarazioni pubbliche di alcuni alti rappresentanti diplomatici e/o delle istituzioni europee, soprattutto quelli della Commissione. L’ultima conseguenza, in ordine di tempo, riguarda il Teatro Nazionale. O meglio, riguarda lo scandalo clamoroso, reso pubblico dopo la decisione personale del primo ministro di distruggere il Teatro e costruire, in pienissimo centro di Tirana, un complesso di edifici in cemento armato. Una decisione che oltrepassa significativamente il Teatro stesso (Patto Sociale n.316; 319).

    Il 5 luglio scorso, la maggioranza governativa ha approvato con solo i propri voti una legge speciale che prevedeva la distruzione del Teatro. Una legge palesemente anticostituzionale, clientelistica e che violava alcune convenzioni internazionali, ufficialmente riconosciute dall’Albania. La reazione è stata immediata. Il presidente della Repubblica, in seguito, non decretò quella legge speciale, specificando dettagliatamente anche il perché, comprese le violazioni della Costituzione e delle leggi in vigore.

    A metà luglio un gruppo di deputati dell’opposizione albanese ha mandato una lettera alla Commissione europea, tramite la quale si denunciava lo scandalo e si elencavano, dettagliate, tutte le violazioni. Nello stesso periodo, una rappresentanza dell’Alleanza per la Difesa del Teatro ha incontrato la rappresentante dell’Unione europea a Tirana, informandola della realtà e consegnandole documenti che dimostravano l’abuso in corso. Lei ha promesso di informare la Commissione europea. Chi sa se l’ha fatto e se sì, come l’ha fatto. Perché bisogna sottolineare che le cattive lingue, da anni, l’hanno considerata come una portavoce del primo ministro. Pubblicamente lei è stata denunciata, a più riprese, documenti alla mano, per uno scandalo milionario che riguardava l’acquisto di una villa. Chissà se la verità, anche in questo caso, verrà a galla?!

    In seguito alla lettera dei deputati dell’opposizone, ha reagito l’apposito ufficio della Commissione. Ma non rispondendo, però, ai diretti interessati. Tramite quindici domande, si chiedevano al governo albanese delle informazioni sulle procedure svolte. Focalizzandosi, così facendo, soltanto sulle violazioni riguardanti gli aspetti procedurali, ma trascurando altri importanti argomenti, a loro resi noti ufficialmente in modo dettagliato. Argomenti che riguardavano la violazione della Convenzione europea per la Salvaguardia del Patrimonio Culturale Immateriale, approvata a Parigi il 17 ottobre 2003 e riconosciuta ufficialmente anche dall’Albania. Argomenti che riguardavano i principi fondamentali della Costituzione sull’identità e il patrimonio nazionale. Le domande dell’apposito ufficio della Commissione europea ignoravano anche gli argomenti molto importanti e a loro noti, che riguardavano la violazione dei principi costituzionali della decentralizzazione e dell’autonomia locale ecc.. Chissà perché?! Si sa però che una lettera, con le risposte a quelle domande, è stata consegnata direttamente dal primo ministro albanese al Commissario europeo per l’Allargamento e la Politica di Vicinato, in visita a Tirana. Commissario che ultimamente e spesso, con le sue dichiarazioni pubbliche, ha appoggiato vistosamente il primo ministro, trascurando, altrettanto vistosamente, l’allarmante realtà albanese. Sono fatti pubblicamente noti ormai. Chissà cosa era stato scritto in quella lettera?!

    Si sa però che circa due settimane fa, con una lettera, la responsabile della Sessione per l’Albania e la Bosnia Herzegovina presso la Direzione dell’Allargamento della Commissione europea, indirizzata al segretario generale del Consiglio dei Ministri albanese, faceva riferimento soltanto ad un argomento: la riapertura della gara, tramite degli emendamenti della sopracitata legge speciale. Come mai, nella risposta molto ambigua e sibillina, si chiedeva soltanto la riapertura della gara chiedendo emendamenti alla legge speciale e nient’altro?! Il resto è storia della scorsa settimana. Il parlamento, con soltanto i voti della maggioranza ha superato se stesso. Ha sì, approvato il decreto del presidente della Reppubblica, che rifiutava di firmare la legge speciale. E da quel momento, la legge doveva essere considerata nulla. Ma non per il primo ministro e per la sua castrata maggioranza. Perché su quella [inesistente ormai] legge hanno approvato alcuni emendamenti. Sbandierando fortemente soltanto il sopracitato “suggerimento europeo”. Questo è successo la scorsa settimana in Albania! Proprio come “consigliava” però, e chissà perché, la responsabile della Sessione per l’Albania e la Bosnia Herzegovina presso la Direzione dell’Allargamento della Commissione europea!

    Chi scrive queste righe è convinto che la causa del Teatro è emblematica proprio perché va molto oltre il Teatro stesso. Coinvolgendo, forse, anche alcuni rappresentanti della Commissione europea. Quella causa è emblematica e importante perché dimostra, tra l’altro e soprattutto, anche l’ascesa di una nuova, ma altrettanto pericolosa dittatura. Egli da tempo ritiene che gli albanesi debbano finalmente capire che sono loro i veri padroni dell’Albania, delle loro sorti e del loro futuro. Ragion per cui debbano ripudiare tutti quelli che si permettono di assumere ruoli impropri e che, con il loro operato, creano e causano danni enormi. Molto peggio che i due ladruncoli della favola che giuravano mezze verità.

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