Avvocati

  • In attesa di Giustizia: attacco alle garanzie

    Milàn l’è semper un gran Milàn: così si dice per sottolineare una sorta di eccellenza della città in diversi settori; con la locale Procura, dai primi anni ’90, vanta anche il primato nel calpestare le garanzie degli indagati: i trucchetti per eludere il termine di durata massima delle indagini prevista per legge svolgendole a totale insaputa dei destinatari, fascicoli con un unico numero di registrazione iniziale creando una sorta di discarica per centinaia di notizie di reato in cui la difesa è di fatto impossibilitata ad orientarsi adeguatamente, il “gioco a nascondino” delle prove a favore degli accusati (quello che ha determinato l’incriminazione del Procuratore Aggiunto Fabio De Pasquale è solo il più noto) sono solo alcuni dei fantasiosi metodi con cui addomesticare i rigori della legge che, nel loro complesso, hanno preso il nome di Codice Ambrosiano, rimarcando una discontinuità rispetto al resto della penisola che tanto il carnevale quanto la Messa avevano già segnato.

    L’ultima tendenza è quella di indagare gli avvocati nell’ambito degli stessi processi in cui sono impegnati nella difesa: ecco così, poco dopo il caso legato al difensore di Alessia Pifferi, una richiesta di interdizione all’esercizio della professione per un anno nei confronti di due professionisti, collegata ad un’inchiesta per traffico di stupefacenti nella quale risultano assistere alcuni dei presunti trafficanti.

    Tale richiesta costituisce un attacco concentrico alle garanzie processuali, alla libertà dell’avvocato e all’esercizio del diritto di difesa che non sono generiche enunciazioni di principio ma canoni costituzionali.

    Ai due sventurati è stato attribuito il reato di ricettazione che consiste nel fatto di chi riceve denaro o altri beni provenienti da reato per procurare a sé o ad altri un profitto e ne sono sospettati per aver ottenuto il compenso per l’attività professionale svolta da parte di soggetti che si presume commercino droga.

    Impressiona per la sua natura l’ipotesi di accusa a carico di clienti che – probabilmente –  non presentano il Modello Unico all’Agenzia delle Entrate ma che dire, allora, se la difesa riguardasse un manager imputato di falso in bilancio o un imprenditore con il vizietto della bustarella, piuttosto che il produttore di salumi che falsamente certifica l’appartenenza al consorzio “Prosciutto di Parma” (sì, può essere un reato anche questo): gli esempi si sprecano e qui si arrestano per questioni di brevità.

    Fortunatamente, non solo a Berlino ma anche a Milano qualche giudice si trova ancora ed in questo caso il Giudice per le Indagini Preliminari cui era stata avanzata la richiesta l’ha rigettata con una motivazione ricca di riferimenti alla giurisprudenza, alle prove ed al buon senso laddove rimarca che il difensore dovrebbe addirittura rinunciare totalmente ai propri compensi allorquando l’assistito sia reo confesso.

    L’iniziativa della Procura, al di là della condivisibile decisione del giudice chiamato a vagliarla, ha determinato una ferma reazione dell’Ordine degli Avvocati di Milano, della Giunta dell’Unione e della Camera Penale di Milano rimarcando la prassi giudiziaria in inarrestabile deriva da quei principi costituzionali, che la magistratura sistematicamente disattende con buona pace della “cultura della giurisdizione” alla quale si dice appartenere anche il pubblico ministero.

    Emerge, viceversa una pericolosa assimilazione della difesa dell’indagato a quella del reato, se non ad una condivisione implicita di scelte criminali.

    Novelli influencers del diritto e della pubblica opinione, è bene che i P. M. si rendano conto che sono lontani i tempi di Mani Pulite e delle manifestazioni davanti al Palazzo di Giustizia con i cartelli “Di Pietro, Davigo, Colombo, fateci sognare”, che la schiera dei loro followers si sta drasticamente riducendo e tra questi non mancano i giudici.

  • Toghe&Teglie: polpettone da cambusa

    Salve! Sono Alessandro Occhionero, sezione milanese di Toghe & Teglie, che questa settimana vi sottoporrà un suggerimento di cucina “da recupero”: a chi non è mai capitato – una domenica sera – di avere voglia di qualcosa di sfizioso, da preparare velocemente e con quel che c’è in dispensa senza preoccuparsi di uscire a cercare il supermercato aperto più vicino?

    Ecco come ho risolto io il dilemma, senza seguire una ricetta particolare ho preparato un polpettone con quello che avevo e un po’ a occhio e condivido con voi lettori la mia esperienza che è risultata assai soddisfacente.

    Procuratevi, rovistando nel frigo, 500 grammi di carne trita scelta di manzo (almeno questa e le uova devono esserci), impastatela aggiungendo due uova, una fetta e mezza di pane da tramezzino ammollato con un po’ di latte caldo (senza strizzarlo): un po’ di pane e latte, di solito, si trovano in qualche anfratto del frigo e della dispensa.

    Unite, poi, al composto del prezzemolo fresco, qualche fetta di prosciutto, meglio se cotto al forno (leggermente affumicato) e tritato con la mezzaluna, del parmigiano senza lesinare sulla quantità, sale, pepe e noce moscata q.b.. Ora amalgamate il tutto con le mani e nel finale date alla carne trita così “arricchita” la forma di un salame e avvolgetela con della pancetta, possibilmente quella al pepe.

    Siamo alle battute finali: posate il vostro polpettone in una padella ben “ingrassata” con del burro chiarificato e date una bella rosolata a fuoco moderato; poi mettetelo in una pirofila ed in forno portato a 180° con aggiunta di rosmarino e ci sta bene anche qualche fogliolina di salvia (che io non avevo) aspergendo generosamente di vino bianco…vino, eh? Non Tavernello e simili insapori liquami e fate andare fino a cottura, osservando l’esterno e saggiando di quando in quando l’interno badando bene di lasciarlo umido.

    Patate anch’esse al forno o un’insalata mista si accompagnano molto bene così come un rosso a gradazione sui 13° fatto respirare con il dovuto anticipo.

    Dai, lo so che la fornitura della cambusa può essere differente dai suggerimenti che ho dato ma la ricetta è davvero facile e si presta a numerose variazioni a seconda delle disponibilità di ingredienti: metteteci fantasia pensando alla combinazione dei sapori…oppure procuratevi tutto per tempo.

    Alla prossima.

  • In attesa di Giustizia: fine pena mai

    Si è concluso il processo a carico di Alessia Pifferi accusata dell’omicidio della piccola Diana, sua figlia, e si è concluso secondo un copione che sembrava già scritto prima ancora che iniziasse e che accadesse l’imprevedibile con la inusitata ed opinabile scelta del Pubblico Ministero di indagare – ad udienze in corso e con grande risalto – il difensore dell’imputata e le psicologhe di San Vittore sospettate di aver alterato gli esiti della osservazione diagnosticando disturbi della personalità che avrebbero potuto condurre ad una sentenza quantomeno mitigata dalla infermità di mente.

    Ma il popolo italiano (quello nel cui nome sono, o dovrebbero essere, pronunciate le sentenze), animato dal vizio populista di reclamare la forca una decisione l’aveva già presa senza abbandonare quello di etichettare gli avvocati e senza bisogno di essere ulteriormente condizionati.

    Sola nelle scelte tecniche e strategiche cruciali, criticata, indagata, insultata e minacciata, Alessia Pontenani ha mostrato un impegno come difensore che richiama al ricordo le parole di Ettore Randazzo – un grande avvocato che ora non c’è più – riferite ai colleghi che assistevano i presunti assassini di un collega ucciso per non essersi piegato ai desiderata di una cosca. Quelle frasi intense e intrise di sensibilità sono tornate alla mente modificate ed attualizzate: “non la invidio: difende una madre accusata di avere assassinato la sua bimba. La invidio: sventola il vessillo della Toga, ancora più bello e orgoglioso quando svetta tra le avversioni e le ostilità”.

    L’avvocato Pontenani ha fatto del suo meglio, optando per una difesa tecnica per nulla banale e scontata che era ed è l’unica coerente con la logica e le prove: ha sostenuto che si trattasse di un caso di morte come conseguenza non voluta di altro reato. Se quella madre avesse voluto sopprimere la sua creatura, vista come un ostacolo alla sua quotidianità, lo avrebbe potuto fare in moltissimi altri modi e momenti, ma non vi è prova che fosse quella la sua intenzione. Scellerata, anaffettiva, libertina…della Pifferi si possono certamente dare giudizi molto severi che possono essere tenuti in conto come contributo non esclusivo nella misurazione della pena e solo dopo avere attribuito la responsabilità per fatti penalmente rimproverabili correttamente qualificati secondo i parametri della legge: e quello della piccola Diana non è un omicidio voluto ma la conseguenza dell’abbandono –(fatto spregevole, non v’è dubbio, ed è un reato infamante anche quello) per dedicarsi altrove al fidanzato del momento – circostanza eticamente riprovevole, nessun dubbio anche in ordine a ciò – e non era neppure la prima volta. Pessima cosa, ma non era mai successo niente in passato e per una persona affetta da evidenti deficit cognitivi pur non essendo una malata di mente è stato sufficiente per riprovarci “alzando l’asticella”.

    E la volontà di uccidere la bimba da cosa si ricava, dov’è la prova di quello che si chiama “dolo di intenzione”? Colpevole, ma di un crimine diverso dall’omicidio volontario che prevede comunque pene severe.

    Alessia Pontenani, sostenendo questa tesi giuridicamente sensata ha sicuramente fatto riflettere i due giudici togati, sicuramente ha non ha convinto i sei “giurati” che, esprimendo il proprio voto, hanno seguito percorsi argomentativi diversi, impressionati dal fatto in sé, dalla crudezza dei dettagli; e non è colpa loro se per nulla si intendono di sovrapponibilità della fattispecie concreta a quella astratta ai fini della qualificazione giuridica del fatto, elemento psicologico del reato, differenza tra dolo eventuale e colpa cosciente: questioni non sempre di agevole soluzione anche per i giuristi e complicatissime da chiarire in una camera di consiglio arroventata dalle emozioni, in una manciata di ore, con parole semplici.

    Alla fine, è parere del curatore di questa rubrica, ha prevalso la visione di una giustizia più da Stato Etico che da Stato di Diritto.

    La decisione della Corte deve, comunque, essere rispettata e se non condivisa la si appella. Indigna – invece – l’ondata di insulti e odio riversata sul difensore dalla solita accolita dei “leoni da tastiera” che, a modo loro, distinguono il mondo tra buoni e cattivi spostando l’asse dal mondo delle idee e del pensiero a quello degli schieramenti contrapposti.

    Alessia Pontenani che ha unicamente fatto il suo dovere non merita tutto questo come la sua assistita, forse, non meritava l’ergastolo: molti nemici molto onore, avrebbe detto qualcuno ma non è politically correct e, allora, a questo coraggioso avvocato sia dedicato in omaggio il pensiero di Bertold Brecht: “abbiamo scelto di sedere dalla parte del torto perchè da quella della ragione i posti erano tutti occupati”.

  • Toghe&Teglie: pasta con fave salsiccia e pecorino

    Buona settimana a tutti i lettori da Rieti e da Tiziana D’Orazio del Gruppo Toghe & Teglie: in una stagione propizia per le fave, quello che vi propongo è un piatto tipico del Centro Italia. A proposito, lo sapevate che Rieti è il Centro d’Italia? Veniteci a trovare, oltre ad un’ottima cucina troverete una città piacevolissima da visitare e, in Piazza San Rufo, c’è il monumento all’ombelico della penisola che ne indica la posizione esatta…ma qui stiamo divagando, scusate: procuratevi subito una ampia padella (sempre meglio un coccio), dell’olio evo e della cipollina fresca e cominciamo, giusto il tempo di sbucciare le fave.

    Fate imbiondire nell’ olio la cipollina dopo averla affettata, aggiungete le fave, sale e pepe q.b. e della menta romana fresca, procedete a fuoco basso.

    Nel frattempo mettete a bollire l’acqua ove calerete a vostra scelta dei maccheroncini, dei pici, spaghettoni…insomma questo piatto si presta all’utilizzo di qualsiasi formato di pasta ed, a parte, fate soffriggere della salsiccia mondata e sbriciolata unendovi le fave quando saranno cotte.

    Mantenete in temperatura il condimento cercando di coordinare i tempi di cottura con quello della pasta che calerete nel condimento mantecando a fuoco spento senza farsi mancare una generosa spolverata con del pecorino non troppo stagionato e sapido.

    Servite guarnendo con altre foglioline di menta romana. Come variante si può sostituire la salsiccia con del guanciale e, volendo, parte delle fave può essere frullata per realizzare un composto con cui rendere più cremoso il piatto. Le variazioni sull’abbinamento fondamentale fave-pecorino-salume possono essere molte: la fantasia in cucina è un ingrediente che non può mai mancare.

    Arrivederci a tutti.

  • In attesa di Giustizia: cinquanta sfumature di impunità

    E’ successo ancora, ed è successo ancora in Toscana: sentenze scritte prima della conclusione di un processo e dopo Lucca ora è toccato a Firenze, episodi gravissimi non isolati né limitati al perimetro di quella regione che, probabilmente, sono solo la punta di un iceberg.

    Come in altri casi simili, la scoperta è avvenuta in maniera fortuita da parte di un avvocato che ha chiesto di consultare in aula il fascicolo di ufficio nella stessa aula in cui attendeva di discutere rinvenendo all’interno la decisione già pronta. Il seguito, innescato dall’invito ad astenersi rivolto a giudici con evidenti pregiudizi ha avuto come pendànt una reazione a dire poco scomposta anche dei vertici del Tribunale chiamati a decidere giustificando l’accaduto con una iattante pezza peggiore del buco…anzi con una serie di pezze che denotano spocchia e mancanza di un impulso ancorché tenue a scusarsi e quella incapacità di provare vergogna tipica degli impuniti.

    Per una migliore comprensione degli sviluppi si tenga presente che la consultazione di quel fascicolo – mentre i giudici erano in camera di consiglio per altri incombenti – era stata effettuata dopo aver chiesto, come prevede la legge, l’autorizzazione al P.M. presente.

    Il successivo, inevitabile, invito ad astenersi rivolto dal difensore al Tribunale ha avuto come seguito necessario l’invio di una relazione scritta dei tre magistrati del Collegio al Primo Presidente del Tribunale cui competeva decidere in proposito e che, in base a quella relazione, ha ritenuto che non risultano violazioni a carico dei giudici ma, piuttosto, scorrettezza dell’avvocato che avrebbe curiosato di soppiatto nel fascicolo sebbene, come detto in precedenza, sia il codice a prevedere che quando il Tribunale non è in aula sia il Pubblico Ministero ad averne la gestione anche sotto il profilo delle autorizzazioni, esattamente come era accaduto. Il livello argomentativo è quello del bue che dice cornuto all’asino e come difesa corporativa da parte di soggetti che dovrebbero conoscere la legge non è decisamente un granché.

    La sentenza già scritta, comunque, c’era ed era necessario offrire una spiegazione: e qui il miserevole spettacolo si sposta sui maldestri rappezzi: “era solo una bozza,  non era stata ancora firmata, si trattava solo di qualche appunto…” e la peggiore di tutte “potevano cambiare idea”: già, quell’idea che si erano fatti prima ancora delle arringhe e che era stata annotata con tanto di determinazione della pena su un foglio con lo stellone della Repubblica, la dicitura In nome del Popolo Italiano e la data, guarda caso quella della udienza precedente in cui avrebbe dovuto concludersi (ma non si era concluso) il processo.

    A fronte di un simile sconcio la Camera Penale di Firenze ha proclamato tre giorni di protesta e sciopero invitando l’Associazione Magistrati a confrontarsi in un’assemblea pubblica ma i suoi rappresentanti hanno evitato anche solo di farsi vedere: forse erano impegnati a scrivere altre sentenze prima della fine dei relativi processi, unti del Signore con capacità divinatorie sul contenuto delle discussioni.

    Pagherà qualcuno per tutto ciò? Probabilmente nessuno perché è ben noto quanto sia creativa e di larghe vedute la giustizia disciplinare “domestica” del C.S.M., abilissima nel riconoscere tutte le sfumature dell’impunità: scarsa rilevanza, unicità dell’episodio, eccessivo carico di lavoro, momento difficile in ambito famigliare…Merita, quindi, di essere segnalata come sussulto di dignità la delibera che ha negato la conferma di Fabio De Pasquale come Procuratore Aggiunto a Milano, disattendendo il parere favorevole del Consiglio Giudiziario e di cui si è occupato lo scorso numero di questa rubrica: “risulta dimostrata l’assenza dei pre requisiti di imparzialità ed equilibrio avendo reiteratamente esercitato la giurisdizione in modo non obiettivo né equo, senza rispetto delle parti, senso della misura e moderazione rappresentando un modus operandi consolidato che impediscono la conferma in un ruolo semi direttivo”. Forse il 100% di assoluzioni nei processi che aveva imbastito contro Berlusconi, che sono solo quota parte di uno score imbarazzante per la percentuale di fallimenti investigativi, hanno avuto un peso di cui il Consiglio Giudiziario si era dimenticato.

  • Toghe&Teglie: le montanarine

    Sono di nuovo a voi, cari lettori: Emilia De Biase, campana trapiantata a Milano del Gruppo Toghe & Teglie e sono qui per proporvi una ricettina facile facile da realizzare più che mai ad “occhio” e “ammor” con le dosi. Le montanarine, una delizia napoletana che pare strano siano tipiche di una città di mare: infatti prendono il nome dall’usanza dei contadini che provenivano dalle alture campane di consumare come spuntino queste che – in fondo – sono delle gustose pizzette fritte.

    Per una quantità moderata di montanarine procuratevi innanzi tutto 300 grammi di farina 00, 180 grammi di acqua appena tiepida (“acqua morta”), mezzo cubetto lievito birra, un cucchiaino di zucchero, un cucchiaio di olio evo oppure una cucchiaiata di strutto – che sarebbe “la morte sua” – sale q.b.

    Per il condimento e la preparazione finale, e qui andate veramente “a occhio”, servono ancora olio evo, uno spicchio di aglio, della passata di pomodoro, sale q.b., olio di semi, basilico e parmigiano a volontà.

    Fate sciogliere il lievito nell’acqua con lo zucchero e lasciatelo attivare per almeno cinque minuti poi versate il liquido così ottenuto in una ciotola dove sarà già stata approntata la farina setacciata e cominciate prima a mescolare e poi ad impastare sempre nella stessa ciotola.

    Il composto all’inizio sembrerà orribile, ma poco a poco la maglia glutinica farà il suo e lo renderà più guardabile…soprattutto dopo aver aggiunto lo strutto o l’olio ed il sale e averlo ancora impastato per qualche minuto.

    A questo punto lasciate l’impasto a riposare, coperto nella sua ciotola, per una decina di minuti. Trascorso questo tempo, rovesciatelo su un piano di lavoro tirandolo su quattro punti, quasi a formare un rettangolo, fate quattro pieghe, cioè prendete le due punte superiori, allungatele un po’ e piegate l’impasto verso il centro da tutti i lati. Terminate facendo una pallottola trascinando il prodotto delicatamente nel chiuderlo sotto. Riponete una seconda volta in ciotola per un riposo di altri 10 minuti e dopo ripetete una volta l’operazione delle pieghe, della arrotolatura rimettete nuovamente a riposo; questa volta, però, in ciotola unta con un po’ d’olio e lasciate lievitare dalle due alle tre ore, fino – più o meno – al raddoppio di volume con copertura con una pellicola a contatto.

    Mentre l’impasto lievita, va preparata una salsa semplicissima: si fa soffriggere in olio evo, in una idonea pentola da sugo, lo spicchio d’aglio in camicia schiacciato, fino a vederlo imbiondito; a questo punto toglietelo via, dopo averlo un po’ pressato con i rebbi di una forchetta perché rilasci aroma e gusto e versate in casseruola una buona passata di pomodoro, sale (sempre a piacimento) e basilico. Lasciar cuocere con coperchio e a fiamma bassa fino ad ottenere una bella salsetta densa.

    Trascorso il tempo di lievitazione, rovesciate nuovamente l’impasto su in piano di lavoro, staccatene dei pezzetti, formando delle pallette che vanno stese con le dita lasciando un incavo nel mezzo. Queste “pezzelle” andranno poi fritte in olio di semi ben caldo: si gonfieranno mentre cuociono (se necessario irrorate con altro olio bollente) e, aiutandovi con un cucchiaio, schiacciate leggermente in centro per mantenere un posticino per la salsa. Giunte a doratura bisognerà riporle su carta assorbente e a questo punto si passa a farcirle con la salsa intiepidita nell’incavo centrale, parmigiano con abbondanza e una fogliolina di basilico ricordando che il basilico va spezzato a mano, mai con le forbici!

    Ecco qua…buon divertimento e buon appetito a tutti.

  • In attesa di Giustizia: fantasia al governo

    Uno dei tanti delicatissimi compiti affidati ai magistrati è la motivazione tanto delle loro richieste – quando si tratta di Pubblici Ministeri – che delle loro decisioni nel caso dei giudicanti e cioè dire devono esporre le ragioni che le sorreggono descrivendo il percorso conoscitivo e l’analisi delle prove che, a sua volta, deve risultare immune da vizi di logica, contraddizioni, omissioni di evidenze.

    E qui viene il bello, si fa per dire, per la fantasia non sempre sana che viene impiegata: basti dire che una volta, appena approdato in Cassazione, Piercamillo Davigo, durante una conversazione, affermò “che fatica che a volte bisogna fare per salvare delle sentenze insalvabili”. Ma stiamo parlando del campione del giustizialismo, fortunatamente pensionato, che di quella fantasia abbondava.

    Le “chicche” peraltro continuano a non mancare ed un esempio recente è questo con il quale si è deciso che se un avvocato non può leggere gli atti di un processo si tratta di trascurabile cosa.

    L’argomento è stato affrontato alla sesta sezione penale della Cassazione, sentenza depositata il 2 maggio, esaminando l’ennesima forzatura, priva di buon senso, di un Tribunale prima e di una Corte di Appello poi che hanno negato la sussistenza di legittimo impedimento ad un difensore che aveva chiesto rinvio di udienza certificando di essere affetto da un “riacutizzarsi della miodepsia in occhio sinistro con esiti di distacco posteriore del vitreo con calo visivo e deficit di concentrazione”; raccomandati sette giorni di riposo assoluto evitando sia la lettura che la scrittura.

    Secondo i giudici di merito l’avvocato non avrebbe comunicato immediatamente quell’impedimento e la patologia documentata non “avrebbe esposto il legale ad un rischio grave per la propria salute” in quanto, in quella udienza, si sarebbero solo dovuti ascoltare dei testimoni. Poco importa, quindi, se nei giorni precedenti non è stato possibile preparare il controinterrogatorio rileggendo atti e documenti, poco male se l’avvocato non può confrontare ciò che viene riferito a voce con quanto verbalizzato in precedenza e poco male anche se la sua patologia peggiora perché deve fare gli sforzi sconsigliati in un’aula.

    La sesta sezione, una delle migliori della Corte di Cassazione, ha accolto il ricorso contro queste bestialità ritenendo – in particolare – che l’impedimento fosse stato comunicato tempestivamente come prevede la legge: in questo caso la certificazione medica era datata un venerdì 22 gennaio e depositata il lunedì successivo ma i primi giudici avevano preteso ben diversa e fulminea attivazione…come se fosse possibile credere che nel week end (a prescindere dai momenti di chiusura totale al pubblico) le cancellerie fossero aperte alla bisogna ed i giudici in anelante attesa di ricevere una pec con siffatta comunicazione.

    Ma passiamo ad un diverso esempio ed alla fantasiosa motivazione che viene stesa dal Consiglio Giudiziario di Milano a vantaggio…ma – vedi un po’ – di un Pubblico Ministero. Per chi non lo sapesse, il Consiglio Giudiziario è una sorta di C.S.M. “periferico” che si occupa di valutazioni dei magistrati locali da inoltrare, poi, al Consiglio Superiore per quanto di sua competenza: come nel C.S.M., nel Consiglio Giudiziario ci sono anche avvocati ma qui non hanno voce in capitolo se non per quanto riguarda i Giudici di Pace (che, a loro volta sono avvocati che svolgono la funzione a titolo onorario).

    Parliamo di quel Fabio De Pasquale che la settimana scorsa abbiamo visto annaspare in una improbabile difesa di sé davanti al Tribunale di Brescia che lo sta giudicando per avere occultato prove a favore di imputati al fine di ottenerne la condanna. Ingiusta, c’è bisogno di dirlo?

    Ebbene il nostro uomo è in corsa per vedersi confermare il ruolo di Procuratore della Repubblica Aggiunto per altri quattro anni ed il Consiglio Giudiziario ha espresso un apprezzamento che sarà trasmesso a Roma: è ben vero che la condotta di De Pasquale è da considerarsi “non imparziale” (il termine esatto sarebbe ben altro…), tuttavia si tratta di episodi legati ad un solo processo che non intaccano i requisiti di imparzialità ed equilibrio richiesti dalla legge. Peccato che queste innocenti marachelle siano costate un patrimonio allo Stato per imbastire un monumentale processo finito nel nulla esponendo la Procura di Milano ad una figuraccia di livello planetario, peccato che sia stato dimenticato il parere negativo originariamente espresso dal Procuratore Facente Funzioni, Riccardo Targetti, un gentiluomo andato in pensione, peccato che avere uno dei vertici dell’Ufficio sotto processo (forse, presto condannato per come stanno andando le cose a Brescia) non sia esattamente il fiore all’occhiello della Procura ma, probabilmente, stiamo assistendo una volta di più ad uno di quei giochetti tra correnti della magistratura, ad uno scambio di favori ed una motivazione fantasiosa aiuta.

    Come direbbe Cicerone: le malattie dell’anima sono più pericolose di quelle del corpo.

  • Toghe&Teglie: maccheroni al ferretto con tartare di gamberi

    Ciao, ciao a tutti! Dopo poche settimane torno a voi lettori con una preparazione che ha fatto venire l’acquolina in bocca ai miei amici di Toghe & Teglie. Sono Vittorio Pacchiarotti, mi piace dire componente del Dream Team Laziale del Gruppo che un paio di anni fa ha inflitto una sonora lezione ad una squadra di magistrati romani in una competizione ai fornelli…ma passiamo al presente ed alla ricetta.

    Chiariamo subito che il formato della pasta non è decisivo; con i maccheroni al ferretto il risultato finale è eccellente ma ne possono andare bene altri: preferibilmente – però – pasta grossa e fresca o, al più, una chitarra o dei pici purchè assorba bene il condimento. E partiamo proprio da quello: per iniziare separate le teste, le chele e la coda di gamberoni rossi, avendo cura di eliminare gli occhi che possono dare una punta di amaro, per preparare la bisque nel modo canonico: cipolla, concentrato di pomodoro, pomodorini, uno spicchio d’aglio e peperoncino. Fate soffriggere con un filo d’olio e poi sfumate con del vino bianco.

    Ora ricoprite d’acqua e lasciate cuocere a fiamma bassa per un’oretta, togliete dal fuoco, filtrate con un colino e spolverate con prezzemolo fresco.

    Le code dei gamberoni, invece, mettetele nel frattempo a marinare con succo di limone, di arancia, pepe, prezzemolo ed un filo di olio evo; pulite, mettendoli da parte, anche dei gamberetti.

    Terminata la marinatura e pronta la bisque, mandate a bollore l’acqua, salate e buttate la pasta da scolare al dente (tre minuti circa prima del tempo di cottura indicato: dipende dal tipo impiegato) mentre, a parte, in una padella fate scottare appena i gamberetti già mondati con olio, gambi di prezzemolo, aglio e pochissimo peperoncino, sfumando il tutto con mezzo bicchiere di vino bianco secco.

    Scolate e mantecate la pasta a fuoco medio con la bisque insieme ai gamberetti aggiungendo una generosa dose di succo di arancia e limone biologici.

    Completate l’impiattamento con l’aggiunta dei gamberoni rossi già marinati ed una macinatina di pepe profumato q.b.

    Il gioco è fatto! Buon appetito a tutti.

  • Toghe&Teglie: lasagne con asparagi e scampi

    Sono Anna Paola Klinger della sezione lagunare di Toghe & Teglie, buona settimana a tutti!

    La proposta per voi lettori è una lasagna, “sbagliata” direbbero i puristi che – a malapena – tollerano la versione ligure con il pesto.

    Di sbagliato ci sarebbe, sicuramente, non provare neppure a realizzare questo piatto: poi, chiamatelo come vi pare per non offendere le sensibilità altrui.

    Iniziate preparando la indispensabile con 750 ml. di latte, 60 gr. di burro e 60 di farina bianca fatto andare il tutto in un pentolino a fuoco medio, rimestando con un cucchiaio di legno fino a quando gli ingredienti non si saranno amalgamati offrendo la tipica, densa, cremosità della besciamella.

    A parte, cucinate al vapore gli asparagi, circa 1 kg, e date un lieve bollore agli scampi. Poi, tagliate i gambi degli asparagi tenendo a parte le punte, frullateli e uniteli alla besciamella, regolando il sale.

    Ora preparatevi per la parte di finale: procuratevi delle sfoglie di pasta (sono tollerate anche quelle già pronte ma sarebbe meglio farle in casa…) e realizzate sei strati: lasagna, besciamella, punte di asparago e scampi tagliati a pezzettini.

    Sopra lo strato finale pennellate solo della besciamella, spargete qualche punta di asparago e una spolverata di grana non troppo stagionato per fare la crosticina. Infornate a 180 gradi per mezz’ora più cinque di grill e lasciate riposare dieci minuti prima di servire.

    Da Venezia per ora è tutto, a presto!

  • In attesa di Giustizia: chi tocca i fili muore

    E’ questo l’avvertimento affisso ai piloni che sorreggono condotte di elettricità ad alta tensione ed un analogo monito viene rivolto a chi si permette di far buon governo del diritto di critica nei confronti della magistratura; monito che – come i lettori possono constatare – scivola senza attrito sui binari della indifferenza della redazione de Il Patto Sociale.

    Da ultimo è capitato ad Ermes Antonini, ottimo redattore del Foglio, che si è permesso di esprimere il proprio pensiero su un paio di P.M. fiorentini già titolari di indagini tanto strampalate quanto grottescamente insistite.

    Basti dire che uno di questi ha imbastito per anni un’inchiesta su una fondazione supponendo che avrebbe costituito il travestimento di una corrente di partito creato ad hoc per eludere la disciplina sul finanziamento pubblico: si è perso il conto di quante volte la Cassazione, annullando sequestri a raffica, ha ribadito che si trattava di un’idea quantomeno bislacca; alla quarta tirata di orecchi si è aggiunta una decisione della Corte Costituzionale che riteneva illegittimo l’uso che aveva fatto delle intercettazioni di un parlamentare poiché prive di autorizzazione della Camera di appartenenza. Ma il magistrato ha proseguito imperterrito.

    Il Procuratore Capo di Firenze, mentre vengono preannunziate querele, ha chiesto che il C.S.M. apra una pratica a tutela del proprio ufficio perché il giornalista avrebbe fatto trasparire una volontà persecutoria. Forse avrebbe fatto meglio a riflettere sul fatto che siano taluni comportamenti dei sui sostituti a delegittimare la Procura. Un caso quasi affascinante di dispercezione della realtà, di inversione della logica delle cose.

    E dire che, solo una settimana, fa “Giustizia Insieme”, la rivista che si propone l’ambizioso progetto di realizzare una piattaforma di confronto tra avvocati, magistrati e studiosi del diritto, ha organizzato un convegno dedicato al sacrificio di Giacomo Matteotti nel corso del quale si è discusso civilmente di libertà della magistratura e dei criteri di valutazione della professionalità: peraltro, questo subitaneo fiorire di lamenti e querele di alcuni magistrati contro gli autori di articoli di stampa riportano alla dura realtà e quando si nega il diritto alla parola non tira una buona aria. Proprio Matteotti pagò con la vita, un pericolo che oggi fortunatamente non si corre ma anche la minaccia di una azione giudiziaria che si gioca sul “terreno amico” è qualcosa che fa a pugni con la democrazia e quella libertà che si invoca per se stessi: meglio sarebbe considerare che le critiche possono essere costruttive.

    Ciononostante, la magistratura sembra esserne impermeabile se non apertamente irritata, incapace di una seria autocritica come dimostrano le incredibili motivazioni (depositate in questi giorni) con cui la Corte di appello di Roma ha accolto la revisione di quel Beniamino Zuncheddu di cui la rubrica si è già occupata, riconosciuto innocente dopo oltre trent’anni di carcere.

    Neanche due parole di scusa (figurarsi) in quelle pagine in cui ritorna il  leit-motiv del colpevole che l’ha fatta franca e dalle quali traspare il fastidio di aver dovuto riaprire questa vicenda riconoscendo un errore giudiziario marchiano al quale si tenta, tuttavia, di trovare una giustificazione arrivando a sostenere che “la già esile speranza di poter pervenire ad una ricostruzione veritiera ed attendibile dello svolgimento dei fatti dopo trent’anni è stata gravemente pregiudicata dalla forte attenzione mediatica riservata a questa vicenda, tale per cui sono state divulgate disinvolte ricostruzioni dei fatti arricchite da discutibili commenti, giudizi personali, congetture, valutazioni unilaterali prive del dovuto contraddittorio (e quindi lacunose e parziali) che hanno inciso sulla genuinità dei testi, che invece avrebbero forse potuto offrire qualche spiraglio di verità se fosse stato lasciato libero il campo alla memoria di ciascuno di essi, non influenzata da narrazioni preconfezionate”.

    Si sarebbe, quindi, dovuto tacere e non vedere? Zuncheddu non avrebbe dovuto gridare la sua innocenza per trentatre anni? il Partito Radicale e la garante dei detenuti della Sardegna non se ne sarebbero dovuti occupare e i giornali – sempre dopo decenni di sofferenze – non avrebbero dovuto scriverne? È loro la colpa se si sono intorbidate le acque al punto che è “esile speranza” quella di pervenire a una ricostruzione “veritiera e attendibile”. Il fatto che non ci siano prove contro Zuncheddu, che quelle prodotte a suo carico siano state fabbricate, è responsabilità di tutti, ma non dei magistrati che hanno gestito indagini e processo. La Corte, mostrando di dubitare fortemente della innocenza, ha rimarcato che l’assai tardiva assoluzione di questo pover’uomo interviene per quella che una volta si chiamava insufficienza di prove, formula inopportunamente evocata laddove risultano effettivamente subornazioni dei testimoni, ma all’epoca dei fatti e da parte degli inquirenti sardi ed accertamenti investigativi quantomeno carenti. Tanto nessuno paga mai per errori ed orrori giudiziari, neppure davanti al C.S.M. dove la parola magica per addomesticare la giustizia disciplinare è “fatto di scarsa rilevanza” locuzione utilizzata con abitualità che vuol dire tutto e niente. Soprattutto niente e colpevoli che la fanno franca.

    Lasciate allora perdere le querele, le pratiche e a tutela ed al procuratore Gratteri che si chiede perché avere paura di lui e dei suoi colleghi il suggerimento è che si faccia seriamente e non retoricamente la domanda e si dia con serietà una risposta.

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