appalti

  • Autostrade: tutto come prima di Genova

    Tutto cambia perché nulla cambi nel nostro povero Paese. Non sono bastati i 43 morti del Ponte Morandi di Genova causati dalla sostanziale sospensione di ogni investimento in sicurezza (-92% dei fondi destinati alla manutenzione) della società Autostrade per aumentare la remunerazione del capitale investito, a dimostrare una volta per tutte quanto determinate infrastrutture, espressione di monopoli indivisibili, debbano essere soggette alla gestione e al controllo della autorità nazionale esattamente come avviene in Germania ed in Svizzera.

    Alla fine degli anni novanta la scelta del governo D’Alema, confermata e rafforzata successivamente dal governo Berlusconi, aveva perlomeno la scusante di non essere in grado di prevedere il disastro del Ponte Morandi. La privatizzazione di Autostrade, infatti, rientrava nel piano di dismissioni finalizzate ad un ipotetico “efficientamento” di Sistema (questa era la tesi accademica quanto dei cosiddetti liberali da bar Sport), quando, invece, fu soprattutto la ricerca di ulteriori risorse finanziarie per diminuire il deficit, e quindi mantenere intatta la spesa pubblica, e non certo la volontà di diminuire il debito, il quale già allora rappresentava il vero problema, a determinare questa meschina volontà dei diversi Governi unita ad una volontà di offrire una possibilità di speculazione per i capitali privati.

    Tuttavia ora, pur consapevole della tragedia causata dal disastro del Ponte Morandi, risulta inaccettabile da parte del governo in carica anche il solo prendere in considerazione una nuova ed ulteriore privatizzazione della società Autostrade, in più poi dopo che il precedente governo Draghi ha regalato alla famiglia Benetton 8,3 miliardi. Questo solo pensiero rappresenta un insulto alle vittime di Genova e soprattutto conferma una complicità tra l’intero mondo della politica di destra e di sinistra ed i capitali privati speculativi.

    Inoltre, questa prospettiva di nuova privatizzazione determina anche l’onere politico di assumersi la responsabilità non solo dei morti del Ponte Morandi a Genova ma soprattutto di quelli futuri in quanto dopo la tragedia del Ponte Morandi era evidente la necessità di cambiare strategia assolutamente ignorata dal governo in carica.

    Molto spesso si parla di populismo, quando la politica e i media cercano di replicare alle critiche espresse in termini generali ad una classe politica, senza quindi nessuna distinzione tra le diverse operatività di destra e sinistra.

    La vicenda di questa nuova possibile privatizzazione dimostra come il termine “populismo” sia oltremodo riduttivo rispetto a quanto dimostrato ancora una volta dalla politica e dai governi che esprime tanto di destra che di sinistra.

  • Il Nuovo Codice degli appalti di Salvini sarà fonte di corruzione senza limiti

    In una materia delicata come l’affidamento degli appalti per le opere pubbliche, non si può accettare la superficialità di un politico come Salvini, che si definisce “uomo del fare”, che è vero ma solo limitatamente al “fare demagogia di bassa lega”.

    L’affidamento nell’assegnazione degli appalti per opere pubbliche non può essere, come sostiene Salvini, un esercizio di sola velocità nell’individuare l’impresa da incaricare, ma un processo di ricerca, ovviamente il più veloce possibile, sulle qualità dell’impresa, sull’affidabilità, sulla competenza specifica, sulla congruità ed economicità del costo, sulla sicurezza del manufatto, sulla durata nel tempo in perfetta efficienza dell’opera e, soprattutto, sull’attenzione di scongiurare l’insorgere di ogni possibile rischio di pressioni, favoritismi o imposizioni di qualsiasi natura.

    Per tali ragioni fino ad ora si è ricorso agli appalti pubblici, anche per cifre quasi insignificanti, proprio per raggiungere il più possibile la decisione migliore e legalmente corretta.

    Non si può negare che la modifica del codice degli appalti sia una richiesta europea, funzionale anche alla attuazione delle riforme per il PNRR, ma i partner europei non hanno le piaghe antiche e attuali della corruzione e della criminalità che ha l’Italia, e Salvini e i suoi estimatori hanno chiaramente esagerato, traducendo in una sostanziale cancellazione di ogni ipotesi di gara fino al tetto di 5,3 milioni di euro, e lasciato addirittura fino al tetto di 150.000 euro per i lavori, e di 140.000 euro per le forniture di servizi, la possibilità di affidamento diretto.

    Il che significa che da 140.000 euro in poi e fino a 5,3 milioni i lavori pubblici potranno essere assegnati direttamente, previo l’invito discrezionale del soggetto appaltante di 5 o 10 imprese, scelte senza pubblicare alcun avviso e senza una procedura pubblica di gara, nell’assenza di criteri predeterminati e trasparenti,  senza alcuna competizione, e quindi escludendo la maggior parte dei possibili aspiranti, ma in compenso con ampi margini di ricorso a subappalti, con subappaltanti che potranno a loro volta subappaltare.

    Insomma, un sistema di totale mancanza di trasparenza, che non garantirà né qualità, né legalità nella gestione degli appalti pubblici.

    Se questo è lo scenario di cui si auto complimenta Salvini, appare evidente non solo la legittimità, ma soprattutto la fondatezza delle preoccupazioni espresse dal Presidente dell’ANAC, Giuseppe Busia, in riferimento ai rischi da lui paventati di Sindaci tentati di erogare favori familistici e clientelari, in tutta legalità.

    Ma i difensori di questa incredibile proposta dove vivono? O semplicemente non leggono i giornali?

    Perché appare incredibile che in un Paese fortemente condizionato da corruzione e mala vita organizzata e mafiosa come l’Italia, dove le regole vengono spesso aggirate, pur con le norme vigenti che dovrebbero impedire il malaffare, assistiamo con disinvoltura e solerzia al totale smantellamento delle regole esistenti, senza alcuna rete di protezione che possa in qualche modo evitare che l’intero comparto dei lavori pubblici diventi un vero far west di girandole di assegnazioni e scambio di favori e, perché no, anche di voti.

    Questo governo in carica, così attento in ogni provvedimento adottato nella sottolineatura della propria identità politica, in questo caso sembra volere accantonare uno dei suoi caratteri più identitari come l’impegno di garantire legalità e sicurezza e contrastare ogni forma di strumentale utilizzo dei fondi pubblici a scopo politico ed elettorale, consentendo di dare la paternità ad un provvedimento che appena entrerà in vigore, darà la conferma di quanto paventato dal presidente ANAC, moltiplicato per 100.

    Perché il pericolo non è tanto e solo quello di sindaci, assessori o dirigenti comunali, provinciali regionali e statali che possono favorire amici, parenti o elettori, il vero buco nero di questo codice è che i sindaci e tutto il resto dei soggetti deputati alla assegnazione delle opere pubbliche, non avranno più alcun alibi nel negare alla criminalità organizzata e mafiosa l’assegnazione dei lavori in esclusiva alle loro imprese.

    I piccoli comuni saranno i più assediati e se fino ad oggi, potevano difendersi ricorrendo alla obbligatorietà dei bandi di gara, anche per opere di bassissimo valore, con questo colpo di scienza di Salvini non lo potranno più fare.

    E non sarà solo un problema della Sicilia, Calabria, Puglia e Campania, ma di tutte le regioni del Bel Paese e di ciascuno degli oltre 8.000 comuni italiani.

    Non ci ha pensato a questo “l’uomo del fare”? O semplicemente la questione non lo riguarda?

    Ed alla luce di questo, come si sono permessi, autorevoli esponenti della Lega, di attaccare il presidente dell’organo anti corruzione italiano che ha manifestato, tra l’altro doverosamente, preoccupazioni fondate?

    Questo comportamento da bulli di quartiere, di pretendere le dimissioni di un funzionario che fa il proprio dovere, invece di prendere atto della carenza delle proposte catastrofiche che sono state prese, la dice lunga su partiti che operano con criteri demagogici e superficiali e che, invece di aiutare il Paese, rischiano fortemente di penalizzarlo, condannandolo al perenne predominio della criminalità organizzata e mafiosa, ed alla corruzione dei politicanti faccendieri e dei colletti bianchi, che potranno esercitare i loro imbrogli nella piena legalità.

    L’impressione è che molto presto si dovrà correre ai ripari e rimediare urgentemente a questo errore imperdonabile.

  • Sbloccare il potenziale dei dati sugli appalti pubblici dell’UE

    Insieme alla sua comunicazione sui 30 anni del mercato unico, la Commissione rivela il piano per costruire uno spazio europeo di dati sugli appalti pubblici. Il piano descrive l’architettura di base, l’insieme degli strumenti di analisi da attuare entro la metà del 2023 e i dati sugli appalti pubblicati a livello europeo da rendere disponibili nel sistema per quella scadenza. Entro la fine del 2024 tutti i portali di pubblicazione nazionali aderenti dovranno essere connessi, i dati storici pubblicati a livello europeo dovranno essere integrati e l’insieme degli strumenti di analisi dovrà essere ampliato.

    Lo spazio di dati sugli appalti pubblici riunirà dati sulle gare d’appalto, dalla preparazione all’esito. Attualmente tali dati sono sparsi in formati diversi e a diversi livelli, ovvero europeo e nazionale. Lo spazio di dati fornirà un nuovo quadro di informazioni grazie a un insieme di strumenti analitici all’avanguardia, che include tecnologie basate sull’intelligenza artificiale, come l’apprendimento automatico e l’elaborazione del linguaggio naturale. Tutto ciò permetterà spese pubbliche più mirate e trasparenti, migliorerà l’accesso alle gare d’appalto per le aziende, in particolare le piccole e medie imprese, e potenzierà l’elaborazione di politiche basate sui dati. Queste tecnologie aiuteranno inoltre gli acquirenti pubblici e le imprese a migliorare le loro strategie di investimento e di offerta, e forniranno a tutte le parti interessate una maggiore trasparenza e un miglior rapporto qualità-prezzo.
    Il settore pubblico, che in tutta l’UE vale più di 2 miliardi di euro all’anno, vale a dire quasi il 13,6% del PIL dell’Unione, dovrebbe fare la sua parte nel sostenere le industrie verdi. Lo spazio di dati sugli appalti pubblici permetterà alle autorità pubbliche di condividere le migliori prassi anche per un uso più mirato dei fondi pubblici a favore delle industrie verdi.

    Come sottolineato nella relazione annuale sul mercato unico 2023, sfruttare il potenziale dei dati è essenziale per far sì che il mercato unico realizzi appieno il suo potenziale in termini di sostegno alla resilienza e alla competitività dell’economia europea.

  • Imprese critiche verso il codice degli appalti: le norme ostacolano il business

    Il Codice degli appalti che risulta di difficile applicazione e rallenta la realizzazione degli investimenti. Il decreto sblocca cantieri che qualcosa ha fatto ma non ha risolto la situazione. Il decreto Semplificazioni che ha creato una vera e propria ‘deregulation’. Ci sono queste criticità, secondo enti ed imprese, dietro l’atavico problema del rallentamento o blocco delle opere pubbliche in Italia. Ma la ministra delle infrastrutture e trasporti Paola De Micheli, pur comprendendo le difficoltà, assicura che è solo questione di “volontà politica”: che però in questi 14 mesi c’è stata e ha permesso di sbloccare 17 miliardi di cantieri.

    Una radiografia delle difficoltà del sistema dei contratti pubblici arriva da un’indagine realizzata da Conferenza delle Regioni e Province, Confindustria, Ance e Luiss, che raccoglie le risposte di 5104 stazioni appaltanti e 217 operatori economici: ne emerge un giudizio critico (che si attenua nelle generazioni più giovani) sul Codice degli appalti; voti più favorevoli sullo ‘sblocca cantieri’, anche se è molto diffusa l’idea che non abbia “risolto le principali criticità normative preesistenti”; perplessità anche sulla normativa anticorruzione. “Stiamo viaggiando al ritmo di uno sblocca cantieri l’anno” e il provvedimento semplificazioni, che “è un altro sblocca cantieri”, ha portato alla “deregulation più totale”, osserva il vicepresidente dell’Ance Edoardo Bianchi, evidenziando inoltre che il Codice degli appalti “non è la causa del blocco delle opere pubbliche, è l’ennesimo effetto” e se oggi non si parla più di riforma è “perché di fatto è stato annientato”.

    Quello che serve, dunque, secondo l’associazione dei costruttori, è avere “molte meno regole” ma “che siano durature”. Chiede un “apparato normativo più semplice e stabile” anche il delegato del presidente di Confindustria Stefan Pan. E anche il presidente dell’Autorità anticorruzione Giuseppe Busia osserva come “avere a che fare con continue modifiche normative non facilita il lavoro delle stazioni appaltanti”: “Sarebbe più opportuno – aggiunge – cercare di stabilizzare il sistema perché anche sulla stabilizzazione normativa del sistema si può costruire una programmazione”.

    Non è invece questo il punto per la ministra De Micheli, che riconosce “il problema delle firme, delle autorizzazioni e della burocrazia, altrimenti – osserva – non saremmo arrivati a fare il decreto semplificazioni, ma per me, per i miei primi 17 miliardi di Cantieri e Rfi e per i prossimi 20 mld che abbiamo in cantiere per il 2021”, la vera questione è “decidere di fare le opere ed essere conseguenti quando si aprono i cantieri”. L’altra causa del rallentamento, accanto alla decisione politica, è “la modalità di programmazione finanziaria”. Su questo la ministra tornerà a chiedere per la terza volta al governo di modificare la modalità con cui si definiscono i contratti di programma delle due grandi stazioni appaltanti nazionali, Rfi e Anas, che restano in attesa di ok anche per tre anni.

  • Appalti, qualche miglioramento alla nuova disciplina è stato apportato

    La normativa sugli appalti e subappalti è stata profondamente incisa dal DL 124 del 2019 che ha modificato le modalità di versamento delle ritenute e dei contributi sui redditi da lavoro dipendente. Come ricorderete, avevamo scritto, a ridosso della pubblicazione del decreto, evidenziando criticità e discriminazioni insite nella nuova norma e auspicando interventi legislativi risolutori.

    In effetti, qualche miglioramento nella versione definitiva è stato apportato, anche se siamo lontani dai canoni di semplicità e snellimento burocratico che servirebbero a far ripartire il sistema economico del nostro Paese.

    Veniamo alla normativa in vigore dal 1° gennaio 2020. L’art 17 bis del Dlgs 241 del 1997, introdotto dal citato DL 124, ha previsto l’obbligo, a determinate condizioni che vedremo, per le imprese appaltatrici e subappaltatrici, di versare le ritenute operate sui redditi da lavoro dipendente e assimilati e i relativi contributi, escludendo la possibilità di compensarle con eventuali posizioni creditorie, in deroga alle regole comuni.

    Dall’altro lato, al committente è stata attribuita una funzione di controllo sul corretto operato dell’impresa appaltatrice, dovendo verificare la corrispondenza dei conteggi dei modelli F24 con l’elenco dei lavoratori impiegati presso di sé, il dettaglio delle ore lavorate, la retribuzione corrisposta e le ritenute operate. In caso di discrepanze il committente dovrà sospendere il pagamento dei corrispettivi fino alla concorrenza del 20% del valore dell’opera, o fino al minor importo non versato, e dovrà effettuare un’apposita segnalazione all’agenzia delle entrate entro 90 giorni.

    L’art.17 bis del citato Dlgs si applica ai committenti che affidano l’esecuzione di una o più opere o servizi ad un’impresa appaltatrice per un importo complessivo annuo superiore a duecentomila euro.

    Vengono presi in considerazione tutti i contratti di appalto o subappalto, comunque denominati, caratterizzati dal prevalente utilizzo di manodopera presso le sedi di attività del Committente con impiego di beni strumentali di proprietà di quest’ultimo o ad esso riconducibili.

    La normativa in questione potrà essere disapplicata purché l’impresa appaltatrice, nell’ultimo giorno del mese precedente a quello della scadenza del versamento, soddisfi i seguenti requisiti:

    1)            sia in attività da almeno tre anni, sia in regola con gli obblighi dichiarativi e abbia eseguito nel corso dell’ultimo triennio versamenti complessivi nel conto fiscale per un importo non inferiore al 10% dell’ammontare dei propri ricavi;

    2)            Non abbia iscrizioni a ruolo o accertamenti esecutivi o avvisi di addebito (per imposte sui redditi, IRAP, ritenute e contributi previdenziali) per importi superiori a cinquantamila euro.

    La sussistenza di detti requisiti dovrà risultare da un idoneo certificato rilasciato dall’Agenzia delle Entrate con validità di quattro mesi. Da questo punto di vista, pertanto, rimangono inalterati i possibili effetti discriminatori nei confronti delle imprese neo costituite già rilevati a ridosso dell’emanazione del decreto legge.

    I miglioramenti apportati sono veramente limitati, rispetto alla versione originaria della norma che aveva suscitato sgomento negli addetti ai lavori, e si riducono, in realtà, nell’aver eliminato l’inversione dell’onere di versare le somme delle ritenute operate che era stato inizialmente traslato in capo al committente.

    In effetti, resta, in primis, l’impossibilità di versare le ritenute compensando eventuali posizioni creditorie, con evidenti ricadute negative per la gestione finanziaria delle imprese, già fortemente compromessa dal lungo periodo di credit crunch a cui sono state sottoposte da parte degli istituti bancari. Si complica, inoltre, la gestione delle ritenute e dei relativi versamenti che dovranno essere fatti in maniera distinta per la parte attribuita a ciascun committente al fine di consentire i controlli di cui abbiamo detto.

    Qualche difficoltà, non da poco, potrebbe derivare dal fatto che il limite di duecentomila euro annui si riferisce a tutti i contratti stipulati e, quindi, potrebbe generare l’obbligo di rispettare la normativa in questione in maniera retroattiva con evidenti criticità. Si pensi al caso di due imprese legate da rapporti di appalto che stipulano vari contratti in corso d’anno e solo con la sottoscrizione dell’ultimo superano detto limite: ebbene la normativa si applica a tutti i contratti stipulati e non solamente all’ultimo. Questa almeno la chiave di lettura proposta dall’Agenzia delle Entrate in occasione del forum di Italia Oggi. Gli evidenti problemi legati alla possibile retroattività potrebbero essere risolti facendo decorrere la normativa solo dal momento successivo al superamento del limite e, ovviamente, ai contratti ancora in essere.

    Un altro aspetto problematico è legato al luogo di svolgimento del contratto: la norma parla di quelli caratterizzati dal prevalente utilizzo di manodopera presso le sedi di attività del Committente. A tale proposito come verranno identificati i cantieri esterni? L’applicazione letterale sembrerebbe escluderli (almeno se di durata minima), anche se, probabilmente, la ratio posta a base della norma porterebbe a ricomprenderli.

    Non si dimentichi, infine, che la novella fa riferimento all’uso di beni strumentali del committente, indipendentemente dal valore degli stessi. Se ne dovrebbe desumere che, un contratto di appalto a prevalente uso di manodopera svolto presso la sede del committente ma utilizzando beni strumentali, ancorché di modico valore, di proprietà dell’appaltatrice sia escluso dalla disciplina. A tal proposito si immagini l’impresa di pulizia che svolge il servizio presso il committente utilizzando scope e ramazze proprie: siamo certi che l’esclusione sarebbe legittima e genuina nonché sposi le motivazioni che hanno indotto il legislatore al varo della nuova disciplina?

    Come anticipato, quindi, la complessità della legge è evidente e non adeguata alle esigenze di semplificazione del sistema da più parti auspicate e necessita, senza dubbio, di ulteriori chiarimenti ufficiali che sarebbe opportuno arrivassero prima della metà di febbraio, quando scadrà il termine per il versamento delle ritenute operate nel mese di gennaio.

  • Gli appalti si complicano, parola d’ordine semplificare

    L’Italia muore di burocrazia, questo il risultato che trova conferma anche nella ricerca della CGIA pubblicata a gennaio 2019, su dati della Commissione europea riferiti al 2017.

    Peggio di noi, in Europa, solo la Grecia e questo, visti i trascorsi , dovrebbe allarmare più che mai.

    Il coordinatore dell’Ufficio Studi Paolo Zabeo, in un’intervista pubblicata da ADNKRONOS il 12 gennaio 2019, segnalava come “il livello medio complessivo sia preoccupante. L’incomunicabilità, la mancanza di trasparenza, l’incertezza giuridica e gli adempimenti troppo onerosi hanno generato una profonda incrinatura, soprattutto nei rapporti tra le imprese e i pubblici uffici, che ha provocato l’allontanamento di molti operatori stranieri che, purtroppo, non vogliono più investire in Italia anche per l’eccessiva ridondanza del nostro sistema burocratico”.

    Le aziende e i professionisti che le assistono devono confrontarsi quotidianamente con adempimenti vari, comunicazione di dati, procedure in deroga e chi più ne ha più ne metta. Reverse charge, split payment sono ormai termini di uso comune, non solo per gli addetti ai lavori, che identificano situazioni in cui gli adempimenti sono traslati a carico di soggetti cui, in realtà non competerebbero. Questo sacrificio viene richiesto, ancora una volta, per arginare frodi in ambito iva o, comunque, cercare di ridurre il “vat gap” che ci vede primeggiare in Europa.

    Analoghi modus operandi sono stati adottati, già in passato, nel campo delle ritenute fiscali e previdenziali per limitare il fenomeno dei mancati versamenti.

    Ricordo che la ratio di effettuare le ritenute (previdenziali o fiscali) e rimettere il relativo versamento in capo al committente si basa sull’assunto del contrasto di interessi per cui, sottraendo l’adempimento alla “discrezionalità” del soggetto inciso si avrebbe maggior certezza che lo stesso venga effettuato correttamente.

    Apparentemente nemmeno questo meccanismo è ormai sufficiente in Italia per cui siamo costretti ad andare ancora a monte. Tant’è che il Dl 124/2019, all’art. 4, trasferisce in capo al committente (purché sostitutivo di imposta e residente in Italia), l’obbligo di versare le ritenute sui redditi di lavoro dipendente e assimilati operate dall’impresa appaltatrice, affidataria o subappaltatrice.

    E’ chiaro che il traslare questo tipo di adempimenti comporta un maggior aggravio burocratico in un sistema che invece dovrebbe essere notevolmente semplificato per riacquistare appeal e efficienza. L’adempimento è, tra l’altro, oltremodo macchinoso comportando che l’impresa appaltatrice fornisca al committente l’elenco nominativo dei soggetti con le relative ritenute operate, dimenticando che un medesimo lavoratore potrebbe aver lavorato presso più committenti con difficoltà quindi di ripartire e riattribuire l’onere sugli stessi.

    La novella prevede ancora che l’appaltatrice fornisca al committente la provvista in denari per effettuare il versamento, privando pertanto il contribuente di effettuare il versamento in compensazione con eventuali crediti tributari dallo stesso vantati.

    Unico modo, ad oggi, per sottrarsi all’inversione del soggetto incaricato ad effettuare il versamento delle ritenute è quello di operare con società appaltatrici che siano in esercizio da almeno cinque anni ovvero abbia eseguito nei due anni precedenti versamenti complessivi registrati nel conto fiscale per un importo superiore a 2 milioni di euro nonché non abbiano pendenze con l’amministrazione finanziaria per importi superiori a cinquantamila euro.

    Emerge chiaramente come una simile condizione falsi la concorrenza penalizzando aziende di recente costituzione che, non solo verranno discriminate dai committenti che preferiranno evitare tutta la complessità burocratica descritta, ma anche laddove riuscissero a lavorare, non potranno usufruire legittimamente della compensazione di eventuali crediti vantati.

    Le intenzioni di fondo del legislatore saranno pur legittime e condivisibili, ma forse andrebbero perseguite con modalità differenti, senza aggravi burocratici e senza discriminazioni.

    Mi interrogo, infine, sulla tenuta del sistema e sui suoi fondamentali posto che servono continue deroghe. Deroghe che spesso e volentieri complicano la vita dei cittadini, ingenerano incertezza e accrescono il rischio di essere sanzionati. Tutto questo in un apparato che è già di per sé farraginoso e complicato e, come anticipato in premessa, andrebbe semplificato e non burocratizzato.

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