Asia

  • La Ferrari raddoppia le vendite di auto a Taiwan

    Le vendite del marchio automobilistico Ferrari a Taiwan sono raddoppiate negli ultimi quattro anni, sostenute dalla crescente ricchezza delle imprese di chip e semiconduttori e dal ritorno di capitale dovuto alla diversificazione delle catene di approvvigionamento.

    L’amministratore delegato di Ferrari, Benedetto Vigna, ha affermato che la domanda a Taiwan sta crescendo più rapidamente che in Cina o Hong Kong a causa di un forte aumento delle vendite di vetture ai cittadini sempre più ricchi di Taiwan. “La Cina cresce ma meno di Taiwan”, ha dichiarato Vigna al quotidiano “Financial Times”, aggiungendo: “A Taiwan ci sono più imprenditori e l’industria dei chip è in forte espansione”.

    Il mese scorso Ferrari ha registrato guadagni annuali record. E sebbene la maggior parte dei suoi guadagni provenga dall’Europa e dagli Stati Uniti, la casa automobilistica ha riferito che le spedizioni verso la Cina continentale e Taiwan sono aumentate dal 5% del totale nel 2020 a quasi l’11% nel 2023. Ferrari sta sfruttando un’impennata della ricchezza privata che ha reso Taiwan al quinto posto nel mondo, in parte grazie anche alla forte espansione del settore dei semiconduttori.

  • L’Asean per una politica multilaterale

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi apparso su ‘Notiziegeopolitiche.net’ il 4 novembre 2023

    Nonostante i conflitti in atto e il rischio di guerra, qualcosa di positivo si muove nel mondo. Non ci sono solo i Brics che operano per una riorganizzazione economica e politica del pianeta in senso multilaterale. Nei giorni precedenti il vertice di settembre del G20 di Nuova Delhi, l’Associazione delle nazioni del Sud-Est asiatico (Asean) ha tenuto il suo summit annuale a Jakarta, in Indonesia, proprio sul tema del multilateralismo. Ancora una volta, purtroppo, l’Europa ha pressoché ignorato l’evento, forse considerato “esotico”.
    L’Asean è un’organizzazione intergovernativa regionale fondata nel 1967. Dopo l’Ue, l’Asean è considerata uno dei modelli di cooperazione regionale di maggior successo al mondo. Con i suoi dieci membri, Brunei, Cambogia, Filippine, Indonesia, Laos, Malaysia, Myanmar, Singapore, Thailandia e Vietnam, essa rappresenta 664 milioni di persone, l’8% della popolazione mondiale e il 3,5% del PIL globale (3.300 miliardi di dollari). Nel 2007 si è data una Carta valoriale e programmatica, con la creazione di organismi operativi come il Segretariato generale. Si propone di realizzare un’unione regionale politica e di sicurezza con l’eliminazione delle barriere doganali per una completa integrazione economica regionale.
    Mantenendo relazioni importanti con i suoi partner chiave come Cina, India, Stati Uniti e Russia, essa si pone come organismo di incontro e di moderazione. L’Asean teme gli eventuali conflitti nei punti caldi della regione: il Mar Cinese Meridionale, il Mar Cinese Orientale, la Penisola Coreana e la questione di Taiwan.
    Infatti, negli ultimi tempi la principale preoccupazione è stata l’acuirsi della contesa strategica tra Stati Uniti e Cina. L’Asean intende, perciò, far crescere il suo peso economico e la sua collaborazione interna proprio per accrescere anche il suo ruolo politico di bilanciamento. Proprio in quest’ottica il tema principale del vertice è stato “L’Asean: epicentro della crescita”.
    Nella dichiarazione finale del citato incontro si afferma di voler diventare “il centro e il motore della crescita economica nella regione e oltre”. Con un tasso di crescita più rapido rispetto a quello attuale, intende rafforzare la resilienza del gruppo in tutte le aree identificate: salute, clima, sistemi alimentari ed energetici, catene di approvvigionamento e stabilità macroeconomica e finanziaria. La sicurezza alimentare è stata posta al centro del vertice. Davvero interessante tale scelta.
    Il summit di Giacarta ha incluso anche il 18° vertice onnicomprensivo dei paesi dell’Asia orientale (Eas), che riunisce l’Asean e i suoi otto principali partner (India, Australia, Nuova Zelanda, Cina, Giappone, Corea del Sud, Russia e Stati Uniti), in cui le rivalità e le tensioni della regione sono state messe a fuoco.
    Joko Widodo, presidente dell’Indonesia e dell’Eas, ha avvertito che “se non saremo in grado di gestire le differenze, saremo distrutti”. E ha aggiunto: “Se ci uniamo alle correnti della rivalità, saremo distrutti”. Secondo noi, sarebbe un messaggio da recepire anche in Europa.
    Il documento finale dell’Eas afferma di voler promuovere il dialogo e la soluzione pacifica di eventuali conflitti, riconoscendo il ruolo centrale di mediazione dell’Asean. Ci s’impegna anche a “promuovere un multilateralismo basato sulla legge internazionale e sui principi delle Nazioni Unite, compreso il rafforzamento dell’architettura multilaterale regionale”. L’Eas s’impegna anche a sostenere la cosiddetta “Chiang Mai Initiative Multeralization, come rete finanziaria regionale”.

    L’iniziativa di Chiang Mai fu la risposta alla crisi finanziaria dei paesi asiatici del 1997 e consisteva in un coordinamento tra le banche centrali contro le speculazioni. Fu rafforzata dopo la crisi finanziaria globale del 2008. Oltre all’Asean, oggi vi fanno parte anche Cina, Giappone e Corea del Sud.
    Nonostante fosse impegnato nell’organizzazione del G20 in programma a Nuova Delhi pochi giorni dopo, il primo ministro indiano Narendra Modi ha colto l’occasione del summit per andare a Giacarta e presenziare il 20° vertice Asean-India. L’India ha presentato delle proposte per rafforzare la cooperazione in tutti i settori, compresi quello marittimo e della sicurezza alimentare. Modi ha così sintetizzato il suo messaggio: “Il 21° secolo è il secolo dell’Asia”.
    Sul fronte monetario anche l’Asean si muove da parecchio tempo per sottrarsi al dominio del dollaro. Mentre si teneva il summit, il governo dell’Indonesia, l’economia più forte del gruppo, annunciava una task force nazionale, formata da diversi ministri e dalla banca centrale, per la de-dollarizzazione e l’utilizzo delle monete nazionali con i propri partner commerciali. La decisione seguiva il sostegno dichiarato nell’agosto precedente dai ministri dell’economia e dai governatori delle banche centrali dell’Asean per l’utilizzo delle monete locali nelle transazioni dell’intera regione.

    *già deputato e sottosegretario all’Economia; **economista

  • Asia meridionale, grave crisi

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi apparso su ‘ItaliaOggi’ il 24 giugno 2023

    Quasi tutti i paesi vicini all’India (Pakistan, Sri Lanka, Bangladesh e Nepal) stanno affrontando problemi delle loro bilance dei pagamenti. Il Bangladesh fatica a pagare le sue importazioni di carburante, a causa della carenza di dollari Usa. Lo Sri Lanka è già venuto meno ai suoi impegni internazionali e il Pakistan è sull’orlo dell’inadempienza. Oltre allo shock dei prezzi delle materie prime, causato solo in parte dalla guerra in Ucraina, il vero fattore scatenante è dovuto alle politiche sui tassi di cambio, sia a seguito delle decisioni monetarie della Federal Reserve, sia per quelle prese dai paesi in questione. Com’è noto, un aumento dei tassi d’interesse in Usa ha come effetto la svalutazione delle monete dei paesi emergenti e induce alla fuga dei capitali.

    I tassi di cambio della rupia pakistana, della rupia dello Sri Lanka (Slr) e del taka bengalese sono stati mantenuti a lungo fissi rispetto al dollaro. Tutti e tre i paesi importano carburante, cibo e fertilizzanti e, resistendo alla svalutazione e mantenendo un tasso di cambio “forte”, hanno tenuto bassi anche i prezzi delle merci importate. Contemporaneamente, però, un tasso di cambio artificialmente forte rende le esportazioni non competitive e non è sostenibile nel tempo.

    Questi paesi hanno un’altra esportazione: il lavoro umano. L’Asia meridionale (inclusa l’India) è una delle principali fonti di migrazione di manodopera (circa 43 dei 164 milioni di migranti a livello globale) e, di conseguenza, destinataria di rimesse. E’ una questione che interessa anche l’Italia, poiché circa 800 mila lavoratori immigrati provengono da queste regioni. La Banca Mondiale stima che nel 2023 il 20% degli 815 miliardi di dollari di rimesse globali proverrà da cittadini asiatici (Cina esclusa) che lavorano all’estero. Si rileva che nel 2021 le rimesse, pari a 157 miliardi di dollari, erano tre volte gli investimenti esteri diretti in quella regione asiatica.

    Le rimesse in entrata hanno permesso ai paesi dell’Asia meridionale di mantenere tassi di cambio “forti”, contro le realtà del mercato. Di fatto essi hanno due tassi di cambio: uno “ufficiale” e uno “di mercato” che riflette la svalutazione. I lavoratori che inviano denaro tramite canali bancari devono utilizzare il tasso ufficiale. Quando la divergenza tra i due tassi diventa troppo ampia, com’è accaduto negli ultimi due anni, le rimesse iniziano a diminuire. Un divario ampio e prolungato tra il tasso di cambio ufficiale e quello di mercato porta all’uso di altri canali informali per il trasferimento di soldi da parte dei lavoratori.

    Il caso dello Sri Lanka è emblematico. Nella seconda metà del 2021 le rimesse in entrata sono state di 2,1 miliardi di dollari, in calo di quasi il 50% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Lo Sri Lanka ha un’emigrazione di oltre 1 milione di lavoratori, molti dei quali hanno smesso di utilizzare i canali ufficiali, rendendo il default più probabile. All’inizio del 2022, il tasso di cambio ufficiale era di circa 200 Slr per un dollaro, mentre il tasso di mercato era superiore di oltre il 20%. Alla fine, dopo il default, ci vogliono 360 rupie per un dollaro.

    La rupia pakistana, che è scesa di oltre il 40% rispetto al dollaro Usa nel 2022, è ancora scambiata sul mercato aperto con uno sconto rilevante rispetto al tasso di cambio ufficiale. Per preservare le sue magre riserve valutarie, il Pakistan ha ridotto le importazioni, costringendo alcune industrie a chiudere con un danno per la sua economia. Le esportazioni pakistane sono diminuite del 19% durante il trimestre gennaio-marzo 2023. Anche le rimesse in entrata verso il Pakistan hanno subito un duro colpo. Durante i primi 10 mesi dell’anno scorso, le rimesse sono diminuite del 13%. Le riserve valutarie sono al lumicino e il default è ormai una questione di tempo.

    Il Bangladesh ha intrapreso un’azione correttiva poiché le sue riserve monetarie hanno iniziato a precipitare già nel 2022, ma erano ancora a un livello decente di 35 miliardi di dollari. Ha contrattato con il Fmi un pacchetto di salvataggio recentemente approvato. Il Bangladesh ha dovuto svalutare la sua valuta di quasi il 25%. Uno dei fattori che ha spinto il governo ad agire è stato proprio il calo delle rimesse del 16%.

    In tutti questi casi, i governi sono stati in grado di mantenere un tasso di cambio artificialmente forte grazie ai flussi di denaro provenienti dai milioni di lavoratori emigrati. Questa politica è insostenibile a lungo termine. Anche l’India è uno dei principali destinatari delle rimesse – 89 miliardi di dollari l’anno – ma si tratta di una frazione rispetto al totale delle sue esportazioni. L’India ha abbandonato i tassi di cambio fissi nel 1992 e ha permesso alla sua valuta di trovare il suo equilibrio. Per i suoi vicini dell’Asia meridionale è molto più difficile e sono di fronte a tumulti monetari e a nuove svalutazioni. E’ una ragione di più per accelerare un assetto mondiale multilaterale più giusto anche dal punto di vista economico e sociale.

    *già sottosegretario all’Economia **economista

  • L’India è la nuova superpotenza

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimomdi apparso su ‘ItaliaOggi’ il 18 aprile 2023

    L’India sta preparando la sua moneta, la rupia, a giocare un ruolo sui mercati internazionali simile a quello dello yuan. Pur essendo parte importante nel gruppo dei Paesi Brics, l’India non vede di buon occhio l’espansione cinese in Asia e non intende essere trainata dall’attivismo di Pechino.

    La riflessione indiana parte dall’energia, come riportato anche da un documento dell’Istituto Gateway House di Mumbai. Si afferma nello scenario energetico globale cambiato negli ultimi due decenni, l’unica costante è stata il dollaro Usa come valuta usata nel commercio di energia. Ultimamente lo yuan cinese è emerso per sfidare il dollaro. Nuova Delhi adesso si chiede se la rupia possa essere un terzo giocatore. Una petro rupia?

    Com’è noto, l’India è il terzo consumatore mondiale e il secondo importatore di energia. Gli indiani lamentano che il commercio mondiale di petrolio e di gas si svolga quasi interamente in dollari sulle borse occidentali e con prezzi che non rappresentano la domanda reale. Una serie di fattori politici, economici e finanziari, stanno creando un nuovo equilibrio. Uno di questi è il cambiamento nella bilancia del commercio energetico. Mentre negli Usa, in Europa e in Giappone il consumo di petrolio sta diminuendo o si sta stabilizzando, in India, con la sua economia in crescita, il consumo energetico aumenta. Si prevede, infatti, che il fabbisogno passerà dagli attuali 4 milioni di barili al giorno ai 10 milioni entro il 2040.

    Viene anche fatto notare che i due benchmark petroliferi globali, il Wti e il Brent, sono datati e che spesso sono anche manipolati. Oggi i due maggiori importatori, Cina e India, fanno riferimento a produttori e mercati totalmente diversi. È implicito che il nuovo orientamento vada a intaccare antiche posizioni di privilegio occidentale o, per meglio dire, del vecchio colonialismo.

    L’India sostiene che la crisi del 2008 ha messo in discussione il ruolo del dollaro come moneta unica globale e che la sua instabilità avrebbe fatto raddoppiare il debito degli Usa, inducendo Washington a una ritirata dai processi di globalizzazione. Si rileva che le sanzioni unilaterali e motivate geopoliticamente avrebbero suscitato forti risentimenti nei confronti del potere americano. Secondo lo studio succitato, il processo dell’Ue e dell’euro, che si sarebbe accontentato di controllare il 20% degli scambi monetari e commerciali e delle riserve mondiali, si è fermato.

    New Delhi è consapevole che sui due mercati principali, quello di New York e quello di Londra, la stragrande maggioranza delle operazioni finanziarie, future e altri derivati riguardanti l’energia, è di carattere puramente speculativo. I contratti future sono almeno 10 volte il volume del petrolio realmente trattato. Secondo gli esperti indiani anche sul mercato di Shanghai, creato nel 2018, dominerebbe incontrastata la speculazione finanziaria. Inoltre,

    Nuova Delhi vede che la Cina, attraverso l’Asian infrastructure development bank e la Belt and road iniziative, la nuova Via della seta, starebbe penetrando in molti Paesi dell’Asia, nell’Oceano Indiano e in altri continenti. Con lo yuan vorrebbe anche influenzare l’architettura finanziaria globale. Da qui nasce l’azione per l’internazionalizzazione della rupia attraverso la creazione di un hub per un nuovo mercato internazionale del petrolio e del gas, eventualmente collegato alle borse di Mumbai. Così il governo indiano potrebbe far sentire il suo peso sulla formazione dei prezzi dell’energia.

    La Reserve Bank of India ha autorizzato alcune banche indiane a operare in rupie in 60 contratti commerciali che coinvolgono 18 Stati, tra cui la Gran Bretagna e la Germania. Con la Malesia detto meccanismo è già a uno stadio più avanzato. Al prossimo summit del G20 di Nuova Delhi saranno annunciati nuovi passi verso l’internazionalizzazione della rupia.

    L’Europa non può essere indifferente ai mutamenti nello scenario globale e dovrebbe relazionarsi meglio anche con la nuova emergente superpotenza. Guai, però, a pensare di giocare l’India contro la Cina: sarebbe la solita politica miope e perdente.

    *già sottosegretario all’Economia **economista

  • Fed, tassi ed i Paesi emergenti

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi apparso su ItaliaOggi il 4 marzo 2023

    Il continuo aumento dei tassi d’interesse da parte della Fed, seguito a ruota dalla Bce, sta avendo conseguenze catastrofiche soprattutto nei Paesi in via di sviluppo. Ciò ha spinto i capitali a lasciare questi Paesi e ha deprezzato le loro valute rispetto al dollaro. Ovvia conseguenza è l’aumento dei prezzi delle commodity, del costo delle importazioni, anche dei beni di sussistenza. Inoltre, l’enorme crescita del costo del debito li ha resi incapaci di far fronte al pagamento degli interessi.

    Si aggiunge una specifica situazione della Cina. Oltre agli effetti economici della pandemia, le sanzioni imposte a Pechino non colpiscono solo la Cina ma anche quei Paesi connessi alla sua «catena di approvvigionamenti». Le merci cinesi che vanno nel resto del mondo non sono prodotte esclusivamente in Cina, ma soprattutto nei Paesi dell’Asia e dell’Africa che fanno parte della sua filiera produttiva.

    Il «World economic outlook» di gennaio 2023 del Fmi stima che il 15% dei Paesi a basso reddito sia in difficoltà debitoria, un altro 45% sia ad alto rischio di sofferenza e il 25% delle economie dei mercati emergenti sia anch’esso ad alto rischio.

    L’ultimo rapporto della Banca Mondiale rileva che alla fine del 2024 il pil dei Paesi emergenti e di quelli in via di sviluppo resterebbe del 6% sotto di quello registrato prima della pandemia. Per loro si prevedono un lungo periodo di debiti crescenti e pochi investimenti. I capitali, infatti, saranno assorbiti dalle economie avanzate a loro volta colpite da tassi e debiti alti. Per 37 Paesi poveri la situazione sarà molto peggiore. Nell’Africa sub–sahariana si stima un aumento del tasso di povertà assoluta nel biennio 2023-4.

    Il vero problema, soprattutto per noi occidentali, è che si prendono iniziative prettamente geopolitiche legate alla sicurezza e alla forza militare, spesso senza valutarne le conseguenze economiche e sociali in altre parti del mondo. Gli effetti impattano i Paesi geograficamente lontani ma poi si riverberano in casa nostra. Di solito, quando i governi sono costretti a ridurre i bilanci, tagliano le spese sociali. Ciò porta all’instabilità politica e a rivolte popolari.

    Globalmente siamo di fronte a delle situazioni peggiori di quanto sperimentato, a cavallo del primo decennio di questo secolo, quando la speculazione sui beni alimentari ha mischiato l’inflazione con le cosiddette «primavere arabe».

    Il Libano, ad esempio, sta affrontando ciò che la Banca mondiale ha descritto come «tra le crisi più gravi a livello globale dalla metà del diciannovesimo secolo». Dal 2019 la moneta ha perso il 98% del suo valore. In Iraq, le proteste sono scoppiate a Baghdad per il crollo del dinaro, la valuta irachena. In Egitto, il valore della sterlina egiziana in un anno si è dimezzato mentre i prezzi sono aumentati.

    L’anno scorso lo Sri Lanka, nel mezzo di rivolte sociali, è stato inadempiente per la prima volta nella sua storia. Oggi le autorità hanno aumentato il prezzo dell’elettricità del 66% nel tentativo di ottenere un salvataggio dal Fmi. Il Pakistan sta affrontando la sua peggiore crisi economica, con mancanze di gas, interruzioni di corrente, aumenti dei prezzi. In Argentina, l’inflazione ha raggiunto, di nuovo, quasi il 100% su base annua.

    Alti tassi e inflazione sono un mix esplosivo. Il caso dell’Argentina è emblematico, dove il tasso della banca centrale è salito dal 35% di un anno fa al 75% di oggi. Allora la pensione media era di 450 dollari al mese, oggi è di 150.

    L’aumento del tasso d’interesse della Fed ha spinto anche quello della banca centrale del Brasile dal 10,7% di un anno fa al 13,75% di oggi. In Messico, il tasso d’interesse è quasi raddoppiato, passando dal 6% all’11,25%. Il tasso d’interesse della Nigeria è aumentato dall’11,5% al 17,5%, l’inflazione è del 22%.

    Il mondo sta pagando un altissimo prezzo. Le cause, secondo noi, sono l’acquiescenza della Fed di fronte a una finanza aggressiva, i suoi errori di valutazione e i suoi mancati interventi.

    Non è un caso che, come per la cecità dimostrata alla vigilia della grande crisi finanziaria del 2008, oggi, fino all’ultimo minuto, la Fed ha continuato a ripetere che l’inflazione era «transitoria». Tutto è transitorio, ma il problema è la durata della transizione e le sue conseguenze.

    In Europa non c’è da stare tranquilli. La Bce ha sempre dimostrato la sua «straordinaria indipendenza», ma ripetendo qualche mese dopo gli stessi errori della Fed.

    *già sottosegretario all’Economia **economista

  • Opium production in Myanmar surges to nine-year high

    The production of opium increased sharply in Myanmar, rising to a nine-year high, according to the UN.

    It touched nearly 795 metric tonnes in 2022, nearly double the production in 2021 – 423 metric tonnes – the year of the military coup.

    The UN believes this is driven by economic hardship and insecurity, along with higher global prices for the opium resin that is used to make heroin.

    The coup plunged much of Myanmar into a bloody civil war that still continues.

    “Economic, security and governance disruptions that followed the military takeover of February 2021 have converged, and farmers in remote, often conflict-prone areas in northern Shan and border states, have had little option but to move back to opium,” said Jeremy Douglas, the regional representative for the UN Office on Drugs and Crime (UNODC).

    The region, where the borders of Myanmar, Thailand, and Laos meet – the so-called Golden Triangle – has historically been a major source of opium and heroin production.

    The UN report released on Thursday said Myanmar’s economy was confronted by external and domestic shocks in 2022 – such as the Russia-Ukraine war, continued political instability and soaring inflation – which provide “strong incentives” for farmers to take up or expand opium poppy cultivation.

    Myanmar is the world’s second-largest producer of opium, after Afghanistan. The two countries are the source of most of the heroin sold around the world. Myanmar’s opium economy is valued at up to $2bn (£1.6bn), based on UN estimates, while the regional heroin trade is valued at approximately $10bn.

    But over the past decade crop substitution projects and improving economic opportunities in Myanmar have led to a steady fall in cultivation of the opium poppy.

    The annual opium survey conducted by the UN, however, shows that production in Myanmar has risen again. Opium production in 2022 has been the highest since 2013, when the figure stood at 870 metric tonnes.

    Since the coup the UN has also monitored even larger increases in synthetic drug production. In recent years, this has supplanted opium as the source of funding for armed groups operating in the war-torn border areas of Myanmar.

    However, opium requires a lot more labour than synthetic drugs, making it an attractive cash crop in a country where the post-coup economic crisis has dried up many alternative sources of employment.

    Opium farmers’ earnings grew last year to $280/kg, a sign of the attractiveness of opium as a crop and commodity, as well as strong demand. It is a key source of many narcotics, such as heroin, morphine and codeine.

    Opium poppy cultivation areas in 2022 rose by a third to 40,100 hectares, according to the report, which also pointed to increasingly sophisticated farming practices. Average opium yields have also risen to the highest value since the UNODC started tracking the metric in 2002.

    Mr Douglas said Myanmar’s neighbours should assess and address the situation: “They will need to consider some difficult options.”

    He added that these solutions should account for the challenges people in traditional opium-cultivating areas face, including isolation and conflict.

    “At the end of the day, opium cultivation is really about economics, and it cannot be resolved by destroying crops which only escalates vulnerabilities,” said Benedikt Hofmann, UNODC’s country manager for Myanmar.

    He added: “Without alternatives and economic stability, it is likely that opium cultivation and production will continue to expand.”

    According to an earlier UNODC report, prices for opium soared in Afghanistan last spring after the ruling Taliban announced a ban on cultivation.

  • India-China dispute: The border row explained in 400 words

    Relations between India and China have been worsening. The two world powers are facing off against each other along their disputed border in the Himalayan region.

    Here’s what you need to know in 400 words.

    What’s the source of tension?

    The root cause is an ill-defined, 3,440km (2,100-mile)-long disputed border.

    Rivers, lakes and snowcaps along the frontier mean the line can shift, bringing soldiers face to face at many points, sparking a confrontation.

    The two nations are also competing to build infrastructure along the border, which is also known as the Line of Actual Control. India’s construction of a new road to a high-altitude air base is seen as one of the main triggers for a deadly 2020 clash with Chinese troops.

    Relations between India and China have been worsening. The two world powers are facing off against each other along their disputed border in the Himalayan region.

    Here’s what you need to know in 400 words.

    What’s the source of tension?

    The root cause is an ill-defined, 3,440km (2,100-mile)-long disputed border.

    Rivers, lakes and snowcaps along the frontier mean the line can shift, bringing soldiers face to face at many points, sparking a confrontation.

    The two nations are also competing to build infrastructure along the border, which is also known as the Line of Actual Control. India’s construction of a new road to a high-altitude air base is seen as one of the main triggers for a deadly 2020 clash with Chinese troops.

    In September 2021, China accused India of firing shots at its troops. India accused China of firing into the air.

    If true, it would be the first time in 45 years that shots were fired at the border. A 1996 agreement prohibited the use of guns and explosives near the border.

    The same month, both countries agreed to disengage from a disputed western Himalayan border area.

    What’s the bigger picture?

    The two countries have fought only one war, in 1962, when India suffered a humiliating defeat.

    But simmering tensions involve the risk of escalation – and that can be devastating given both sides are established nuclear powers. There would also be economic fallout as China is one of India’s biggest trading partners.

    The military stand-off is mirrored by growing political tension, which has strained ties between Indian Prime Minister Narendra Modi and Chinese President Xi Jinping.

    Observers say talks are the only way forward because both countries have much to lose.

  • The COVID-19 situation across Eurasia is getting worse

    The COVID infection rate in Moscow is still growing and is also starting to rise in St Petersburg as well as in the Moscow region, Chris Weafer, the founding partner of Macro-Advisory in Moscow, wrote in a note to investors on June 29, adding that deaths are at a record level and extra hospitals have been opened.

    According to Weafer, the continued high infection rate has led to new restrictions in the Russian capital. Indoor visitors to restaurants must show QR codes proving either vaccination or prior infection. From July 12, these restrictions will apply to outdoor dining areas also. Events with more than 500 spectators are banned.

    Russian President Vladimir Putin and Prime Minister Mikhail Mishustin appear to have distanced themselves from the latest unpopular restrictions, leaving it to the mayors of Russia’s two largest cities to take any flak.

    “It is clear that the Kremlin does not want to impose a major lockdown, which would both slow economic recovery and would seriously call into question Putin’s recent claim of victory over the virus,” said Weafer.

    Avoiding an official lockdown also means that the state does not have to provide compensation or financial support for affected businesses affected, includng small businesses in the catering and consumer services sectors, which would be the hardest hit by a new lockdown.

    Weafer noted that foreigners in Russia have been left in limbo. As of June 28, no provision exists to allow foreigners or Russians with a foreign vaccine to get a QR Code or to otherwise be allowed into restaurants. Instead, they are being forced to get a 72-hour PCR test.

    Meanwhile, Russia announced the easing of travel routes to some countries – but others, such as Germany, France and Ireland have placed Russia on their red zone travel lists. Some others, such as Greece, are requiring travelers from Russia to have a negative PCR test before being allowed into the country.

    Vaccination at only 12% in Russia

    As of July 1, only about 11.4% of Russia’s 145 million-strong population has been vaccinated, with just 14.3% having had at least one dose – numbers that are far behind the US (50%), Israel (57%), and the UK (49%). The compulsory measures for some worker categories, and to enter cafes, etc., that have been imposed in Moscow and St Petersburg will likely be rolled out across the country. Long queues are common for vaccinations in Moscow while vaccination has stopped in some regions because of a lack of doses.

    Ukraine

    The lockdown has driven new cases to low levels, although there has been an uptick in recent days. The India-origin Delta strain has been identified in Ukraine and measures are being taken, including extra testing of those arriving from India, the UK, Russia, and Portugal. All of Ukraine is in the green zone, but the Kyiv region is likely to be downgraded and the nationwide quarantine system has been extended to the end of August.

    Kazakhstan

    The rise in new infections has pushed the whole of the country into the red zone, with five regions, including the capital Nur-Sultan, into the red. In Nur-Sultan, there are new restrictions on the opening hours of malls and restaurants, and limits on the number of visitors allowed. Vaccination is progressing well, with about 9.8% of the population having received two doses (up from 7.3% the previous week), and 16% have received at least one dose, Weafer wrote. New rules require service sector workers and those in firms larger than 20 people to either get vaccinated or have a weekly PCR test.

    Uzbekistan

    Central Asia’s most populous nation has seen a surge in the number of new cases. The Delta strain of COVID-19 has been detected in Uzbekistan, which has restricted movement in and out of Tashkent. PCR tests are required for entry into the country and restrictions have been imposed on indoor houses of worship and in restaurants. Vaccinations have been opened to over 18s in Tashkent and to over 50s nationwide. As of late June, about 1 million (3% of the population) have had two doses, numbers that are up from 960,000 earlier in the month.

    Armenia

    The peak of the third wave has passed, which is a good result, given that there was a national election last week, but, according to Weafer, Armenia’s authorities are warning of the possibility of a new wave of infections. The current COVID quarantine is in place until July 11.

    Azerbaijan

    The third wave has clearly peaked thanks to the Azeri government’s harsh lockdown. The government has relaxed quarantine rules, Weafer, wrote, adding that 11.6% of the population has received two vaccine doses, up from 9.6% the previous week. The government may tighten its rules on infection certification in order to encourage more people to get vaccinated.

    Belarus

    New cases in Belarus continue to fall. The Delta variant has been found in Belarus but seems not to be spreading as fast as in Russia. Vaccination numbers are now announced daily, suggesting the availability problems have been resolved. New vaccination points are announced daily. About 5.8% of the population has had both doses, up from 4% last week. 8.9% have received at least one dose.

    Georgia

    The third wave has peaked,  curfew now starts at midnight (changed from 2300). The government’s mandate to impose regulations was extended from July 1, 2021, to January 1, 2022. Vaccination supplies are still limited, though some citizens are eligible for doses of AstraZeneca, Pfizer, and the Chinese-made SinoVac. All deliveries of the various vaccines are being given immediately and the government hopes to get a series of major deliveries in July that will be enough to vaccinate the entire population by September.

  • Red Cross warns that coronavirus cases are exploding in Asia

    KUALA LUMPUR, Malaysia (AP) — Coronavirus cases are exploding in Asia and the Pacific with over 5.9 million new confirmed infections in the past two weeks, more than in all other regions combined, the International Federation of the Red Cross said Wednesday.

    It warned that the surge is pushing hospitals and health systems to the brink of collapse.

    Seven out of 10 countries globally that are doubling their infection numbers the fastest are in Asia and the Pacific, it said. Laos took just 12 days to see its cases double, and the number of confirmed infections in India has doubled in under two months to more than 23 million, the Red Cross said in a statement.

    It said Oxford University’s Our World in Data reported more than 5.9 million new COVID-19 infections in Asia and the Pacific during the two weeks. Official figures for much of the region are widely believed to be undercounts.

    “COVID-19 is exploding across much of Asia, overwhelming hospitals and healthcare. More people have been diagnosed with the disease in Asia over the past two weeks than in the Americas, Europe, and Africa combined,” Red Cross Asia Pacific director Alexander Matheou said.

    “Right now, we need global solidarity for regional support with more medical equipment, support for prevention and urgent access to vaccines,” he said.

    While vaccination campaigns are underway in the region, the Red Cross said they are hampered by shortages, hesitancy and the costly logistics of reaching many areas across the region.

    “To bring this pandemic under control, we need greater global cooperation so that lifesaving resources, medical equipment, vaccines and money get where they are needed to help people most at risk. We’re only safe when everyone is safe,” it said.

  • UE e Asia centrale discutono di economia, trasporti, ecologia, energia e sicurezza

    L’UE ha stanziato un pacchetto di aiuti da 134 milioni di euro all’Asia centrale per far fronte alle esigenze urgenti del sistema sanitario e ai problemi socioeconomici. La decisione è frutto dei colloqui tra i ministri degli esteri di Tagikistan, Uzbekistan, Kirghizistan, Turkmenistan e Kazakistan e l’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza e vicepresidente della Commissione europea, Josep Borrell. Le parti hanno discusso l’interazione in ambito economico, dei trasporti, nonché questioni di ecologia, energia e sicurezza.

    I rappresentanti dei paesi dell’Asia centrale e dell’Unione europea hanno prestato particolare attenzione alla situazione in Afghanistan sottolineando che l’instaurazione di una pace duratura nel Paese sarebbe una garanzia di stabilità e prosperità per l’intera regione.

    L’UE, a sua volta, ha valutato la produttività dei paesi dell’Asia centrale nel campo della sicurezza e della lotta al terrorismo.

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