Algeria

  • L’UE avvia procedimenti per la risoluzione delle controversie nei confronti dell’Algeria per difendere le imprese europee

    L’UE ha avviato un procedimento per la risoluzione delle controversie nei confronti dell’Algeria e ha richiesto consultazioni con le autorità algerine per affrontare le diverse restrizioni imposte alle esportazioni e agli investimenti dell’Unione. L’UE ritiene che, imponendo tali misure commerciali restrittive dal 2021, l’Algeria non rispetti i suoi impegni in materia di liberalizzazione degli scambi nel quadro dell’accordo di associazione UE-Algeria.

    L’obiettivo dell’UE è impegnarsi in modo costruttivo con l’Algeria al fine di eliminare le restrizioni in diversi settori di mercato, dall’agricoltura all’industria dell’autoveicolo. Le restrizioni includono un sistema di licenze di importazione che ha l’effetto di un divieto di importazione, sovvenzioni vincolate all’uso di fattori di produzione locali per i costruttori di autovetture e un massimale relativo alla proprietà straniera per le imprese che importano beni in Algeria.

    L’UE è il principale partner commerciale e il principale mercato degli scambi internazionali dell’Algeria (circa il 50,6 % nel 2023). Alla luce degli sforzi infruttuosi per risolvere la questione in via amichevole, l’UE ha compiuto questo passo per tutelare i diritti degli esportatori e delle imprese dell’UE operanti in Algeria che hanno subito ripercussioni. Le misure algerine danneggiano anche i consumatori algerini, a causa di una scelta indebitamente limitata di prodotti.

    Nel 2002 l’UE e l’Algeria hanno firmato un accordo di associazione, entrato in vigore nel 2005, che stabilisce un quadro di riferimento per la cooperazione UE-Algeria in tutti i settori, compresi gli scambi. Qualora non si riuscisse a raggiungere una soluzione, l’UE avrà il diritto, in virtù dell’accordo, di chiedere la costituzione di un collegio arbitrale.

     

  • Fiat Algeria produrrà 90mila veicoli all’anno entro il 2026

    Il ministro dell’Industria algerino, Ali Aoun, ha ricevuto una delegazione di Stellantis, guidata da Samir Cherfan, direttore dell’azienda nella regione Africa e Medio Oriente. Secondo un comunicato stampa del ministero algerino, l’incontro rientra “nel monitoraggio dell’avanzamento del progetto di produzione automobilistica in Algeria del marchio Fiat”. Il ministro Cherfan ha “confermato l’impegno del Gruppo Stellantis a sostegno dello sviluppo dell’industria automobilistica in Algeria”. Durante l’incontro si è discusso della situazione attuale della fabbrica di assemblaggio e degli ultimi sviluppi nel campo della produzione automobilistica. In particolare, prosegue la medesima fonte, è stato presentato “nel dettaglio il progetto che sta avanzando nel processo di produzione dei veicoli Fiat, in particolare dei modelli Fiat 500 e Doblò”. È previsto, inoltre, un aumento della produttività “per raggiungere l’obiettivo prefissato di 40mila veicoli entro la fine del 2024 e di 90mila unità entro la fine del 2026”. Infine, sono stati presentati i progressi compiuti nell’attuazione degli accordi conclusi con i fornitori per aumentare il tasso di integrazione con le componenti prodotte localmente, che secondo Cherfan “raggiungerà oltre il 35 per cento entro il 2026”.

    Lo scorso 11 dicembre, il Gruppo Stellantis e le autorità dell’Algeria hanno inaugurato lo stabilimento Fiat nella provincia di Orano, nell’ovest del Paese. Situato nella zona industriale di Tafraoui, lo stabilimento Fiat è stato costruito su un’area di 40 ettari, che si aggiungono a ulteriori 80 ettari dedicati ai produttori di attrezzature che accompagneranno l’impianto. Si stima che nello stabilimento lavoreranno 600 persone al momento del lancio e che la cifra salirà a 2 mila entro il 2026. Saranno prodotti tre modelli, tra cui la Fiat 500 Hybrid che ha aperto il salone, seguita dal Doblò nelle versioni touring (vetrata) e commerciale, con la clausola che un nuovo modello internazionale uscirà dalle linee di produzione dello stabilimento nel 2026. L’accordo firmato nell’ottobre del 2022 prevede la produzione di 60 mila veicoli nel primo anno, cifra che salirà a 90 mila entro 12 mesi. L’apertura della seconda linea di produzione automatizzata dell’impianto Fiat di Orano, che aumenterà la capacità produttiva a 60 mila automobili all’anno, è prevista per la fine del prossimo giugno.

    Le parti attualmente prodotte localmente per i veicoli Fiat includono sedili, tappeti, oli e lubrificanti, parti in plastica e pneumatici. Si tratta di parti relativamente facili da reperire in Algeria, ma nel frattempo il Paese nordafricano dovrà sviluppare la sua industria per produrre una componentistica tecnologicamente più avanzata. Secondo l’emittente algerina “Echourouk News“, i fornitori selezionati devono soddisfare “rigorosi requisiti in termini di qualità, prestazioni ed efficienza”. Le specifiche per la produzione dei veicoli, pubblicate nel novembre 2022, prevedono un graduale aumento del tasso di integrazione della componentistica algerina, che raggiungerà il 10 per cento dopo un anno di produzione. Secondo quanto appreso da “Agenzia Nova”, Stellantis vorrebbe andare oltre la percentuale di integrazione prevista e arrivare intorno al 40 per cento nel quinquennio. Il tutto, è bene ricordare, senza fare concorrenza a quanto viene prodotto in Italia, dal momento che lo stabilimento di Orano produrrà per il mercato algerino e africano.

  • Ad Eni e Snam la gestione dei gasdotti dall’Algeria all’Italia

    Ha preso il via a fine 2022, dopo 14 mesi di travaglio, la partnership tra Eni e Snam per il controllo dei gasdotti che collegano l’Algeria all’Italia. Annunciata il 27 novembre del 2021, l’operazione ha visto aumentare da 385 a 405 milioni il prezzo pagato da Snam per rilevare il 49,9% di Sea Corridor. In quest’ultima Eni ha conferito tutte le partecipazioni nei gasdotti di terra (Trans Tunisian Pipeline Company, Ttpc) e di mare (Transmediterranean Pipeline Company, Tmpc) che collegano i due Paesi mantenendo il 50,1%. In virtù degli accordi sottoscritti, Eni e Snam eserciteranno un controllo congiunto sulla base di principi di governance paritetica.

    La partnership che prende il via consente, secondo i due gruppi, di «valorizzare in maniera sinergica le rispettive competenze su una rotta strategica per la sicurezza degli approvvigionamenti di gas naturale in Italia, favorendo potenziali iniziative di sviluppo nella catena del valore dell’idrogeno anche grazie alle risorse naturali del Nord Africa”. Eni e Snam ritengono inoltre che la connessione tra il Nord Africa e l’Europa rappresenti “un asse fondamentale in un’ottica di progressiva decarbonizzazione a livello internazionale a supporto della transizione energetica». Quanto al sovrapprezzo pagato da Snam, comprende un aggiustamento calcolato sulle perdite di gas che si sono verificate nel periodo intercorso dalla firma del contratto preliminare ad oggi. La cifra di 405 milioni include anche una commissione (ticking fee) del 4% legata ai 14 mesi che sono passati tra i due contratti. Snam ed Eni inoltre avevano previsto un meccanismo di ‘earn-in’ ed ‘earn-out’, (modifica del prezzo a tutela del compratore) da calcolare sulla base dei ricavi che saranno generati dalle numerose società partecipate.

  • E’ scontro tra Parigi e Algeri dopo le parole di Macron sull’esistenza della nazione magrebina prima della colonizzazione francese

    Scuse ufficiali dell’Eliseo all’Algeria dopo che il Presidente francese Emmanuel Macron, come riportato dal quotidiano Le Monde lo scorso 2 ottobre, avrebbe detto che l’Algeria come nazione non esisteva prima della colonizzazione francese. Se nel comunicato ufficiale della Presidenza ci si rammarica per l’equivoco, dalle parti di Algeri il commento è invece stato definito un “grave errore” e “inaccettabile” tanto che l’ambasciatore algerino a Parigi è stato richiamato in patria e il paese magrebino ha vietato i voli militari francesi dal suo spazio aereo.

    Nel comunicato si fa sapere anche che la Presidenza francese ha invitato il presidente algerino Abdelmadjid Tebboune ad una conferenza a Parigi per discutere su come sostenere la Libia in vista delle elezioni del 24 novembre. Ma Tebboune ha avvertito che non avrebbe “fatto il primo passo” per allentare la tensione con la sua controparte francese perché il commento ha suscitato una diffusa rabbia in Algeria.

  • L’Algeria boicotta il referendum costituzionale

    Con un’affluenza alle urne ai minimi storici, l’Algeria ha boicottato un referendum che, solo grazie all’assenza di quorum, ha varato riforme costituzionali concepite per placare la protesta popolare che ha scosso per un anno il Paese nordafricano.

    Le riforme per creare “una nuova Algeria” e avallare in maniera plebiscitaria il presidente Abdelmadjid Tebboune sono state approvate con un 66,8% dei consensi ma domenica 1 novembre l’affluenza alle urne è stata solo del 23,7%, la più bassa da quando si vota dopo l’indipendenza ottenuta nel 1962 dall’ex-colonia francese.

    Le riforme includono piani per ridurre a due i mandati presidenziali e per aumentare il potere di parlamento, magistratura e primo ministro. Nomine chiave rimangono però ad appannaggio del presidente e il testo di riforma nel complesso è stato respinto da esponenti dell'”Hirak”, il “movimento” di protesta che per oltre 12 mesi ha riempito le strade dell’Algeria contribuendo (assieme ai decisivi militari) alla caduta del ventennale presidente-autocrate Abdelaziz Bouteflika nell’aprile dell’anno scorso. L’Hirak, che chiede un netto cambio del “sistema” di potere algerino, era basato sui raduni ed è stato fermato solo dall’emergenza Covid.

    Il Movimento aveva esortato al boicottaggio definendo le riforme proposte da Tebboune (eletto nel dicembre scorso) solo “di facciata”. Un parere condiviso peraltro anche da accademici come Cherif Driss, professore di Scienze politiche all’Università di Algeri secondo il quale il testo della riforma “non ha apportato granché rispetto alla vecchia Costituzione”. A suo dire il fatto che in pratica solo il 15% degli algerini abbia detto sì alle riforme è un “fallimento” del “potere” attuale.

    In Algeria, in cui il coronavirus sta avendo negativi effetti economici e sociali esacerbando il malcontento popolare, si è percepita una mancanza d’interesse per il referendum. La consultazione è stata accompagnata da una campagna elettorale a senso unico in cui gli appelli al boicottaggio sono stati alquanto oscurati dai media. In Cabilia, roccaforte dell’Hirak, sono stati segnalati casi di blocco dei seggi da parte di contestatori. Allo scarso afflusso alle urne ha contribuito chiaramente anche la pandemia che peraltro ha costretto il 74enne presidente, gran fumatore) a un ricovero in Germania in seguito alla scoperta di casi positivi nel suo entourage.

  • Algeria’s moment of truth

    To understand what is behind the mass protests in Algeria, it helps to remember that the country’s outgoing president, Abdelaziz Bouteflika, held that office for two decades, and served as foreign minister as far back as 1963, the year John F. Kennedy was assassinated. The current Army chief of staff is nearly 80, and the current acting president is 77. It is a geriatric regime, presiding over one of the world’s youngest populations.

    Algeria has not fared well under gerontocracy. In Freedom House’s latest report, it is categorized as “Not Free,” whereas neighbouring Morocco, Mali, and Niger are all “Partly Free,” and Tunisia is now considered “Free.” The Algerian regime’s mistake was to think that it could re-install Bouteflika, an invalid since suffering a stroke six years ago, for a fifth term without anyone noticing or caring.

    Driving today’s protests is a deep-seated sense of humiliation among Algerians. Since independence in 1962, its rulers have tended to regard the country’s people as their servants, rather than the other way around. But the regime’s disdain was especially obvious earlier this year when its leading figures publicly endorsed Bouteflika’s candidacy by bowing down to his picture because the man himself could neither appear on stage nor speak. This kind of sham may work in North Korea, but in Algeria, people have access to the Internet and international television channels; they can spot a farce when they see it.

    Beyond Algeria’s lack of pluralism and democracy is its disastrous economic performance. In the World Bank’s “Ease of Doing Business” index, it ranks 157th out of 190 countries, whereas neighbouring Morocco ranks 60th. The difference is almost entirely the result of Algeria’s archaic rentier-state development model. So obsessed is the government with maintaining an iron grip on the economy that Algeria remains one of the few countries not to have joined the World Trade Organization.

    As a result, Algeria has lived almost entirely off oil and gas revenues, which still account for 90% of its export earnings. Six decades after independence, the government has yet to make a serious attempt at diversifying the economy. Outside of the hydrocarbons sector, job creation has been an afterthought. Such is the nature of a rentier state, which must maintain a monopoly over the means of production and the creation of wealth in order to control the population.

    Until now, the regime has maintained social stability by distributing resources to the population and preventing the emergence of a strong private sector that could challenge it from within. Algeria’s lack of democracy and poor economic performance are thus symptoms of the same underlying malady.

    The regime’s attempt at economic liberalization in the 1990s turned out to be a false dawn, benefiting only a select few importers and contractors who rely on public tenders. These regime clients are now among the protesters’ primary targets. In addition to denying economic opportunities to everyone except the politically connected, the system has bred rampant corruption. On Transparency International’s corruption perceptions index, Algeria ranks 105th out of 180, putting it well behind Morocco and Tunisia, which are hardly paragons of good governance.

    If the Algerian regime can claim one success, it is in providing schooling to most of the population. And yet the quality of education is deplorable. In the Program for International Student Assessment (PISA) global rankings, the country is near the bottom in every category.

    Since independence, the Algerian regime has mixed traditional Arabic patrimonialism with Russian-style oligarchy, such that power rests with a presidential clan, the security services, and loyal clients who live off the rentier state. This arrangement was largely spared from the 2010-2011 Arab Spring, most likely because of the trauma of Algeria’s civil war, which claimed as many as 200,000 lives between 1991 and 2002, still weighed heavily in people’s minds. That remains true, and it may explain why the protests have been overwhelmingly peaceful.

    Though Bouteflika is gone, the regime remains in place, hiding behind a constitutional formalism that the protesters clearly do not consider legitimate. Algerians are demanding new political institutions and an orderly transition that prevents the old guard from taking advantage of the interregnum to reclaim power. But they are also being careful not to prevent a backlash from security forces. The pacifist nature of the movement is probably its strongest asset.

    Although the regime is planning to hold the previously scheduled presidential election on July 4, continued protests and threats to boycott the election – a considerable number of mayors have said that they will not open polling stations in their municipalities – could force the regime to accept that a political transition is the only viable option. In that case, the election would be cancelled, and a three- or four-member Presidential Council could be put in place to appoint a transitional government and take legal steps in order to organize the transition, with the Army serving as a guarantor. But the precondition is a postponement of the election and the military’s endorsement of this scenario.

    What is already clear is that a genuine transition cannot be rushed through in just a few months. After more than 60 years of rentier-state autocracy, it will take time for democratic forces to organize and coalesce around common objectives. The goal should be for capable elements of Algerian civil society to take over administration of the state, with the armed forces being neutral. Other than that, all options are on the table. The outgoing regime still warrants suspicion, but the Algerian street now offers ample cause for hope.

     

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