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  • Fca: la beffa oltre la garanzia eco

    La fusione tra Fca e Peugeot comporterà l’azzeramento dei rapporti con le aziende subfornitrici e di sviluppo italiane per le city car le quali verranno destinate alle filiere francesi. Questa legittima scelta della dirigenza della futura società (Stellantis, frutto della fusione tra il gruppo “italiano” (con sede fiscale in Olanda e legale a Londra) e quello francese, assume i connotati della beffa oltre che quelli del danno.

    In questo senso infatti va ricordato come pochi mesi fa la proprietà della Fca avesse chiesto ed ottenuto la garanzia di cassa depositi e prestiti per 5,6 miliardi. Questa operazione aveva permesso di riaprire i flussi finanziari con i subfornitori della filiera produttiva italiana. Ora, invece, proprio dopo avere ottenuto la garanzia dalla CDP, la medesima dirigenza sceglie di mettere sul lastrico aziende e decine di migliaia di posti di lavoro in Italia in nome della “fusione a freddo applicata al settore industriale”.

    Nessuno mette in dubbio come le aggregazioni industriali rappresentino sicuramente una sfida e possano determinare anche degli inevitabili costi sociali non secondari. Contemporaneamente si rimane quantomeno scioccati dalla dimostrazione ulteriore di lontananza e di mancanza di sensibilità in relazione agli effetti per il territorio italiano delle proprie azioni da parte della direzione e della proprietà di Fca. Paradossale quando, invece, le consociate statunitensi risultino sempre più collegate al territorio e alla città di Detroit e con le cui autorità politiche vengono siglati piani di sviluppo industriale coniugati  a concessioni di agevolazioni fiscali. Una ulteriore dimostrazione di come si possa creare un’economia industriale in stretto collegamento con il  territorio e, di conseguenza, con ricadute occupazionali positive ed una crescita stabile.

    Molto probabilmente la differenza tra la gestione delle aziende statunitensi ed italiane all’interno della Fca nasce anche dalla diversa attenzione delle autorità politiche dei due paesi (Stati Uniti ed Italia) nei confronti  delle imprese industriali ed automobilistiche nello specifico.

    La risultante di queste due diverse attenzioni nei due paesi si manifesta nella progressiva deindustrializzazione del Paese con la classe politica sempre meno preparata ed attenta al valore economico del sistema industriale. L’Italia.

  • Mercato europeo dell’auto ancora fermo a giugno, tranne che in Francia

    Nuova pesante frenata del mercato delle quattro ruote in Europa. Secondo i dati diffusi da Acea (European Automobile Manufacturers Association), a giugno sono state immatricolate 1.131.843 auto, con una flessione del 24,1% rispetto allo stesso mese del 2019. Pesa ancora – nella fase post lockdown – l’effetto Covid. Arrivano però anche i primi segnali di ripartenza: la flessione infatti è inferiore a quella di maggio, quando si era registrato un crollo del 56,8%. I risultati di giugno del mercato europeo dell’auto – che include l’area Ue, più il Regno Unito e i Paesi Efta – non riescono però a invertire la tendenza. “Il mercato europeo dell’auto in giugno è ripartito, ma una vera ripresa è ancora lontana e per colmare il divario con il 2019 il percorso è lungo e accidentato”, ha commentato Gian Primo Quagliano, presidente del centro studi promotor. Tutti i principali mercati europei hanno messo a segno un declino, ad accezione della Francia che incassa un incremento dell’1,2% su base annua. Si tratta del primo effetto del massiccio piano di incentivi varato dal governo del presidente Emmanuel Macron che ha destinato al sostegno dell’auto 8 miliardi. Guardando agli altri Paesi, riportano tutti una contrazione delle immatricolazioni a doppia cifra: la Spagna perde il 36,7%, la Germania il 32,3% e l’Italia il 23,1%. Per Fca – che mercoledì ha svelato il nome del gruppo che nascerà dalla fusione con Psa, cioè ‘Stellantis’ e ha confermato che l’operazione sarà ultimata entro la fine del primo trimestre 2021 – la quota di mercato in Europa si è ristretta passando dal 6,1 al 5,7 per cento in un anno. Per quanto riguarda i brand, le registrazioni di Fiat sono 47 mila per una quota del 4,2%, quelle di Lancia 3.500 con una quota stabile allo 0,3%, le vendite di Alfa Romeo sono oltre 3.200 e la quota è dello 0,3% mentre Jeep, infine, immatricola quasi 10.800 vetture ottenendo una quota dell’1%. Dopo il lungo periodo di forte rallentamento di vendite a causa dalla pandemia da coronavirus, a giugno la situazione è iniziata a tornare alla normalità. Ma lo scenario è ben diverso rispetto al 2019. La chiusura a partire dall’11 marzo di concessionarie e punti vendita di automobili ha influito molto negativamente sulle vendite. La progressiva e parziale riapertura da metà di maggio delle attività commerciali non ha ancora permesso di raggiungere i livelli precedenti alla pandemia. Allargando lo sguardo ai primi sei mesi del 2020, il bilancio del mercato auto Ue si chiude con un calo che sfiora il 40% – per la precisione -39,5% – e riflette ribassi storici registrati in quattro mesi consecutivi. Nel consuntivo anche il mercato della Francia è ancora in profondo rosso, come d’altra parte quelli degli altri quattro paesi che insieme allo Stato d’Oltralpe si aggiudicano il 68,7% delle immatricolazioni dell’area. Il bilancio di metà anno vede infatti cali del 50,9% in Spagna, del 48,5% nel Regno Unito, del 46,1% in Italia, del 38,6% in Francia e del 34,5% in Germania.

  • Fiat 500 elettrica e innovazione tecnologica

    “La nuova Fiat 500 elettrica potrà essere tua a poco meno di 40.000 euro”.* Questo potrebbe essere lo slogan, ovviamente in chiave sarcastica, per la presentazione dell’icona del gruppo Fca in versione elettrica.

    Quando nacque a Torino, questa vera icona della motorizzazione di massa venne presentata ad un prezzo di 565.000 lire, quindi circa quattordici (14) stipendi di un operaio Fiat.

    Tornando alla versione 2020, ed in piena rivoluzione digitale e pseudo ambientalista, quella che dovrebbe essere la nuova frontiera della motorizzazione di massa ad impatto Zero viene proposta ad un prezzo vicino ai 40.000 euro, quasi  ventinove (29,6 per la precisione) volte lo stipendio di un operaio Fiat (1.350 euro).

    E’ quindi evidente come il mix tra tecnologia digitale e neoambientalismo applicato al mondo dell’automobile, a differenza del modello iconico di riferimento, rappresenti un elemento discriminante in virtù degli alti costi di accesso. La nuova versione della 500, di conseguenza, non può certo rappresentare un modello inclusivo come invece fu la Fiat 500 nel 1958, né può essere quel volano di nuovo sviluppo ecocompatibile come indicato dal talebanismo ambientalista. A tutto ciò si aggiungano anche le agevolazioni fiscali che vengono assicurate a questo tipo di motorizzazioni ed ecco ulteriormente tradito il principio della contribuzione fiscale a seconda delle proprie capacità che favorisce chi dispone di maggiori risorse per acquistare una 500 E.

    L’avvento della 500 nel 1958 diede inizio alla motorizzazione di massa all’interno di un boom economico diventando così essa stessa fattore e contemporaneamente volano di sviluppo in quanto accessibile ad una larga quota di popolazione.

    E’ evidente invece come la nuova 500 elettrica presentata dalla FCA diventi un elemento di ulteriore discriminazione per l’alto costo in rapporto allo stipendio medio, e quindi alle condizioni economiche del Paese, e fattore di segmentazione del mercato e di differenziazione economica e sociale.

    Una evidente conferma di come la semplice innovazione tecnologica non rappresenti la panacea per uno sviluppo condiviso e sostenibile se poi questa esclude la maggior parte degli utenti.

    Le due edizioni della 500 avranno quindi effetti economici e sociali divergenti se non addirittura contrapposti.

    Mai come oggi le strategie economiche, e i prodotti che ne conseguono, dimostrano l’assoluta mancanza di percezione della realtà circostante e del bacino di utenza diventando semplicemente declinazioni di principi finalizzati a favorire piccole élite. Pochi ancora hanno compreso come l’innovazione tecnologica, per diventare fattore di progresso economico e di una maggiore consapevolezza ambientale, debba risultare accessibile come nel 1958 lo fu la 500 presentata a Torino dalla Fiat.

    * 37.900 per 500 esemplari già venduti

     

  • Tracollo del mercato dell’auto, le concessionarie studiano come recuperare appeal

    In una Europa che, trattando di automobili, viaggia a due se non a tre velocità, sono i protagonisti diretti, cioè le Casa costruttrici, i grandi gruppi della distribuzione e i singoli concessionari ad essersi mobilitati per sopperire – in alcuni Paesi, compresa l’Italia – a forti iniziative pubbliche di sostegno al settore. Un mondo che ha grandissimo valore per le casse dei vari Stati, come dimostra la stima Acea di 440,4 miliardi di euro per le entrate fiscali che sono generate complessivamente dall’auto (76,3 in Italia) ma che fino ad oggi ha dovuto affrontare non solo le contraddizioni della guida di Bruxelles, ma anche inevitabili e forti tensioni fra costruttori, soprattutto sul fronte delle strategie di raggiungimento dei nuovi limiti sulla CO2. Ora però, alla luce dei disastrosi dati del primo quadrimestre – che in Italia hanno tagliato le vendite del 97,55% – sembra prevalere (come è successo in tanti condomini italiani durante la quarantena) un nuovo spirito di squadra. A spingere sull’acceleratore sono le aziende, il mondo del privato, che guardano a questo momento di crisi come ad una opportunità per recuperare fasce di clientela e soprattutto per eliminare dalle strade molte auto vecchie e con omologazioni antecedenti alla Euro 5.

    La mobilitazione delle concessionarie, riferisce l’agenzia Ansa, sta riguardando gli impianti ed anche le strategie. Nell’interfaccia con il cliente tutti i brand contano su locali delle concessionarie sanificati ed attrezzati per ricevere i clienti in totale sicurezza; su procedure a prova di ‘assembramento’ (auspicati ma davvero poco probabili) e soprattutto su nuovi strumenti di dialogo con i clienti e di gestione delle trattative e delle vendite. E per non deludere chi nei prossimi giorni varcherà – con rinnovata curiosità – le porte a vetri degli show-room per ammirare le tante novità che nel frattempo sono state presentate, fioriscono per fortuna anche le nuove strategie commerciali.

    Alcune idee sono davvero eccellenti, come la consegna ‘contactless’ dell’auto da provare a domicilio, l’abolizione della carta e della cartamoneta nelle procedure o la protezione degli acquisti con polizze anti-perdita del lavoro. Ma lo sono, ancora di più, inedite formule finanziarie che stanno stabilizzandosi attorno a costi di 90-120 euro al mese, per far accedere all’acquisto davvero tutti. Anche chi aveva abbandonato l’auto per puntare tutto sui mezzi pubblici nei giorni lavorativi e sui voli low cost per le vacanze. E ora, come accade già in Cina o altri mercati, sta riscoprendo che l’auto privata è molto meglio di una mascherina e del distanziamento sociale.

  • Mercedes avvia la propria produzione di auto elettriche

    E’ partita ufficialmente nella fabbrica di Rastatt la produzione della Mercedes Classe A Plug-In Hybrid, una tappa fondamentale nell’offensiva elettrica che dovrebbe portare il settore auto del gruppo tedesco ad avere entro il 2039 una flotta di veicoli a emissioni zero di CO2, con un target entro il 2030 di oltre il 50% delle vendite da ibridi plug-in o veicoli completamente elettrici. A Rastatt è partita la produzione congiunta di due versioni di carrozzeria del modello plug-in, la A 250e a due volumi e la A 250e Sedan, entrambe con una autonomia elettrica fino a 75 km ed emissioni di CO2 di circa 33 g/km.

    A spingere questa versione ibrida della Classe A è un motore elettrico da 75 kW integrato nella trasmissione a doppia frizione a otto velocità. Per la prima volta su un veicolo Mercedes-Benz, il motore a combustione viene avviato esclusivamente dal motore elettrico (spinto da una batteria agli ioni di litio da 15,6 kWh). Insieme al quattro cilindri a benzina da 1,33 litri, il sistema vanta una potenza complessiva di 160 kW (218 CV) e una coppia del sistema di 450 Nm. E grazie alla spinta dell’elettrico, le prestazioni sono di tutto rispetto: l’A 250 e, ad esempio, va da 0 a 100 km / h in 6,6 secondi, con una velocità massima di 235 km / h.

    Peraltro la sensibilità ambientale si estende alla stessa catena produttiva: infatti grazie agli interventi portati avanti dal 2011 l’impianto di Rastatt – che negli ultimi anni ha ‘fatto le ossa’ sul campo con la realizzazione della full electric B250e – ha quasi dimezzato il livello di emissioni di CO2 per veicolo prodotto. Per la fabbrica tedesca, peraltro, il prossimo step è dietro l’angolo: infatti entro il 2022 l’energia per l’impianto di Rastatt, così come per gli altri impianti europei di Mercedes-Benz, dovrebbe provenire interamente da fonti rinnovabili come l’energia eolica, solare e idroelettrica.

  • L’inverno porta l’obbligo di pneumatici da freddo e multe dai 42 euro in su

    Dal 15 novembre scatta come ogni anno l’obbligo di utilizzare pneumatici invernali (o dotarsi di catene da neve a bordo) con conseguente onere per gli automobilisti.

    Per supportare i consumatori nella scelta, Altroconsumo ha testato 30 pneumatici: 15 della misura 185/65 R15, generalmente utilizzati su piccola auto come Volksvagen Polo, Cotroen C3 e Fiat Panda e 15 di dimensioni maggiori, 205/65 R16C adatti a furgoni come Volksvagen T5 e T6, Iveco Daily e Renault Traffic. Il test, pubblicato su ‘Altroconsumo Inchieste’ di novembre, è stato condotto da piloti specializzati che hanno guidato su strade bagnate, ghiacciate e innevate proprio per simulare al meglio le condizioni in cui si guida durante la stagione invernale. Tra i risultati principali emerge che mentre la maggior parte dei pneumatici del primo gruppo ha ottenuto prestazioni soddisfacenti, così non è stato per il secondo gruppo in cui nessuno ha meritato il titolo di Miglior Acquisto. In cima alla classifica dei pneumatici per piccole auto (185/65 R15) si è posizionata Dunlop Winter Response 2 seguita da Pirelli Cinturato Winter. Miglior Acquisto nella categoria va alle gomme Kleber Krisalp HP3.

    Per quanto riguarda la categoria 205/65 R16C è Continental Van Contact Winter guadagna primo posto seguito da Pirelli Carrier Winter. Altroconsumo ha elaborato anche una inedita classifica che sintetizza dieci anni di test e restituisce la fotografia delle marche più affidabili per quanto riguarda i pneumatici invernali. Anche qui Continental e Dunlop occupano rispettivamente primo e secondo posto, seguite da Michelin e Goodyear.

    Le gomme sono state testate innanzitutto su terreno asciutto ad una velocità di 150 km/h per verificare tenuta di strada, maneggevolezza del mezzo e spazio di frenata. Dai test su strada bagnata sono emerse importanti differenze tra i vari pneumatici: con i migliori modelli (tra le gomme per auto di piccola taglia) si perde il controllo solo oltre i 90 km/h mentre con i peggiori già oltre i 65. I piloti hanno testato i vari pneumatici anche su terreno innevato. Nella categoria dei più piccoli ci sono state molte prestazioni valide, bocciate le gomme Toyo.

    Ecco le sanzioni se non si ottempera all’obbligo: il primo motivo per montare le gomme invernali è naturalmente legato alla sicurezza stradale. Ma se non si rispetta la legge si incorre anche in una serie di sanzioni. Nei centri abitati si parte da 42 per arrivare a 173 euro (che si riduce però a 28,70 euro se viene pagata entro cinque giorni); invece si rischia di pagare da 87 euro a 345 sulle autostrade e strade extraurbane, principali o assimilate (59,50 euro se pagata entro cinque giorni). Se viene riscontrata una violazione il proprietario del mezzo non potrà proseguire la sua corsa: in caso contrario, oltre alla sanzione amministrativa si rischia anche la decurtazione di tre punti della patente.

  • Avere un’auto nel 2019 è costato il 6,58% in più che nel 2018

    I costi medi per il mantenimento di un’auto per gli automobilisti italiani sono pari, in media, a 1.614 euro con un incremento del 6,58% rispetto allo scorso anno. E’ quanto emerge dall’analisi effettuata da SosTariffe.it ad ottobre 2019 sulle varie fonti di spesa per l’auto regione per regione.

    La principale voce di spesa per gli automobilisti italiani è il carburante, che comporta un esborso di circa 891 Euro all’anno. A seguire vengono la polizza RC Auto, pari a circa 573 euro, e i costi per bollo e revisione (circa 149 euro). L’incremento registrato a livello nazionale è dovuto soprattutto ai rincari in quattro regioni: Friuli, Valle d’Aosta, Puglia ed Emilia Romagna. Il picco dei rincari, rispetto ai dati raccolti nel 2018, viene registrato in Friuli Venezia Giulia dove si tocca quota +35% su base annua per i costi di mantenimento. Lo scorso anno, gli automobilisti friulani hanno speso in media 1.117 euro all’anno per l’auto, nel 2019 ne hanno spesi 1509. In Val d’Aosta il rincaro è stato del 22%: gli automobilisti valdostani sono passati da un esborso di 1.259 euro l’anno nel 2018 a uno di 1.536 euro quest’anno. I costi di mantenimento dell’auto sono cresciuti del 22% anche in Puglia, passando da 1.529 a 1.863 euro. Agli automobilisti dell’Emilia Romagna, quest’anno la macchina è costata quasi il 20% in più: 1.576 euro contro i 1.314 dell’anno passato.

    In controtendenza spicca invece il Molise dove i costi di gestione dell’auto sono scesi del 19,76%, pari a oltre 300 euro in meno di spesa complessiva su base annua. Cali netti anche in Umbria (da oltre 1.893 euro a 1.624, -14.17%) e in Veneto (da 1.722 a 1.649 euro, -4.26%). In Veneto peraltro si registra il costo più alto per quanto riguarda il carburante che incide sulla spesa complessiva per 1.000 euro all’anno circa. Sono calate del 2% anche le spese di mantenimento per gli automobilisti in Campania (da 2.155 a 2.112 euro l’anno) mentre in Trentino Alto Adige la riduzione è stata solo dell’1,67%.

  • Allarme auto elettriche: poco profitto e futuro incerto

    Da anni l’intero settore automobilistico è stato invaso dalle nuove tecnologie e specialmente dai nuovi motori sempre più green e attenti all’ambiente. La rivoluzione ha portato continui investimenti nel settore delle vetture elettriche e ad impatto zero, ma non sembra che stia andando tutto come previsto.

    Alix Partners, una società di consulenza, descrive l’industria automobilistica ormai come un deserto del profitto. E non è il primo indizio a riguardo. Prima Standard & Poor’s ha avvisato che l’outlook sui margini tende al brutto a causa dei troppi investimenti, a fronte dei quali la risposta del mercato appare quanto meno improbabile. Poi è stata la volta addirittura del numero due di Bmw, che ha spiegato come i cittadini europei siano molto scettici nell’acquistare auto solo elettriche.

    Gli analisti guardano con preoccupazione ad alcuni indicatori del settore. Il più importante è la quantità impressionante di soldi che i costruttori stanno investendo, da qui al 2023: 225 miliardi di dollari per l’elettrificazione della gamma e altri 50 per la guida autonoma, stando alle stime di Alix Partners. Per dare un riferimento, 275 miliardi è la metà dei 553 miliardi di Ebit che i costruttori di auto e veicoli leggeri hanno generato nel quinquennio 2014/18.

    Le imprese devono costantemente fare investimenti, per andare incontro alle opportunità di nuova domanda che si prospettano all’orizzonte, ma gli analisti in verità dipingono un trend tutt’altro che espansivo nei prossimi anni. Il primo mercato del Mondo, la Cina, che ha generato in questo decennio i due terzi della crescita, pare stia tirando il freno: si proietta un meno 8% quest’anno. Gli Stati Uniti sono entrati nella fase calante del ciclo e l’Europa, per bene che possa fare, non darà i volumi necessari.

    La spinta verso l’elettrificazione arriva comunque dai governi, che impongono limiti alle emissioni impossibili da rispettare e inutili sotto il profilo ambientale, accompagnati da multe miliardarie. Davanti a queste imposizioni, i costruttori si sono sentiti incalzati. In altri termini, è la prima volta che non sono loro, i car makers, a dettare l’agenda dello sviluppo.

    Resta importante capire l’impatto che avranno questi cospicui investimenti con poco mercato e scarsi profitti. Un generale indebolimento finanziario dell’industria automobilistica, che già lo scorso anno ha mandato un’avvisaglia: una flessione del 20% dei profitti, pari a 25 miliardi di dollari, nonostante una contestuale riduzione di 44mila addetti, la prima dopo la crisi 2008/10.

    Per quanto riguarda i consumi del nostro Paese, gli automobilisti italiani sono fortemente interessati all’auto elettrica, ma sono ancora molti i talloni d’Achille che ne frenano l’acquisto. I problemi sono noti, e discussi, da anni: al momento costa troppo, almeno rispetto alle vetture convenzionali, l’autonomia genera ansia e preoccupazioni e la rete di ricarica non è sufficiente e capillare.

    Michele Crisci, presidente dell’Unrae, sottolinea che “il futuro dell’auto elettrica sarà molto legato alla capacità che le infrastrutture avranno di permettere agli utenti una ricarica continua, veloce, diffusa in maniera ampia sia domestica sia pubblica, sia nei luoghi dove lavoriamo. L’auto del futuro – conclude Crisci – sarà sicuramente un’auto elettrica, connessa e condivisa. È inevitabile un periodo di transizione. Si devono tenere in considerazione i futuri sviluppi tecnologici, ma anche la situazione presente, perché in Italia abbiamo 37 milioni di autoveicoli obsoleti rispetto a queste tecnologie”.

    In conclusione i costruttori, dopo più di un secolo di mobilità individuale a motore, oltre a meritare fiducia e rispetto, hanno le spalle per reggere questa nuova sfida. Ma le prossime strategie andranno prese con oculatezza per evitare che tutto il settore finisca in una enorme bolla senza futuro.

  • L’Italia in crisi nel mercato delle automobili

    Il mercato automobilistico sta vivendo sicuramente un periodo molto complesso ed articolato. Con le grandi città che sembrano sempre più ostili verso le auto diesel e benzina, i consumatori si sentono sempre più frastornati in un mercato che ultimamente offre tantissime alternative ma non sempre di livello. Tutto questo si ripercuote ovviamente sulle vendite finali del settore.

    Il 2018 del mercato automobilistico si è concluso con un sostanziale pareggio in Europa, con l’Italia che si caratterizza per una battuta d’arresto più marcata che altrove.

    L’Acea, l’associazione dei costruttori a livello continentale, ha diffuso il bilancio dello scorso anno chiudendo la rilevazione con dicembre. Le immatricolazioni di auto nell’Europa dei 28 più Paesi Efta (Svizzera, Islanda e Norvegia) sono stabili nel 2018 rispetto all’anno precedente: 15.624.486, lo 0,04% in meno del 2017. L’anno si chiude però con un nuovo dato negativo: a dicembre sono state vendute 1.038.984 vetture, l’8,7% in meno dello stesso mese dell’anno precedente.

    In questo contesto, Fiat Chrysler ha immatricolato 1.021.311 auto nel 2018 nell’area, facendo peggio del mercato con un calo del 2,3% sul 2017. La quota è pari al 6,5% a fronte del 6,7%. Tra i brand del gruppo registra un balzo del 55,6% Jeep (168.674 unità vendute). A dicembre la tenuta è stata invece migliore: le auto vendute da Fca sono 60.926, con una flessione del 2,5% e la quota è pari al 5,9% (era 5,5%).

    Ai risultati deludenti dell’Italia si somma il calo di Germania (-0,2%) e Regno Unito (-6,8%) che si contrappone alla crescita di Francia (+3,0%) e Spagna (+7,0%). A sostenere il mercato ed ad evitare un calo ancora più consistente ci sono poi i buoni risultati Romania (+23,1%), Ungheria (+17,5%) e Polonia (+9,4%). Il sesto mercato continentale, il Belgio, segna invece un +0,6%.

    Al primo posto troviamo Volkswagen Group con un +0,4% che deriva dal +2,7% del marchio capofila Volkswagen, dal +3,4% di Skoda, dal +12,8% di Seat e dal -12,4% di Audi. Secondo e in forte crescita è il gruppo PSA che mette a segno un poderoso +32,5%; il merito è del +156,2% di Opel, mentre Peugeot e Citroen si attestano entrambi su un più fisiologico +5,0%. Terzo e in leggero miglioramento è il Gruppo Renault (+0,8%) che contrappone il +11,7% di Dacia al meno entusiasmante -3,9% del marchio Renault classico.

    A riflettere su questi dati sono gli esperti del Centro Studi Promotor, per i quali il bilancio 2018 del mercato auto dell’area Unione Europea e paesi dell’Efta può essere considerato “sostanzialmente positivo”.

    Il presidente Gian Primo Quagliano ha ricordato come ci siano stati fattori che hanno trascinato al ribasso il mercato nel corso dell’anno: “In primo luogo la congiuntura economica, pur rimanendo positiva, è gradualmente peggiorata. In secondo luogo l’introduzione dal primo settembre del nuovo sistema di omologazione Wltp ha fatto si che diverse case avessero problemi di fornitura. In terzo luogo ha pesato sulle vendite la demonizzazione del diesel per motivazioni più ideologiche che di reale tutela dell’ambiente”.

    Il risultato del 2018 – sottolinea il Csp – non è negativo anche perché chiude in crescita la maggior parte dei mercati nazionali e in sostanziale pareggio (-0,8%) il gruppo dei cinque maggiori mercati che valgono il 71,7% delle immatricolazioni dell’area.

    Proprio per il mercato italiano, Promotor sottolinea che il 2018 segna un battuta d’arresto. Al calo maggiore che negli altri Paesi, Gran Bretagna a parte, si somma che le previsioni per il 2019 non sono positive sia per l’andamento dell’economia sia per le misure sull’auto recentemente adottate dal Governo.

    Il sistema di bonus-malus, secondo il Centro Studi Promotor, determinerà un calo delle immatricolazioni.

    Resta da vedere quali incentivi saranno introdotti per il rilancio di tutto il settore.

  • Il settore auto si interroga sul proprio futuro elettrico

    Il futuro delle automobili diesel è ormai segnato. Dal 2015, anno in cui è esploso lo scandalo del “dieselgate” negli Stati Uniti, i costruttori hanno dovuto fronteggiare una rivoluzione senza precedenti.

    L’EPA, l’agenzia americana per la protezione dell’ambiente, aveva infatti riscontrato sui veicoli del gruppo Volkswagen la presenza di un software in grado di aggirare le normative ambientali sulle emissioni di NOx e di inquinamento da gasolio. Grazie a questo dispositivo era così possibile superare agevolmente i test sulle emissioni, mentre nelle normali condizioni di percorrenza stradale le vetture avrebbero superato fino a 40 volte il limite consentito dalla legge. Dopo questo scandalo la corsa al blocco delle auto diesel dal 2020 si è diffusa in tutta Europa. Città come Parigi, infatti, hanno annunciato l’abolizione del diesel proprio dal 2020.

    L’ultimo colpo di grazia alle auto con motori diesel è arrivato poco tempo fa dalla Germania. Il tribunale amministrativo federale di Lipsia, infatti, ha emesso una sentenza con la quale ha vietato la circolazione di questi veicoli nei centri urbani per ridurre il tasso di inquinamento, ma ha lasciato libertà ai vari municipi di applicare questa sentenza in modo graduale.

    Nonostante la progressiva abolizione del diesel, il mercato italiano non sembra aver risentito di questa chiusura legislativa. Nel 2017, infatti, le nuove immatricolazioni di auto diesel nel nostro Paese sono cresciute del 3,8% anche grazie ad una politica di generosi incentivi adottata dai costruttori e da un prezzo del gasolio generalmente più conveniente rispetto alla benzina. Tuttavia, i primi dati di settembre e ottobre 2018 evidenziano un crollo rilevante.

    Nonostante le nuove e più restrittive normative, alcune case come Toyota hanno deciso per una sospensione istantanea della vendita delle vetture diesel in Italia, altri costruttori, come Mercedes, hanno promesso grandi investimenti per lo sviluppo della propulsione elettrica senza abbandonare il motore diesel.

    Questo repentino sviluppo del settore sta mandando in crisi diverse aziende, legate a quelle dell’automotive. Un grosso problema per chi negli anni ha sviluppato il proprio business sullo sviluppo di tecnologie e parti di motori diesel.

    Un prima stima identifica in cinque miliardi il giro d’affari legato ai motori a gasolio, che per il Centro per l’innovazione e la mobilità automotive (Cami) coinvolge il 7% delle aziende componentistiche e oltre 17.000 addetti della filiera. Il numero di aziende in allerta, però, pare di molto superiore, tenendo conto che ben il 30% dei fornitori (650 aziende, su un totale di 2190) prevede danni alla propria competitività dalla diffusione del motore elettrico.

    Tra frizioni e ingranaggi, differenziali e trasmissioni, centraline e sistemi di scarico, anche andando oltre i motori è difficile trovare un settore immune ai cambiamenti, anche perché per tutti inciderà comunque il tema dei pesi, da alleggerire per migliorare l’autonomia.

    Tra le aziende italiane intervistate solo il 19% ha partecipato a progetti di sviluppo di powertrain elettrici o ibridi, poco meno del 70% ha dichiarato di non aver seguito alcuno sviluppo di nuove tecnologie.

    A pesare è certamente l’inerzia di Fca, primo cliente del settore (vale in media il 42% dei ricavi), costruttore che di fatto è ancora all’anno zero nell’avviare un piano strategico nel campo delle motorizzazioni elettrificate.

    “Certo questa situazione pesa. Anche se alcuni progetti come la Renegade ibrida o la 500 elettrica stanno partendo – spiega Giuseppe Barile, presidente dei componentisti Anfia – e quindi possiamo avere un moderato ottimismo. Quel che è certo è che la filiera non può vivere solo di internazionalizzazione. La transizione è un’opportunità ma è troppo rapida, ora la gente è disorientata, molte famiglie rinvieranno gli acquisti e per il 2019-2020 prevedo un mercato in calo. Ad ogni modo, la filiera può recuperare il gap a patto di agire subito: metà del comparto, cioè 80mila addetti, sarà coinvolta in questa rivoluzione”.

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