Autostrade

  • Anas non basta, lo Stato si intasca altre autostrade

    Il crollo del Ponte Morandi ha portato a una sanzione di 8 miliardi incassata dai Benetton. Già, perché l’idea che i privati non sappiano gestire le autostrade e la voglia dei grillini allora al governo di riportarle sotto la mano pubblica ha portato alla revoca della concessione ai Benetton, con relativo indennizzo – 8 miliardi appunto – dovuto a norma di legge.

    Crollato il grillismo al governo resta tuttavia in piedi la statalizzazione delle Autostrade, tramite la costituzione della Spa pubblica Autostrade dello Stato, interamente partecipata dal Mef e sottoposta al controllo del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti che gestirà le reti autostradali a pedaggio. Insomma, come i Comuni fanno cassa sugli automobilisti grazie ai pedaggi per entrare in centro (Milano) e per posteggiare (praticamente qualsiasi città), così lo Stato intende far cassa grazie ai pedaggi autostradali. Man mano che le concessioni oggi in essere a varie società per varie tratte autostradali la nuova società rileverà quelle stesse tratte che non saranno più affidate in concessione a privati. In Spagna le concessioni autostradali a privati hanno portato Florentino Perez, che gestisce appunto autostrade, a fare della squadra del Real Madrid un brand di valore economico assoluto (con ricadute positive anche sugli affitti a breve, altro tabù in Italia, nella zona contigua allo stadio dove gioca il Real), ma come si dice: mogli e buoi dei Paesi tuoi.

    Lo Stato peraltro già detiene alcune autostrade e la nuova società dovrebbe inglobare Anas, che oggi appunta gestisce le autostrade già in mano pubblica: le Autostrade meridionali, i trafori del Frejus e del Monte Bianco, Cav (autostrade venete) e Sitaf, nonché Cal, società concedente delle lombarde Brebemi, Teem e Pedemontana di cui Anas è azionista.

  • Dalla BEI, con il sostegno di InvestEU, 1,2 miliardi di euro a supporto del piano di ASPI per una rete autostradale sempre più sicura, green e resiliente

    Sostenere la prosecuzione del piano di ammodernamento dei circa 3mila chilometri della rete gestita da Autostrade per l’Italia (ASPI) per renderla più moderna, sempre più sicura e resiliente a fronte di futuri eventi climatici estremi. Questi sono fra gli obiettivi principali dell’accordo da 1,2 miliardi di euro siglato dalla Banca europea per gli investimenti (BEI) e Autostrade per l’Italia, uno dei principali concessionari del settore delle autostrade a pedaggio in Europa. Delle risorse investite dalla BEI, almeno 800 milioni di euro sono sostenuti da InvestEU, il programma di investimenti della Commissione europea di cui il Gruppo BEI è il principale partner esecutivo.

    In particolare, questo finanziamento per 800 milioni di euro ha una durata di 15 anni (allineata dunque alla scadenza della concessione) e contribuirà al programma di rigenerazione della rete, rendendola più sostenibile e resiliente, anche nell’eventualità di futuri eventi climatici. L’impegno della BEI comprende anche ulteriori 400 milioni di euro volti a supportare l’avanzamento del piano di ammodernamento di ASPI.

    Sul fronte della sostenibilità ambientale, le risorse della BEI contribuiranno a promuovere la mobilità sostenibile, supportando l’utilizzo di energie alternative e l’adozione di soluzioni tecnologiche nel segno di un risparmio energetico sempre più consistente. In particolare, le risorse messe a disposizione dalla BEI contribuiranno a sostenere l’istallazione di stazioni di ricarica per veicoli elettrici, di pannelli fotovoltaici, e sistemi di illuminazione a LED lungo la rete.

    Inoltre, il progetto genererà importanti ricadute economiche, contribuendo alla creazione di nuovi posti di lavoro in tutto il Paese. La BEI stima che l’implementazione del progetto sosterrà 13.000 posti di lavoro, consolidando ulteriormente l’impegno della BEI nel supportare la crescita economica del territorio.

  • La Commissione adotta una nuova proposta sulla combinazione delle modalità di trasporto per un trasporto merci più sostenibile

    La Commissione ha presentato la sua proposta sul trasporto combinato, la quale mira a rendere più sostenibile il trasporto merci migliorando la competitività del trasporto intermodale rispetto al trasporto esclusivamente su strada. La proposta aggiorna la direttiva sui trasporti combinati e integra il pacchetto per un trasporto merci più ecologico, adottato in gran parte nel luglio 2023. Il pacchetto aiuterà il settore del trasporto merci a contribuire al raggiungimento degli obiettivi del Green Deal dell’UE.

    La revisione odierna renderà il trasporto intermodale più efficiente e competitivo, e rafforza il sostegno alle operazioni volte a ridurre le esternalità negative di almeno il 40% rispetto al trasporto esclusivamente su strada tra gli stessi punti di partenza e di arrivo.

    Oltre alle misure normative esistenti, la proposta introduce un’esenzione dai divieti temporanei di circolazione, come i divieti di circolazione nel fine settimana per il trasporto combinato. Stabilisce inoltre per gli Stati membri un obiettivo di riduzione di almeno il 10% dei costi medi delle operazioni di trasporto combinato entro sette anni e li invita a mettere in atto le politiche necessarie a tal fine. I gestori dei terminali inoltre saranno tenuti a fornire, sui rispettivi siti web, informazioni minime sui servizi e sulle strutture dei loro terminali di trasbordo nell’UE.

    La proposta sarà ora esaminata dal Parlamento europeo e dal Consiglio nell’ambito della procedura legislativa ordinaria.

  • l business della sicurezza stradale

    I recenti e ripetuti incidenti stradali che hanno visto quasi sempre giovani vittime, stanno suscitando l’ennesimo ipocrita confronto politico privo di ogni competenza e motivato semplicemente dall’infantile narcisismo dei protagonisti.

    La nostra rete stradale complessivamente è articolata in 167.365 km, tra strade urbane ed extraurbane, lungo la quale si trovano 8.073 autovelox (dati anche questi non aggiornati) ai quali aggiungere i semafori T-red.

    Nella vicina Francia, che presenta una rete stradale di 1.028.260 km (62% urbana ed il 38% extraurbana), si trovano 2.406 postazioni con autovelox. In Germania, lo Stato delle Autobahn senza limiti di velocità, se ne trovano 3.813 di rilevatori di velocità.

    La prima evidente considerazione dimostra come questa impressionante rete di autovelox non sia in grado di prevenire alcun incidente,ma anzi venga utilizzata dalle amministrazioni locali come una vera e propria tassa di passaggio, anche in considerazione del loro posizionamento lungo le direttrici a forte scorrimento.

    L’ipocrisia che rende la sicurezza stradale una volgare opportunità viene certificata dalla rilevazione e gestione delle stesse sanzioni spesso appaltate a società private.

    Per gli enti locali e per lo Stato, quindi, la sicurezza stradale diventa solo un business finalizzato ad accrescere le entrate, in più neppure utilizzandole, all’80% come invece prevedrebbe la legge, non per investimenti in sicurezza stradale ma semplicemente per il finanziamento della spesa corrente.

    Emerge evidente come l’approccio tecnologico alla sicurezza stradale non abbia determinato alcun effetto sostanziale se non quello di foraggiare i bilanci degli enti locale e statali.

    Parallelamente sono state inasprite le norme penali con l’introduzione del reato di omicidio stradale, il cui effetto deterrente risulta ancora irrilevabile in considerazione dei recenti incidenti.  Un percorso, del resto, molto simile a quello avvenuto con l’introduzione del reato di femminicidio che non ha di certo diminuito le aggressioni e tanto meno gli omicidi verso le vittime femminili.

    Ora, poi, sull’onda emozionale suscitata dalle troppe vittime della strada, ecco uscire un viceministro che vorrebbe introdurre l’adeguamento delle sanzioni amministrative al livello del reddito. Una sciocchezza di dimensioni epocali in quanto spesso proprio le vittime sono ragazzi giovani e studenti, quindi privi di reddito.

    Le giovani vittime dei recenti incidenti dovrebbero invece suscitare una riflessione reale relativa all’approccio tecnologico insufficiente per assicurare un minimo livello di sicurezza ma soprattutto alla necessità di ripristinare il controllo fisico delle pattuglie lungo le strade.

    Anche la stessa mancanza di personale adibito al controllo risulta figlia di una classe politica che ha sempre ridotto la spesa per le forze dell’ordine privilegiando gli investimenti in strumenti di controllo da remoto.

    Mai come ora la situazione della sicurezza stradale meriterebbe una riflessione, invece che dell’ennesimo inasprimento di pene e sanzioni partorite dalle solite menti governative infantili e prive di una minima competenza.

  • “United highways of Benetton”

    Ricapitoliamo un po’ di numeri della vicenda autostrade in Italia. Il gruppo Benetton alla fine degli anni ‘90, dopo il fallimento sostanziale della gestione della Benetton SportSystem e nella telefonia cellulare con Blu, acquisisce in due tranche dal governo D’Alema e ministro dell’economia Letta (attuale segretario del PD) la concessione della  società autostrade interamente a debito che poi viene scaricato nella società operativa per oltre 9,36 miliardi.

    Al momento della privatizzazione, infatti, autostrade aveva un debito complessivo inferiore al patrimonio netto: adesso, dopo la gestione del gruppo trevisano, l’ammontare del debito è sei (6) il capitale netto. La giustificazione presentata dalla classe politica governativa trovava la massima espressione di ipocrisia nella necessità di circoscrivere la spesa pubblica e magari contemporaneamente ridurre il debito. In questo senso si ricorda come, seppur privi di dipendenti della società autostrada passati al controllo dei Benetton, la spesa pubblica dal 2000 ad oggi sia aumentata dal 85%. Oltre alla complicità tra la politica e ed un gruppo privato, quindi, si univa la possibilità di liberare risorse pubbliche destinate ai dipendenti di autostrade per altri obiettivi non identificati. Contemporaneamente i dividendi distribuiti negli ultimi vent’anni per gli azionisti risultano di oltre nove (9) miliardi*, 2,7 miliardi per i 4 rami familiari.

    Nel riacquisto della società da parte dello Stato, ai nove miliardi di dividendi, si aggiungono, per la famiglia Benetton, altri cinque (5), anche se qualche giornale parla di sette (7), versati da Cassa Depositi e Prestiti (CDP) (**).

    L’intera operazione United Highways of Benetton, dal momento dell’ingresso a quello dell’uscita del gruppo, porta quindi a 14 miliardi netti in 20 anni il valore complessivo delle risorse percepite dal gruppo di Ponzano, ovviamente libero di qualsiasi debito che rimane a carico di CdP come acquirente. Una operazione che ha “reso” a questi ‘Prenditori italiani’ 325.581.391 euro per ogni vittima del ponte Morandi di Genova interamente attribuibili alla riduzione del 98% delle spese in manutenzione decise dalla gestione privata.

    Il veloce aumento di capitale della azienda madre Benetton di 300 milioni (45% del fatturato) per un fatturato di 700 dimostra inoltre come il cash flow della società autostrade sia stato utilizzato a garanzia della società Benetton abbigliamento la quale è passata da 2,1 miliardi nel 2001 a circa 700 nel 2019. Il leverage buyout rappresenta una forma di acquisizione di un’impresa scaricando i debiti necessari alla scalata da parte dell’acquirente sulla società oggetto della acquisizione.

    Questo tipo di acquisizione dovrebbe essere francamente vietata quando l’oggetto diventa concessioni o società pubbliche (a tal proposito si ricorda la distruzione di valore seguito alla scalata Telecom). La distruzione di Telecom così come di Autostrade che, ripeto, si trova con 6 volte i debiti rispetto al patrimonio grazie alla gestione privata dovrebbe mettere in evidenza e quindi porre rimedio alla volontà speculativa di questo tipo di operazione finanziaria in ambito di aziende o concessioni pubbliche.

    Tornando nello specifico alla vicenda autostrade by Benetton questi sono i nefasti esiti di una gestione speculativa attribuibile ad un management il cui unico obiettivo era quello di creare dividendi per la famiglia che li ha nominati. La complicità dimostrata poi dallo Stato con questo gruppo privato tanto al momento della concessione quanto a quello del riacquisto amplia le responsabilità per la terribile tragedia del ponte di Genova ad un’intera classe politica e dirigente italiana.

    Questa vicenda dimostra ancora una volta come l’Italia nella gestione delle infrastrutture autostradali abbia adottato, invece dei modelli svizzero e tedesco, il modello argentino nato dalla complicità nefasta tra politica e prenditori, entrambi responsabili della tragedia del ponte Morandi.

  • Il ritorno di British Railway ed il silenzio liberale

    Da sempre il confronto tra la visione politico/economico/liberale e quelle “definite” keynesiana e socialdemocratica pone la propria attenzione soprattutto sul ruolo attivo o meno dello Stato all’interno dello scenario economico sempre più complesso ed articolato. Una questione fondamentale, specialmente in un periodo post-pandemico come questo, nel quale i finanziamenti provenienti dall’Unione Europea propongono come centrale il ruolo dell’istituzione pubblica, sia essa statale o europea, e della successiva gestione delle risorse.

    Ancora oggi, come principio “costitutivo”, il pensiero liberale osteggia ogni intromissione dell’istituzione pubblica nel contesto economico lasciando al solo mercato il ruolo di arbitro terzo, mentre la controparte politica indica proprio nello Stato, con un approccio anch’esso “ideologico”, lo strumento per il conseguimento di obiettivi di interesse comune in ambito economico.

    La contrapposizione politica, tuttavia, dovrebbe articolarsi partendo da valutazioni non espresse in periodi straordinari, come quello attuale, ma in termini di principi politici ed economici. I modelli ideologici di riferimento sono conosciuti ed abbastanza immobili rispetto alla costante evoluzione dei complessi quadri economico-politici. Proprio per questo è incredibile sottolineare come un “imbarazzante” silenzio sia seguito alla Rinazionalizzazione delle ferrovie britanniche deciso dal governo conservatore di Boris Johnson.

    Una scelta politica decisamente controcorrente rispetto ai postulati liberali ancora oggi proposti ed adottati nel nostro Paese da chi si definisce liberale. Una scelta del governo britannico che avrebbe dovuto suscitare un dibattito articolato ed approfondito. Questo silenzio ingiustificato di chi si preoccupa molto più delle liberalizzazioni di taxi o di altri servizi alla persona rivela invece come il “pensiero” risulti piuttosto lontano anche solo dalle complessità gestionali di infrastrutture articolate. Il tutto all’interno di un mondo sempre più lontano dai modelli accademici di riferimento colpevolmente granitici come il pensiero politico che ne deriva.

    La Rinazionalizzazione delle ferrovie britanniche parte dalla duplice ed amara constatazione, successiva ad un approfondito studio, dell’abbassamento del livello dei servizi offerti successivamente alla privatizzazione, insostenibile se poi posto in rapporto ai prezzi praticati all’utenza.

    Allargando, poi, la visuale relativa agli effetti della gestione privata di infrastrutture pubbliche, come per esempio quelle autostradali italiane, si rileva amaramente come dal momento della privatizzazione le spese di manutenzione risultino diminuite del 98% (trasformatesi in utili “impropri”, cioè sintesi speculativa di maggiori tariffe unite ai notevoli rischi aggiuntivi interamente scaricati sull’utenza). La questione relativa alla contrapposizione tra visione liberale e pensiero keynesiano e socialdemocratico dovrebbe invece, alla luce della scelta britannica, operare finalmente un salto di qualità. Si dovrebbe partire dalla valutazione delle conseguenze delle diverse strategie e conseguenti esiti relativi all’intervento statale o privato, soprattutto a livello gestionale. Quest’ultimo risulta, infatti, fondamentale all’interno di mercati che necessitano di fattori competitivi sempre più favorevoli alle imprese italiane nella competizione internazionale. Partendo innanzitutto dalla consapevolezza di come anche le grandi infrastrutture, pur restando all’interno di pubbliche gestioni, esattamente come avviene in Svizzera e in Germania, di certo non esempi di economia socialiste, possano manifestarsi come l’espressione di una felice sintesi tra competenza gestionale ed efficacia* (cioè come fattore competitivo per il sistema economico nazionale), quindi come manifestazione positiva e tangibile degli effetti della spesa pubblica sostenuta con il prelievo fiscale degli stessi utenti oltre che contribuenti. La realtà gestionale tedesca e svizzera dimostra come esista una terza via alla crescita di un paese che va ben oltre l’obsoleto confronto tra “liberali o keynesiani e socialdemocratici”.

    La rinazionalizzazione delle ferrovie britanniche unita alla disastrosa gestione privata della rete autostradale italiana di conseguenza dovrebbe inaugurare una nuova scuola di pensiero soprattutto all’interno della compagine liberale in previsione di un nuovo scenario per una economia nazionale competitiva all’interno di un mercato globale. Ad un concetto di semplice e riduttiva liberalizzazione di una rete “infrastrutturale indivisibile” come quella autostradale o ferroviaria la realtà ha dimostrato come ci si trovi di fronte al semplice trasferimento di un monopolio da un soggetto pubblico ad uno gestionale privato.

    Il presupposto di questo trasferimento nella tesi liberale viene supportata dalla corretta verifica degli effetti nefasti legati al monopolio statale. Questo, infatti, ha assicurato rendite di posizione unite ad una esplosione di ingiustificabili “nuovi livelli occupazionali” sempre sostenuti dall’utenza con i propri ticket.

    Contemporaneamente il pensiero socialdemocratico individua, anch’esso correttamente, come tutte le “ottimizzazioni” nella catena dei costi invocate come giustificazione delle concessioni a soggetti privati, unite a fumosi principi di sinergie ed economie di costo, si manifestino nell’unica forma di minori investimenti in manutenzione a favore di utili “impropri” (espressione di un approccio speculativo). Esattamente come la storia ha tristemente ed ampiamente dimostrato con il disastroso crollo del ponte Morandi a Genova.

    A questo punto si pone la questione relativa a come all’interno di infrastrutture pubbliche di importanza nazionale possano attualizzarsi il pensiero liberale e quello keynesiano o socialdemocratico.

    Il settore privato industriale, le cui caratteristiche e competenze risultano molto più ampie e diverse da quello sempre privato ma che si occupa di gestione di servizi in monopolio, si trova a competere nel mercato globale e di conseguenza deve ambire ad operare all’interno di un sistema economico ed istituzionale/amministrativo nazionale ricco di fattori competitivi a loro volta sostenuti anche dall’azione dello Stato: basti pensare agli effetti nefasti della pubblica amministrazione.

    La gestione di una struttura pubblica, specie se interviene come fattore competitivo, dovrebbe partire dalla semplice considerazione della propria importantissima funzione all’interno dello sviluppo economico. La strategia che opera verso un sistema di concessioni private invece rende queste Infrastrutture scollegate dal contesto economico e diventano dei colli di bottiglia esattamente come la pubblica amministrazione. La loro gestione, in altre parole, risulta finalizzata alla semplice sostenibilità economica e nello specifico alla creazione e distribuzione di utili agli azionisti.

    Va ricordato, tuttavia, come queste infrastrutture abbiano in sé la peculiarità del monopolio fisico e che quindi non siano soggette ad alcun tipo di concorrenza: vero principio dello spirito liberale. In questo contesto, allora, tuttala contrapposizione tra il pensiero liberale e quello socialdemocratico dovrebbe venire trasferita nell’ambito della attività gestionale e con essa alla capacità di raggiungere gli obiettivi “macro” in funzione di una crescita.

    L’attenzione deve essere riportata alla consapevolezza del ruolo gestionale nello scenario economico unita alla capacità di creare valore all’interno dello sviluppo economico di un paese. La visione, superata ormai, liberale vede invece solo l’opportunità del perseguimento del massimo profitto come l’unico traguardo da raggiungere: assolutamente legittimo se espressione di una gestione di un’azienda privata. Diventa un fattore anticompetitivo, invece, qualora si tratti di un bene pubblico in concessione senza concorrenza semplicemente, come la storia di autostrade o delle ferrovie inglesi dimostra, perché il solo perseguimento del massimo profitto viene realizzato diminuendo anche gli investimenti e i servizi resi a tariffe superiori (*). In più gli effetti di una gestione privata diventano un ulteriore costo aggiuntivo inserito nella filiera produttiva delle imprese, diventando esso stesso un fattore anticompetitivo per il sistema economico nel suo complesso.

    Il pensiero liberale dovrebbe, invece, in questo contesto svilupparsi nella capacità di individuare all’interno di uno scenario economico complesso gli obiettivi per massimizzare i servizi sotto il profilo qualitativo e quantitativo in modo da renderli fattori competitivi per la crescita economica.

    La Svizzera assieme alla Germania, ed ora la Gran Bretagna con quella della infrastruttura ferroviaria, dimostrano come anche la gestione pubblica delle Infrastrutture autostradali possano rappresentare   l’espressione di un pensiero liberale in quanto si opera con il fine di trasformarli in strumenti di sviluppo e fattori competitivi per i sistemi economici nazionali. Viceversa tanto il pensiero liberale quanto quello socialdemocratico o keynesiano risultano ancora oggi, ed in modo imbarazzante, ancorati a visioni e modelli economici del secolo precedente. La latitanza in questo contesto di un dibattito reale relativo alla “rivoluzionaria rinazionalizzazione” delle ferrovie della Gran Bretagna voluta dal governo di Boris Johnson è quantomeno imbarazzante per un liberale, anche perché la mancanza di un’evoluzione del pensiero politico ed economico liberale può indurre a credere che il modello di riferimento sia più quello argentino che non l’anglosassone.

    È paradossale rilevare come la velocità di cambiamento dei modelli di economia reale risulti maggiore alla capacità di elaborazione delle “ideologie” che li hanno scelti come loro modello di riferimento. Esistono nuovi ambiti di espressione del pensiero liberale, saperli individuare dimostra una aggiornata ed adeguata competenza, espressione del nuovo millennio.

    (*) basti ricordare come le autostrade tedesche siano gratuite per l’utenza mentre in Svizzera si paghi la vignetta valida per un anno a 38,50 euro.

  • Il protocollo 98: il preferito

    Il disastro del ponte Morandi di Genova con i suoi 43 morti dimostra, ancora una volta, come, per quanto riguarda le grandi infrastrutture pubbliche, il problema non possa venire indicato, in modo superficiale, nella differenza tra una gestione pubblica o privata ma tra una competente e responsabile ed un’altra finalizzata al conseguimento di obiettivi. Competenza e responsabilità devono essere regolate da normative semplici e realizzabili che prevedano ovviamente l’elementare applicazione del principio di responsabilità qualora vengano omesse tanto dall’ente statale quanto dal concessionario privato. Un quadro normativo che, in altre parole, permetta soprattutto di porre le condizioni per salvaguardare la vita delle persone che ogni giorno pagano a caro prezzo un servizio autostradale da terzo mondo ormai. (*) In questo senso si sciolgono come neve al sole tutte le “perverse” visioni strategiche ed economiche proposte da accademici uniti, in questa dottrina, ad economisti e rappresentanti dei partiti che hanno spinto, alla fine degli anni ’90, per una privatizzazione di infrastrutture autostradali a prezzi da saldo di fine stagione.

    Si ricorda, inoltre, come, proprio per la sua natura fisica, questa tipologia di infrastruttura pubblica come le autostrade non poteva essere oggetto di applicazione del principio della concorrenza quando invece andavano privatizzati i servizi legati alla movimentazione autostradale. L’accesso all’autostrada in Italia è regolato dalla acquisizione di un titolo di viaggio (quanto più funzionale la targhetta svizzera!!!) o di un Telepass. In questo modo doveva scattare la concorrenza tra soggetti privati imprenditoriali i quali, dopo un bando pubblico, avrebbero dovuto fornire una serie di servizi legati al pagamento del pedaggio insieme magari ad eventuali sconti nelle aree di servizio e per il carburante determinandosi in questo caso un vantaggio per l’utenza.

    Si poteva mantenere, invece, la pubblica proprietà e gestione delle autostrade con l’obiettivo di coprire costi fissi e variabili uniti alle risorse necessarie per la costante manutenzione e una quota del pagamento del pedaggio destinarla a nuovi investimenti. Sempre ammesso che la visione strategica fosse quella di fornire un miglioramento dei servizi autostradali a dei costi concorrenziali e non, viceversa, adottando un modello “argentino” che prevedeva il trasferimento di un monopolio statale ad uno privato nato dalla commistione di interessi tra gestori dei pubblici servizi e privati. E’ incomprensibile infatti come lo Stato, per pochi denari, abbia rinunciato ad un volano di utili come la “sciagurata gestione Benetton” ha assicurato con dividendi annuali miliardari a fronte di investimenti risibili.

    Il ponte di Genova rappresenta l’emblema di questo scellerato modello economico che unisce invece pubblico e privato nell’assoluta irresponsabilità nella gestione della rete fisica autostradale. In questo senso basti pensare come dalla sua inaugurazione (1967) il ponte non abbia mai subito una visita né un approfondimento relativo al suo stato di salute sia quando era all’interno di una pubblica gestione che successivamente all’interno di quella privata, per cui la mancata manutenzione va sicuramente distribuita tra la componente pubblica del Ministero dei Trasporti che del Ministero dell’Economia e dei vari ministri e dirigenti che dovrebbero rispondere in prima persona di questa mancata manutenzione e controllo del Ponte stesso.

    Successivamente alla privatizzazione questa mancata manutenzione andrebbe condivisa con i concessionari privati. Questi ultimi, forti dell’assoluta latitanza di un controllo pubblico, hanno adottato il protocollo 98 per quanto riguarda la manutenzione dell’intera rete di loro competenza. Basti ricordare come i costi di manutenzione, una volta subentrata la gestione dei privati, risultino diminuiti del 98%: ecco la definizione del “protocollo 98″ che tante risate e gioia ha portato ai Benetton in quanto trasformatisi direttamente in utili e di impresa. Il tutto con la compiacenza, probabilmente bene remunerata, del governo D’Alema e del ministro dell’economia Letta (attuale segretario del PD) e del governo Berlusconi nel 2008. Sembra incredibile come ora che ci accingiamo ad ottenere dei finanziamenti per delle nuove infrastrutture nessuno osi mettere in dubbio il modello di gestione delle Infrastrutture già esistenti e quelle in divenire.

    Paradossale poi che gli stessi “figuri” politici che hanno causato questo disastro siano ancora in prima linea per gestire la cosiddetta rinascita finanziata con il Recovery Fund. E’ sempre più probabile come anche in questo contesto il modello che verrà adottato risulti, ancora una volta, sicuramente quello che ha reso lauti dividendi agli azionisti, con buona pace dello Stato. Pubblico e privato entrambi in grado di scaricare ogni rischio ed ogni costo sull’utenza come purtroppo il ponte di Genova ha dimostrato.

    L’adozione del “protocollo 98” risulta ancora oggi quella preferita dalla commistione di interessi politici e imprenditoriali.

    (*) Basti pensare al costo del Telepass scaricato sull’utenza mentre permette alla società autostrade di risparmiare sul personale. Classico esempio di gestione monopolistica permessa ed anzi supportata dallo Stato.

     

  • La Ue introduce pedaggi autostradali più cari per veicoli più datati e inquinanti

    La Commissione europea vuole legare i pedaggi autostradali alle emissioni di CO2 dei veicoli, così da premiare chi inquina meno, incoraggiare l’uso di motori elettrici o ibridi e promuovere l’ammodernamento dei veicoli in circolazione (nel 2018 l’età media nell’Ue andava dai 10,8 anni delle autovetture ai 12,4 dei camion; in Italia siamo più o meno sul valore medio).

    L’idea stuzzicava i vertici dell’Unione già da tre anni (concepita all’inizio solo per i mezzi pesanti, si è estesa gradualmente alle automobili) e ha appena avuto il via libera dalla Commissione La normativa approvata dovrà essere recepita entro il 2022 dagli Stati dell’Ue. Ogni Paese per proprio conto potrà decidere quali dovranno essere i parametri con cui applicare la sovrattassa, tenendo conto della regola generale. Nel 2018 il Parlamento europeo aveva avviato una modifica dei pedaggi per camion e pullman, incoraggiando l’adozione della tariffa autostradale a chilometro, nell’Ue già in vigore da tempo in Italia, Francia, Croazia, Polonia, Spagna, Portogallo e Grecia, mentre in altri Paesi si usano le cosiddette vignette a prezzo fisso (Austria, Repubblica Ceca, Romania, Slovacchia, Slovenia e Ungheria) e in altri ancora non si paga nulla (Germania, Belgio, Olanda, Lussemburgo e Danimarca).

    La Commissione europea ha deciso di accelerare i tempi, che in precedenza prevedevano nell’Unione la riforma dei pedaggi per i mezzi pesanti dal 2023, per le auto dal 2026 e per i veicoli commerciali leggeri dal 2027. Le indicazioni della stessa Commissione prevedono uno sconto fino al 75% per i veicoli che inquinano meno.

  • Autostrade: la sintesi vergognosa tra politica e “prenditori”

    Le frasi ironiche estrapolate dalle conversazioni dell’attuale presidente di Edizioni Holding Mion con i vertici di Autostrade in relazione alla felicità dei Benetton, i quali traevano maggiori profitti dalla minore manutenzione, lascia allibiti per la qualità umana dei protagonisti. Dimostra, ora in modo inequivocabile, quello che una volta poteva essere semplicemente ipotizzato, il vergognoso spessore culturale ed etico di questa famiglia di “prenditori” del nord est trasformatasi in semplici esattori.

    Contemporaneamente non solo il Re è Nudo ma anche l’impero brucia. In questo vergognoso scambio di valutazioni tra questi biechi personaggi che agivano in nome e per conto della famiglia trevisana viene contemporaneamente messa a nudo quella dottrina politico-economica degli anni ‘90 che i governi Prodi, D’Alema e Berlusconi, con i loro ministri economici, hanno portato avanti.

    La storia, infatti, testimonia come l’intera classe politica, accademica e dei media appoggiasse tutta unita la cessione di monopoli infrastrutturali come autostrade e successivamente Telecom Tim a soggetti privati con la già risibile allora motivazione legata ad una ricerca dell'”efficentamento” e finalizzata “al miglioramento del servizio” per l’utenza. Obiettivi raggiungibili secondo questa dottrina politica tutta italiana solo con un sano spirito imprenditoriale privato.

    Allora come oggi la privatizzazione di un servizio indivisibile come autostrade è essenzialmente la donazione ad un concessionario privato per il quale il concetto di efficientamento rappresenta una clamorosa menzogna in quanto il monopolio rimane tale.

    La Germania e la Svizzera dimostrano, invece, come un’infrastruttura fisica ed indivisibile non possa essere soggetta alla concorrenza e quindi un semplice trasferimento di un monopolio da pubblico a privato non possa assicurare alcun efficientamento. Come logica conseguenza delle strategie economiche di questi due paesi, che certamente non fanno parte dell’area socialista, all’interno di un sistema economico la gestione pubblica diventa un fattore fondamentale nella crescita della competitività dell’intero sistema nazionale. In Italia, viceversa, la gestione di un servizio indivisibile diventa un’occasione speculativa offerta dalla politica ad un’imprenditoria incapace ormai di reggere il confronto con il mondo globale.

    Si rimane comunque basiti di fronte a questa insensibilità dimostrata dai manager scelti su mandato dell’azionista e per perseguire gli obiettivi economici indicati dall’azionista di riferimento.

    Una povertà morale, umana ed etica dimostrata in questa vicenda drammatica dal gruppo trevisano nella sua articolata complessità nella quale, si ricorda, sono decedute quarantatré (43) persone solo ed esclusivamente per responsabilità della mancata manutenzione.

    Una scelta speculativa ed irresponsabile che però assicurava un extra dividendo all’azionista. Vergognatevi.

  • Autostrade: l’incompiuta

    Il paradosso italiano della vicenda della società Autostrade è che francamente non è ancora chiaro come si svolgerà l’operazione varata nella notte dal governo Conte e che tanto entusiasmo ha suscitato tra i sostenitori della maggioranza.  Più che ad una operazione finanziaria, economica e politica siamo di fronte ad una semplice dichiarazione di intenti. Gli obiettivi dichiarati sono sostanzialmente riconducibili all’esclusione della famiglia Benetton dalla gestione della rete di Autostrade ed ancora oggi rappresenta un semplice desiderio e comunque precedente a qualsiasi sentenza di un tribunale.

    In questo senso la credibilità italiana, che dovrebbe attirare investimenti dall’estero, subirà un effetto disastroso in quanto questa tragica vicenda, ancor prima della vicenda giudiziaria, dimostra come in Italia un governo possa annullare i contenuti di un contratto invece di portarlo alla normale conclusione o, al limite, ringraziarne i contenuti con un accordo tra le parti.

    Le ipotesi quindi “della rivoluzione autostradale” non sono più relative ad una revoca della concessione, che rappresentava l’obiettivo del governo, ma alla diluizione della quota della famiglia Benetton al 10% in Aspi. Un obiettivo dichiarato dal governo Conte e dei suoi ministri ma ancora non chiaro nelle modalità di attuazione.

    Comunque sia le vie maestre rimangono due per ridurre in minoranza il principale azionista attuale. La prima si può ottenere attraverso una cessione di quote di Aspi dei Benetton a Cassa depositi e prestiti ad un valore che ancora oggi non è stato stabilito che, presumibilmente, potrebbe quasi certamente prevedere l’impiego di qualche miliardo. La seconda mediante un aumento di capitale con l’obiettivo di diluire la quota dell’80% ora in mano alla famiglia di Ponzano Veneto.

    Nel primo caso Benetton, di fatto, otterrebbe un indennizzo probabilmente inferiore ai 23 miliardi stabiliti nel contratto (del cui contenuto nessuno oggi sembra risponderne) ma comunque pari alla valutazione delle quote oggetto di cessione di Aspi.

    Nel secondo la riduzione in quota minoritaria per Benetton sarebbe ancora comunque interamente a spese dello Stato attraverso un aumento di capitale, ed il danno economico per l’azionista Benetton verrebbe rappresentato dalla diluizione della propria quota azionaria. In questo caso, inoltre, si ipotizza l’interessamento, e probabilmente, l’ingresso del fondo americano Blackrock che potrebbe sottoscrivere l’aumento di capitale finalizzato alla messa in minoranza dei Benetton. Un ingresso che nelle aspettative del governo, e di un suo qualche ministro, assumerebbe i connotati del cavaliere bianco che opera pro bono, nel senso che dovrebbe dimostrarsi anche disposto a rinunciare alla remunerazione del capitale per due anni oltre ad accollarsi una quota dei debiti. Una tipologia di operazione finanziaria impossibile da realizzare per un fondo privato il quale ricerca remunerazione del capitale a meno che non si possa assicurare all’investitore successivamente ai due anni un Roe assolutamente superiore anche a quello scandaloso assicurato dai governi D’Alema e Berlusconi all’ Aspi. In entrambi i casi la situazione, tuttavia, appare paradossale.

    Cassa depositi e prestiti sostanzialmente opera con risparmi postali dei cittadini italiani. Lo Stato, sia nel caso nella prima che della seconda opzione, utilizza parte di questi risparmi per acquistare una società che trova la propria ragione d’essere in una concessione pubblica. Lo Stato quindi, in questa occasione, si trova ad essere concessionante e concessionario, in più, per il secondo ruolo di concessionario, deve pure procedere all’esborso di risorse pubbliche di CdP per acquisire quote di una società gravata di pure di debito.

    Nella infantile visione finanziaria, poi, si aggiunge la figura dei fondi privati i quali sottoscriverebbero quote della società di gestione di Autostrade attraverso aumenti di capitale e successivamente quotata probabilmente in borsa (“ma non soggetta alle sue regole”, come affermato da tale Di Maio).

    Una situazione così complessa la cui responsabilità non può essere attribuita al solo governo Conte ma all’intera classe politica degli ultimi vent’anni la quale ha adottato il modello argentino della cessione di monopoli pubblici per renderli privati. Va ricordato infatti come solo in Italia la classe governativa di fine millennio abbia provveduto a vendere i monopoli prima di avviare delle reali politiche di liberalizzazioni (https://www.ilpattosociale.it/attualita/il-modello-argentino-da-un-monopolio-pubblico-ad-uno-privato/).

    Ora con questa operazione sostanzialmente priva di basi finanziarie ed economiche si torna al punto di partenza, nel 1998, creando dei nuovi monopoli statali, magari partecipati da Fondi privati (il cui volume d’affari risulta quattro volte il Pil italiano) che acquisiranno anche attraverso questa operazione un potere invasivo il quale inevitabilmente si tradurrà in maggiori oneri per i consumatori.

    Mai come oggi risulta tristemente evidente come il termine ‘liberalizzazioni’ sia stato utilizzato a sproposito dall’intera classe politica con l’unico fine di gestire la distribuzione dei monopoli pubblici ai privati non avendo operato precedentemente alcuna politica di reale liberalizzazione.

    Si torna così allo Stato imprenditore che nei decenni passati ha ampiamente dimostrato di essere incapace di gestire nell’interesse pubblico un servizio, esattamente come il settore privato il quale, nel caso specifico, attraverso la riduzione del 50% delle spese di manutenzione dell’ultimo decennio, ha viceversa dimostrato di non essere in grado gestire la propria “bulimia da dividendi”. La sintesi evidente di un declino culturale inarrestabile.

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