Animali

  • Sanità animale, ANMVI: ‘Che Tempo Che Fa’ ne parli con i Medici Veterinari

    Riceviamo e pubblichiamo un comunicato stampa dell’Associazione Nazionale Medici Veterinari Italiani

    È uno schiaffo alla sicurezza alimentare nazionale sostenere – come ha fatto il conduttore di Che Tempo Che Fa, Fabio Fazio – che “assumiamo antibiotici senza saperlo”. Nessun animale in corso di trattamento farmacologico può produrre alimenti destinati al consumo umano. Lo dice la Legge e lo dicono i Veterinari, il Ministero della Salute, l’Unione Europea e l’Agenzia Europea per la Sicurezza Alimentare (EFSA, con sede a Parma).

    Ed è pura disinformazione affermare, come fa il prof. Roberto Burioni, che negli allevamenti si pratichi “l’utilizzo degli antibiotici per fare crescere di più di peso gli animali”. In Italia, come in tutta la UE, non lo si fa. E non lo si fa ormai da quasi vent’anni, sulla base di norme sull’alimentazione animale che vietano l’uso degli antibiotici come promotori della crescita dal 1° gennaio 2006.

    I farmaci ad uso veterinario, antibiotici compresi, sono necessari alla salute e al benessere degli animali. Il compito di garantire animali e consumatori di alimenti di origine animale è affidato ai sistemi veterinari degli Stati Membri. E l’Italia vanta un sistema veterinario tra i migliori al mondo.

    Auspichiamo che una trasmissione – con meritato seguito – come Che Tempo Che Fa voglia rettificare e, per il futuro, far parlare di sanità animale i Medici Veterinari.

    Ufficio Stampa ANMVI – Associazione Nazionale Medici Veterinari Italiani – 0372/40.35.47

  • Madagascar in ansia: a rischio il 50% della propria biodiversità

    ll Madagascar lancia un Sos: dai famosissimi lemuri al fossa, loro predatore e simile ad un piccolo puma, passando per lo strano pipistrello dai piedi a ventosa, sono 120 le specie di mammiferi a rischio di estinzione, più del 50% delle 219 presenti sull’isola simbolo della biodiversità. Hanno impiegato 23 milioni di anni di evoluzione per fiorire e ne impiegherebbero altrettanti per ricostruirsi, se dovessero scomparire: un arco di tempo molto più lungo di quanto ritenuto finora. Lo ha stimato uno studio pubblicato sulla rivista Nature Communications e guidato dal Centro per la biodiversità naturale di Leiden, nei Paesi Bassi, che dà l’allarme: secondo gli autori della ricerca, restano solo cinque anni per salvare il Madagascar dal punto di non ritorno.

    “È assolutamente chiaro che ci sono mammiferi unici al mondo che si trovano solo in Madagascar, alcuni dei quali si sono già estinti o sono sull’orlo dell’estinzione”, afferma Steve Goodman del Museo Field di storia naturale di Chicago, co-autore dello studio guidato da Nathan Michielsen: “Se non si intraprende un’azione immediata, il Madagascar perderà 23 milioni di anni di storia evolutiva, il che significa che tante specie uniche sulla faccia della Terra non esisteranno più”.

    Il Madagascar è la quinta isola più grande del mondo, ma se pensiamo alla ricchezza di ecosistemi e biodiversità presenti è più simile ad un mini-continente: il suo isolamento ha infatti permesso a piante e animali di evolversi in maniere uniche, basti pensare che il 90% delle specie non si trova da nessun’altra parte. Una biodiversità costantemente minacciata fin da quando gli esseri umani si sono stabiliti in maniera permanente sull’isola, circa 2.500 anni fa: da allora, molte estinzioni sono già avvenute, comprese quelle dei lemuri giganti, degli uccelli-elefanti e degli ippopotami nani.

    Per quantificare il rischio corso dalla vita sull’isola, i ricercatori hanno messo insieme una quantità di dati senza precedenti, che descrivono le relazioni evolutive tra tutte le specie di mammiferi che erano presenti nel Madagascar al momento della colonizzazione, 249 in tutto. Utilizzando simulazioni al computer, gli autori dello studio sono riusciti a calcolare il tempo impiegato da questa biodiversità per evolversi ed il tempo che impiegherebbe l’evoluzione per ‘sostituire’ tutti i mammiferi in caso di estinzione. I risultati mostrano che 120 specie su 219 attualmente viventi sono vicine alla scomparsa. Per ricostruire la diversità degli animali già estinti ci vorranno 3 milioni di anni, ma molti di più, 23 milioni di anni, saranno necessari se si estinguessero anche quelli attuali. Un arco di tempo che ha sorpreso i ricercatori: “È molto di più di quello che studi precedenti hanno calcolato per altre isole – commenta Luis Valente, uno degli autori dello studio – come la Nuova Zelanda o i Caraibi”. Questo non vuol dire che, se i lemuri scomparissero, potrebbero tornare a popolare la Terra tra 23 milioni di anni: quello che lo studio evidenzia è il periodo necessario all’evoluzione per raggiungere di nuovo un simile livello di complessità, anche se le specie sarebbero del tutto nuove.

  • In Somaliland, i cuccioli sequestrati trovano la loro nuova casa

    Cizi e Bagheer, due cuccioli di ghepardo, sottratti ai bracconieri dal Governo del Somaliland nel mese di febbraio del 2020 e destinati al commercio illegale di fauna selvatica, per la prima volta possono godere del paesaggio senza muri di cimento che hanno coperto i loro occhi. Dopo essere stati confiscati, i cuccioli sono stati affidati al Ministero dell’Ambiente e del Cambiamento Climatico (MoECC) per essere accuditi dal partner ormai storico, il Cheetah Conservation Fund (CCF). Fino alla settimana scorsa, Cizi e Bagheer hanno vissuto in una delle tre strutture temporanee gestite dal CCF ad Hargeisa, capitale della Repubblica del Somaliland, condividendo gli spazi con altri 90 felini. Ma adesso Cizi e Bagheer sono tra i 52 esemplari che sono stati insediati nel Somaliland Cheetah Rescue and Conservation Centre (CRCC) del CCF a Geed-Deeble.

    Il CRCC e’ stato costruito per fornire una residenza permanente ai 92 felini salvati, con spazi sufficienti ad ospitare altri animali se necessario, ed è munito di ampi spazi cintati, che si trovano in aperta campagna in un ambiente naturale. Si tratta della prima struttura dedicata ai ghepardi strappati al commercio illegale nel Corno d’Africa. Il CRCC si trova su un territorio di circa 800 ettari a circa un’ora da Hargeisa, a Geed-Deeble (“Terra degli alberi”), e fungerà anche da centro di ricerca, educazione e formazione. E’ parte di un’area di circa 50.000 ha che il Governo del Somaliland ha istituito come Parco Nazionale di Geed-Deeble, il primo Parco nazionale del Somaliland. Il CRCC in seguito diventerà un centro di educazione e formazione, un museo vivente che attesterà l’esistenza del traffico illegale di ghepardi selvatici. Tutti I residenti del CRCC sono stati confiscati dalle agenzie governative del Somaliland al commercio illegale o a situazioni di conflitto animali-uomo. Dopo il sequestro, i felini hanno sempre vissuto sotto l’occhio vigile dei veterinari e I guardiani del CCF.

    Ora che i 52 cuccioli sono stati sistemati al CRCC, il CCF deve raccogliere i fondi necessari a costruire le recinzioni a Geed-Deeble per i restanti 39 ghepardi che ancora vivono nei Rifugi 2 e 3.

    Il CCF, con il partner MoECC, ha colpito duramente il commercio illegale di ghepardi nell’ultimo decennio, sia in Somaliland che nel Corno d’Africa e stanno lanciando attività di ricerca e conservazione sulle popolazioni selvatiche di ghepardi, che puntano a sostenere le comunità umane. Per incrementare le opportunità di sussistenza, il CCF sta introducendo la sua popolare formazione per allevatori e pastori in coesistenza con la fauna selvatica.

    Chi desidera dare un aiuto per la costruzione delle recinzioni mancanti presso il CRCC, può cliccare sul link https://cheetah.org/donate/ e donare per I ghepardi del Somaliland.

  • Riformare l’IVA: le richieste dei Medici Veterinari al Governo Meloni

    Riceviamo e pubblichiamo un comunicato dell’ANMVI (Associazione Nazionale Medici Veterinari Italiani)

    (Cremona, 14 marzo 2023) – È di oggi il riscontro all’Anmvi del Sottosegretario alla Presidenza del CdM, On Alfredo Mantovano, per un approfondimento con il Mef.

    Nell’imminenza del varo del disegno di legge delega, l’Associazione Nazionale Medici Veterinari Italiani auspica che possa finalmente trovare accoglimento la sempre più urgente esigenza di alleviare il peso fiscale che grava sulle cure e sul mantenimento di 60 milioni di animali da compagnia (rapporto 1/1 popolazione Istat) nonché sull’assistenza veterinaria agli animali allevati a scopo di produzione di alimenti.

    L’Associazione avanza quattro richieste:

    1. La collocazione delle prestazioni veterinarie nell’aliquota agevolata IVA (al pari dei medicinali veterinari) in quanto dichiarate “servizi essenziali” alla sanità animale e alla sanità pubblica;
    2. La valutazione di una aliquota zero (esenzione da IVA) per le prestazioni veterinarie corrispondenti ad obblighi di legge (es. identificazione e registrazione degli animali da compagnia) o riconducibili ai livelli essenziali di assistenza (es. sterilizzazione anti-randagismo) o ad azioni di tutela della sanità pubblica (es vaccinazioni/trattamenti anti-zoonosi)
    3. La collocazione nello scaglione agevolato IVA dei prodotti alimentari (pet food);
    4. La salvaguardia della detraibilità fiscale delle spese veterinarie;

    In un’ottica concretamente one health, l’Anmvi ritiene necessario e urgente un intervento di razionalizzazione fiscale in particolare delle aliquote IVA.

    Ufficio Stampa ANMVI – Associazione Nazionale Medici Veterinari Italiani- 0372/40.35.47

  • I cinghiali provocano danni all’agricoltura per 120 milioni

    Luci puntate sull’invasione dei cinghiali in Italia che in sette anni hanno provocato danni all’agricoltura per quasi 120 milioni di euro, con una media di 17 milioni l’anno, per un totale di oltre 105 mila eventi. A tracciare il primo bilancio su scala nazionale 2015-2021 è stato l’Ispra, Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, in un’indagine condotta grazie alle informazioni di Regioni e Aree protette e comunicata ai ministri di Ambiente e Agricoltura.

    Abruzzo e Piemonte le regioni più colpite, con 18 e 17 milioni di euro di danni, seguite da Toscana, Campania e Lazio con 10 milioni. Secondo l’indagine presentata in un convegno organizzato da Confagricoltura e Ente Produttori Selvaggina (Eps), il 36% degli importi totali (circa 30 milioni di euro) per danni è riferito alle aree protette nazionali e regionali, i restanti 89 milioni ad aree non protette.

    In Italia ci sono 1,5 milioni di esemplari, una proliferazione contro cui si sono messe in campo campagne di selezione cresciute del 45%. L’Ispra segnala, infatti, che gli abbattimenti sono stati circa 300 mila l’anno (di cui 257 mila in caccia ordinaria e 42 mila in interventi di controllo faunistico); in particolare il 30% dei contenimenti totali è stato effettuato in Toscana.

    «Serve un cambio di passo, un nuovo modello che tenga assieme gli interessi delle imprese agricole e la tutela ambientale», fa sapere il presidente di Confagri Massimiliano Giansanti, senza dimenticare che «la non adeguata gestione di alcune specie selvatiche ha un forte impatto sulle attività economiche, a partire dalla diffusione della Peste suina africana, spettro della suinicoltura nazionale».

    A un anno dal primo caso accertato a Ovada (Al) Cia-Confederazione italiana agricoltori fa sapere che il problema resta irrisolto. «Ci vuole l’esercito per abbattere i cinghiali – chiede il presidente di Cia Piemonte e Valle d’Aosta Gabriele Carenini – chiediamo che ci sia un commissario straordinario alla Figliuolo con pieni poteri, come durante il Covid, per intervenire». Nella zona rossa di diffusione del virus che comprende parte dei territori delle province di Alessandria, Savona e Genova in 1 anno sono stati abbattuti 444 cinghiali, a fronte di un numero totale sottostimato per Cia, di oltre 104 mila in Piemonte e tra 35 e 56 mila in Liguria. Occorre lavorare con urgenza sul Piano straordinario nazionale anti-cinghiale, incalza ancora Cia, plaudendo la modifica della legge 157/92 nella manovra. Questo mentre l’Organizzazione internazionale protezione animali fa sapere che caccia e selezione non sono la soluzione ma la causa della proliferazione. Un’emergenza sentita da tutti, visto che un’indagine della Coldiretti ricorda che per il 69% degli italiani i cinghiali sono troppi e per il 58% sono una minaccia.

  • Una profonda, condivisa cultura di rispetto

    In solo due settimane, in un canile rifugio in provincia di Piacenza, lodevolmente gestito dalla Lega nazionale difesa del cane, sono stati abbandonati 15 cani, di questi 11 erano di proprietà

    11 persone, non mostri apparentemente, hanno preso il cane con il quale vivevano, lo hanno portato in un canile e lo hanno abbandonato rinunciando alla proprietà, venendo meno ad un impegno, che avevano preso con l’animale ma anche con se stessi, con leggerezza, indifferenza.

    Molti, in tante parti d’Italia, riportano i cani che avevano adottato facendo loro ritrovare speranze e felicità che poi sono durate ben poco.

    I cani sono abbandonati senza ragioni particolari, non stiamo parlando di animali pericolosi, vengono abbandonati perché si è stanchi di occuparsi di loro, certo nel periodo nel quale si era chiusi in casa era utile avere un animale da portare fuori ,era la buona scusa per poter uscire, ma poi troppo impegno…

    Cani abbandonati perché non sanno cacciare, le strutture sono piene di cani da caccia di razza che preferiscono le coccole agli inseguimenti di qualche povero selvatico, cani regalati come giocattoli e che una volta cresciuti diventano ingombranti o dei quali comunque anche certi bambini si stancano  perché preferiscono giocare con la Rete.

    Persone che riportano un cane e poi dopo qualche tempo ne chiedono un altro come se tutto fosse un gioco, come se gli animali non avessero sentimenti, non provassero dolore.

    È vero, in Italia la maggior parte delle famiglie ha un animale d’affezione, gatti e cani sono numerosissimi ma sono ancora  troppo numerosi i cani ed i gatti abbandonati, troppo mal gestite molte convenzioni tra i comuni ed i canili rifugio ed è ancora lontana una profonda, condivisa cultura di rispetto per i nostri animali, sia per quelli d’affezione che gli altri, d’allevamento o selvatici.

    Anche di questo la politica e l’informazione dovrebbero occuparsi di più e meglio.

  • Un caso per la reintroduzione dei ghepardi in India

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di un gruppo di scienziati tra qui Laurie Marker, fondatrice del Cheetah Conservation Fund, scritto dopo il rilascio di 12 ghepardi in India

    In una recente corrispondenza a Nature Ecology & Evolution, Gopalaswamy et al. si esprimono criticamente sulla reintroduzione in India dei ghepardi, riferendosi ripetutamente ai rischi ecologici, genetici e patologici che ritengono non siano stati considerati nel sostituire i ghepardi asiatici con i ghepardi dell’Africa australe. Inoltre affermano che tre elementi esposti nella reintroduzione di ghepardi in India sono privi di sostanza: che i ghepardi in Africa non hanno più sufficiente spazio; che c’è abbastanza spazio adeguato per accoglierli in India; che la translocazione per la conservazione dei ghepardi ha avuto successo nello sforzo di recupero di areali. Inoltre affermano che la densità bassa è un fatto naturale nei ghepardi, rendendoli sensibili alla rimozione di alcuni individui dalle popolazioni d’origine.

    Siamo stati coinvolti in consulenze scientifiche sul progetto di reintroduzione in India, e ci permettiamo rispettosamente di non essere d’accordo. In questa sede affronteremo tutti gli argomenti di Gopalaswamy e colleghi, dimostrando scientificamente e appoggiando l’operazione di rinaturalizzazione attualmente in corso.

    I ghepardi storicamente occupavano una nicchia ecologica all’interno delle savane indiane e nei sistemi di foreste aperte che attualmente sono deprivate della fauna selvatica. Riempire questo vuoto contribuirebbe a restaurare l’ecologia funzionale di questi sistemi tramite un processo top down. Ripristinare le specie ed il loro ruolo negli ecosistemi è essenziale per una rinaturalizzazione efficace e onnicomprensiva; la reintroduzione dei carnivori è particolarmente importante per il ripristino degli ecosistemi. Le minacce principali, quali soprattutto il conflitto umani/predatori che ha causato l’estinzione in India, sono state ridotte sensibilmente tramite leggi e azioni di contrasto efficaci. Inoltre, la reintroduzione è stata proposta all’interno di siti protetti negli areali storici, dopo un’attenta valutazione della disponibilità di habitat e prede, oltre alla pressione antropogenica. Attualmente esistono circa 100.000 km2 di riserve protette all’interno degli areali storici del ghepardo in India, che potenzialmente sono in grado di accogliere popolazioni di ghepardi in età riproduttiva, oltre a 700.000 km quadrati in grado di sostenere la presenza di ghepardi.

    L’UICN (Unione Internazionale per la Conservazione della Natura) ha sviluppato linee guida chiare sulla riproduzione delle popolazioni: nello specifico, i fondatori selezionati dovrebbero fornire diversità genetica adeguata, e la loro rimozione non dovrebbe mettere a rischio le popolazioni d’origine. Le linee guida appoggiano inoltre la sostituzione sostenibile di taxon (gruppo tassonomico) allorquando “una specie simile, imparentata, o una sub-specie può essere sostituita quale surrogato ecologico“.

    Nel 2022, il Dipartimento dell’Ambiente Iraniano ha riferito che solo 12 ghepardi asiatici in libertà sono stati confermati ancora in vita. Le cifre così basse ed il livello di endogamia della popolazione di ghepardi iraniani li escludono come fonte di popolazione potenziale per la reintroduzione in India. La popolazione di ghepardi sudafricani possiede la maggiore diversità genetica documentata ed è sufficientemente numerosa da fornire fondatori, senza che una rimozione vada a danneggiare le popolazioni coinvolte. Secondo nostri dati non ancora pubblicati (V.v.d.M. E Y.V.J.) la metapopolazione di ghepardi sudafricani (circa 500 individui) cresce con un incremento dell’8,8% annuo; l’analisi di fattibilità della popolazione suggerisce che la componente sudafricana di tale popolazione può reggere la rimozione annua di 29 ghepardi, senza effetti dannosi.

    Sulla base di queste informazioni, l’Autorità Scientifica del Sudafrica ha acconsentito all’esportazione del 10% di maschi e del 4% di femmine l’anno. Nel corso degli ultimi due decenni, in Sudafrica sono state coordinate settanta reintroduzioni di ghepardi. Anche se tali reintroduzioni sono avvenute principalmente in riserve recintate, 22 ghepardi sono stati liberati nel Zambezi Delta in Mozambico fin dall’agosto del 2021. In Namibia, in un altro progetto, 36 ghepardi sono stati rilasciati in territori agricoli o in riserve recintate e non, con il 75-96% degli esemplari che hanno raggiunto l’indipendenza dopo il rilascio ed con una percentuale di sopravvivenza annuale elevata.

    Come da prescrizioni della World Organization for Animal Health e dell’UICN noi (A.S.W.T., Y.V.J. E R.A.K.) ed altri abbiamo condotto un’analisi esauriente sui rischi di patologie per il progetto indiano di reintroduzione. La maggior parte dei rischi di patologie sono stati valutati come bassi o minimi.

    La trasmissione di patologie considerate di medio rischio viene mitigata dallo screening patologico e dalla somministrazione di vaccini e cure antiparassitarie durante il periodo di pre – e post quarantena.

    Pur convenendo che esistono spazi ecologici potenzialmente adatti alla reintroduzione di ghepardi in molte parti dell’Africa, la realtà ci dice che pochi siti in Africa sono in grado di fornire un livello adeguato di protezione per gli animali, tanto da garantire il successo delle reintroduzioni. I contributori culturali, religiosi e socioeconomici della tolleranza nei riguardi di grandi carnivori se paragonati all’India sarebbero troppo lunghi da dibattere in questa sede, ma riteniamo sia evidente che i ghepardi sono probabilmente meno minacciati dalle persecuzioni in India, dove altri sforzi di conservazione di grandi carnivori sono stati notevolmente pieni di successo.

    Non concordiamo con l’approccio di Gopalaswamy e coautori quando valutano la capacità di sopportare i rilasci sulla densità delle popolazioni di ghepardi dell’Africa orientale (circa 1 per 100 chilometri quadrati), in quanto le densità sono ampiamente definite dalle biomasse di prede adeguate – che a loro volta sono il prodotto delle condizioni della vegetazione. Le densità storiche di popolazioni di ghepardi in Africa Orientale probabilmente erano maggiori prima del marcato declino di prede di base, e i ghepardi a loro volta probabilmente abbondavano maggiormente in aree più produttive dei loro areali storici che oggi sono state soppiantate dall’allevamento di bestiame. In una riserva nel sud del Botswana, con recinzioni permeabili ai predatori, è stata riferita una densità media e reale di 5,23 ghepardi per 100 km2, il che sta ad indicare che densità superiori sono possibili.

    Le raccomandazioni generiche offerte da Gopalaswmy et al. relative a come l’India dovrebbe impegnarsi nella conservazione globale dei ghepardi sono affascinanti, ma ci permettiamo di suggerire che sono molto poco fattibili nell’attuale clima politico. Con alcune eccezioni degne di nota, i governi, soprattutto dei paesi in via di sviluppo, tendono a dare priorità agli investimenti nelle proprie giurisdizioni che non in progetti di conservazione in altri paesi.

    A nostro parere, i dati disponibili e le argomentazioni che abbiamo proposto precedentemente sostengono a sufficienza la reintroduzione sperimentale di ghepardi in india, e siamo ansiosi di valutare i risultati del progetto nel tempo. (Fig.1). I titoli dei media hanno recentemente dimostrato che i ghepardi hanno già richiamato positivamente l’attenzione del pubblico e dei politici indiani, che sono componenti cruciali per il successo del progetto.

    Il loro ruolo di specie ombrello, che gioverà alla conservazione della biodiversità più ampia e agli obiettivi di sussistenza in India – anche se sostenuti in teoria – dovranno essere valutati dopo che i ghepardi saranno reintrodotti e si saranno stabiliti in India.

    Adrian S.D. Tordiffe, Yadvendradev V.Jhala, Luigi Boitani, Bogdan Cristescu, Richard A. Kock, Leith R.C.Meyer, Simon Naylor, Stephen J.O’Brien, Anne Schmidt-Kuentzel, Mark R.Stanley Price, Vincent van der Merwe&Laurie Marker

  • Un mercato illegale che coinvolge 8 milioni di cuccioli

    La Commissione europea, assunti anche i dati forniti per il 2020 dall’eurogruppo per la difesa degli animali, ha avviato piani di controllo coordinati con il settore legato al controllo del traffico illegale di cani e gatti.

    Come abbiamo più volte denunciato, dalle pagine del Patto Sociale, il traffico illegale è una importante fonte di guadagno per le associazioni criminali.

    I dati europei evidenziano come, secondo le segnalazioni inviate al network antifrode, un terzo dei dati riguarda le movimentazioni illegali di animali domestici.

    Le stime ufficiali della Commissione europea parlano di un mercato illegale che coinvolge 8 milioni di cuccioli per un valore di un miliardo di euro. A questi dati, che si riferiscono al traffico illegale di animali da compagnia, va aggiunto l’immenso guadagno delle organizzazioni criminali che si occupano di combattimenti e competizioni tra animali con le correlate scommesse clandestine.

    Da non trascurare anche il business illegale legato al traffico di animali esotici.

    L’unità Eu Agri-Food Fraud Network (FFN) della Commissione europea ha recentemente incluso tra le sue competenze il benessere degli animali.

    Le violazioni riscontrate non solo procurano un danno alla salute, in molti casi la stessa morte degli animali, ma procurano anche un notevole danno economico dal punto di vista commerciale e fiscale ed un altrettanto danno dal punto di vista sanitario, sia per gli animali che per le persone.

    Per dare tutti un contributo alla lotta contro questi traffici non comperiamo animali sulla rete e denunciamo qualunque situazione che appaia poco chiara. Ogni animale messo in vendita deve avere un regolare libretto sanitario con le vaccinazioni effettuate e si devono poter conoscere i genitori.

  • Dal 24 gennaio è in vigore il via libera alla farina di grilli

    Dal 24 gennaio è consentito commercializzare nell’Ue la farina parzialmente sgrassata di Acheta domesticus (grillo domestico). Il 26 gennaio è entrato in vigore anche il regolamento che autorizza la commercializzazione delle larve di Alphitobius diaperinus (verme della farina minore) congelate, in pasta, essiccate e in polvere.

    Prima della farina parzialmente sgrassata, l’ok Ue per i grilli in polvere, e per quelli congelati, in pasta ed essiccati era già arrivato nel marzo 2022. Nelle stesse forme sono già commercializzati la locusta migratoria, dalla fine del 2021, e la larva gialla della farina (larva di Tenebrio molitor, o tenebrione mugnaio) dal marzo 2022. Il primo insetto ad avere avuto il via libera come nuovo alimento da parte degli Stati membri Ue su proposta della Commissione europea è stata proprio la larva del tenebrione mugnaio, ma solo nella forma essiccata, nel giugno 2021.

    Ma l’elenco degli insetti, come novel food, non finisce qui, ci sono ben altre 8 domande in lista d’attesa. In tutti i casi elencati, le norme Ue includono requisiti specifici di etichettatura per quanto riguarda l’allergenicità poiché le proteine da insetti possono causare reazioni soprattutto nei soggetti già allergici a crostacei, acari della polvere e, in alcuni casi, ai molluschi. Non è un caso che l’Efsa, l’Autorità europea per la sicurezza alimentare, abbia sconsigliato il consumo ai minori di 18 anni del verme della farina minore (Alphitobus diaperinus), con un parere scientifico riportato nero su bianco proprio nel regolamento Ue che ne autorizza l’immissione sul mercato.

    Tuttavia, Bruxelles vede gli insetti, e le proteine alternative in generale, come una risposta all’aumento del costo delle proteine animali, del loro impatto ambientale, dell’insicurezza alimentare, della crescita della popolazione e della corrispondente, crescente domanda di proteine tra le classi medie. L’allevamento di insetti potrebbe contribuire anche a ridurre le emissioni di gas serra e lo spreco alimentare. Lo studio delle proteine derivate da insetti é considerato una delle aree più importanti del programma Orizzonte Europa che sostiene finanziariamente la ricerca nei Paesi Ue.

    Un’accelerazione, tuttavia, che non sembra interessare i consumatori europei e soprattutto gli italiani, visto che come rileva un’indagine Coldiretti-Ixé, il 54% è contrario agli insetti a tavola, il 24% è indifferente, solo il 16% è favorevole e il 6% non risponde.

  • Programma per cani da guardia del bestiame

    Il rinomato programma per cani da guardia del bestiame di CCF è stato molto efficace nel ridurre i tassi di predazione e quindi ridurre l’inclinazione degli allevatori a intrappolare o sparare ai ghepardi. CCF alleva pastori dell’Anatolia e cani Kangal, razze che per millenni hanno protetto il piccolo bestiame da lupi e orsi in Turchia. I cani vengono affidati agli allevatori namibiani come cuccioli. Si legano alla mandria e usano la loro presenza imponente e il forte latrato per spaventare i potenziali predatori.

    Nel 1994, CCF ha avviato il suo programma di cani da guardianìa allevando e collocando cani negli allevamenti. La ricerca mostra che i cani sono molto efficaci. I tassi di riduzione delle perdite di bestiame sono riportati dall’80 al 100%. Gli allevatori adottano i cani da guardianìa di CCF e partecipano alla formazione continua per sostenere lo sviluppo del cane. CCF effettua visite in loco per assicurarsi che i cani si stiano adattando al loro ruolo di tutori e per seguire le cure mediche. Gli allevatori hanno abbracciato con entusiasmo il programma e c’è una lista d’attesa per i cuccioli. La ricerca mostra che l’atteggiamento delle persone nei confronti dei predatori sta cambiando a seguito del successo del programma LGD di CCF.

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