Avvocati

  • Toghe&Teglie: la ribollita

    Buone Feste, cari lettori! Sono Donatella Cungi avvocato della nota consorteria Toghe & Teglie, milanese con ascendenze tosco brasiliane: già, proprio un bel mix e questa settimana sono stata prescelta per rappresentare il Gruppo non con la picanha, neppure con una cotoletta impanata ma con una mia versione, per la verità molto classica, della ribollita, tradizionale piatto della cucina toscana, quella cosiddetta povera ma molto gustosa.

    Armatevi di cipolla, carote, sedano ed uno spicchio d’aglio e metteteli a soffriggere preferibilmente in una pentola di coccio con olio di quello buono.

    Poi aggiungete delle patate mondate della buccia e tagliate a tocchetti di grandezza a scelta e due cucchiai di concentrato di pomodoro, arricchite con un altro giro di olio e regolate di sale e pepe.

    Avanzate di qualche minuto nella cottura prima di inserire anche una mezza verza tagliata fine e una quindicina di foglie di cavolo nero (la mia preparazione era per tre/quattro persone) e ci sta un altro giro di olio.

    A parte avrete nel frattempo cotto dei fagioli cannellini con aglio e salvia e con il cui brodo dovrete diluire le verdure senza far mancare l’ennesimo giro d’olio.

    A questo punto passate 3/4 dei fagioli e aggiungete la crema così ottenuta unitamente a 2-3 mestoli di cannellini interi. Lasciate andare, sempre a fuoco moderato, per un’ora poi spegnete e fate riposare.

    Durante il riposo della ribollita prendete una pirofila e metteteci pane toscano (senza sale) raffermo sul fondo sul quale andrete a versare la minestra (non troppo asciutta, mi raccomando!) poi ancora pane e ancora zuppa, olio (sì non deve mancare mai e peggio per il giro vita), sale e pepe ad aggiustare.

    Il tutto va passato in forno preriscaldato a 180 gradi a ribollire per mezz’ora. Se piace si può aggiungere mezzo peperoncino ed il vero trucco è non avere fretta nella preparazione e lasciarla riposare più che si può prima dell’infornata finale.

    Ricetta lunga da realizzare ma non laboriosa e l’impresa merita.

    Stappate per tempo, facendolo respirare, un ottimo rosso toscano e…buon pranzo a tutti!

  • Toghe&Teglie: risotto rape e gorgonzola

    Buona settimana a tutti i lettori, sono Pietro Adami, veronese, uno dei fondatori del Gruppo Toghe & Teglie che tra poco compirà dieci anni: i primi veri freddi suggeriscono piatti a più elevato contenuto calorico che, chissà come mai, sono sempre i più gustosi ed a voi propongo questo risottino frutto della mia personale inventiva; su questa ricetta ragionavo da un po’, immaginando come potesse risultare la combinazione dei sapori, infine mi sono deciso ed il risultato è stato più che soddisfacente, almeno per il mio palato…ed il vostro? Beh, provare per credere.

    Procuratevi delle rape già cotte, lessate, per velocizzare il processo e ponetele in una terrina dove rilasceranno il loro liquido (che a differenza della rapa in sè, ha meno retrogusto di … terra) e conservatelo.

    A questo punto ripassate in un’ampia padella della cipolla tritata finemente con un filo d’olio e mezzo bicchiere di lambrusco (sì, proprio lambrusco!) ed una volta appassita la cipolla, aggiungete il riso (due pugni a testa più uno “per la pentola”: e con le spannometriche quantità abbiamo appena iniziato) e l’acqua delle rape mescolando il tutto a fiamma alta fino a completo assorbimento.

    Ora, fiamma spenta del tutto e riposo per 5-10 minuti.

    Riaccendete il fuoco e proseguite come per un normale risotto, diluendo con brodo di verdure (possibilmente non quello già pronto nel cartone…) ed a metà cottura aggiungete mezzo cucchiaio di miele a porzione e regolate di sale.

    A fine cottura inserite – senza eccedere, a seconda della sapidità – del gorgonzola, fatelo sciogliere e mantecate a fiamma bassa, spegnete e spolverate con del prezzemolo sminuzzato.

    Tutto un po’ strano, eh? Eppure…garantisco per il risultato.

    A presto!

  • Toghe&Teglie: veggie burger

    Buona settimana ai lettori che dovranno accettare il fatto che sia nuovamente una mia preparazione a monopolizzare la rubrica: sono Massimiliano D’Alessandro, avvocato civilista della sezione pugliese del Gruppo Toghe & Teglie, ispirandomi a Jessica Rabbit, mi viene da dire che non sono poi così bravo, è il curatore della rubrica che mi sceglie e mi fa apparire così.

    A proposito! Non si pensi che un tarantino doc possa bestemmiare un piatto realizzato rigorosamente con prodotti della mia terra, un nome che sa di nouvelle cousine anglofona se non – peggio che mai – di ricetta salutista a tutti i costi, magari ispirata, con rigore da ordine monastico cartusiense, ad uno specifico regime alimentare: tutta colpa, pure in questo caso, del curatore della rubrica!

    Chiarisco subito che io preferisco usare i broccoli ma – sfortunatamente – il mio verduraio di fiducia ne era sprovvisto e mi ha raccomandato un cavolfiore: il risultato finale è stato tutt’altro che disprezzabile per cui, se vorrete, potrete provare entrambe le versioni restando immutato il procedimento.

    Ordunque: lessate il cavolfiore o i broccoli (non troppo per evitare lo sfaldamento che riduce tutto ad una pappa), metteteli in un tritatutto, frullatore, robot da cucina – insomma, quello che avete – ed aggiungetevi parmigiano, pangrattato (ma il meglio sono dei taralli sbriciolati che danno una “spinta” in più rispetto al semplice pangrattato), sale, pepe e sminuzzate il composto. Quantità? Ma stiamo scherzando? Si va “a sentimento”.

    Ora formate delle pallotte che, volendo, potete ripassare nel pangrattato (o tarallo sbriciolato), schiacciatele, apritele e mettete in centro un pezzetto di mozzarella fiordilatte o altro formaggio a vostra scelta che diventi filante con la cottura, richiudete e schiacciate dando la forma di un hamburger.

    Per la cottura, spennellate una ampia padella con olio (poco ma buono!) e fate andare gli hamburger qualche minuto per lato, impiattate e, volendo, potrete decorarli ed arricchire il sapore con guacamole, salmone o qualunque altra cosa ispirata dalla vostra fantasia creativa e dalla combinazione corretta dei sapori.

    Statt’ bun!

  • In attesa di Giustizia: una storia (un’altra) di ordinaria ingiustizia

    Sembra di dover constatare che sia stato tirato il freno a mano ai fieri propositi riformatori del Ministro Nordio: la Giustizia deve dare la precedenza alla qualsiasi, tanto è vero che nel progetto di legge finanziaria non le viene riconosciuta una dotazione degna di questo nome…intanto accade di tutto e la rubrica, questa settimana, offrirà al pubblico ludibrio il caso degli avvocati – uno in particolare, un giovane praticante – di un indagato per falso in una pratica di voluntary disclosure, strumento messo a disposizione dei contribuenti per regolarizzare la posizione fiscale.

    Ovviamente vengono disposte intercettazioni telefoniche e ambientali, meno ovviamente (anzi, illegalmente) anche tra l’accusato ed i suoi difensori, uno dei quali, scelto probabilmente per sfruttarne, con l’età, la minore esperienza, viene convocato per essere sentito dal magistrato come persona informata dei fatti: del che parla – intercettato – ai colleghi di studio con i quali si confronta condividendo la decisione di opporre il segreto professionale se si tratterà di fatti riguardanti il mandato. Gli inquirenti, dunque, sanno in anticipo di quella decisione. Ciononostante, in esordio dell’interrogatorio, il praticante avvocato viene avvertito dell’obbligo di rispondere secondo verità e gli si pongono varie domande di carattere generale (professione, motivi per i quali ha conosciuto l’indagato ecc.).

    L’interrogatorio si protrae, poi, in termini assai più incalzanti per oltre tre ore e mezza e vi partecipano, oltre al magistrato, quattro inquirenti. Uscito dalla caserma, lo sventurato telefona (sempre intercettato) ai colleghi ed ai genitori, piangendo: richiesto del motivo e continuando a piangere spiega che “c’era un colonnello, altri quattro oltre al pubblico ministero… Mi sono sentito morire. Tre ore e mezza trattato come un delinquente!…Mi hanno rovinato la vita, il pubblico ministero ha detto che mi sto approcciando con disinvoltura alla professione legale, erano cinque contro uno e gliel’ho detto che stavano…inducendo a rispondere cose che non ho detto, né pensato ma che se volevano verbalizzare così che scrivessero addirittura loro! Finirà che mi indagheranno impedendomi anche di sostenere l’esame di Stato”.

    L’ascolto delle registrazioni è inquietante per i toni usati ed il clima creato ad arte:  per ragioni di sintesi non andiamo oltre limitando al rilievo alla violazione evidente dell’art. 188 del codice di procedura penale che vieta metodi lesivi della libertà di autodeterminazione della persona confermata, in questo caso, da una consulenza sugli audio dei professori Pietro Pietrini dell’Università di Lucca e Giuseppe Sartori di quella di Padova, per intenderci, due giganti del settore che così concludono: “I risultati delle analisi effettuate dimostrano come la situazione vissuta abbia creato nel soggetto una condizione di turbamento psichico e alterazione emotivo-affettiva compromettendo la sua libertà di autodeterminazione”. Il che, andiamo avanti, oltre ad integrare il reato di concussione o violenza privata rende per legge inutilizzabili le dichiarazioni rese. Per non farsi mancare nulla, nel giudizio a carico del cliente l’avvocato è stato citato come teste d’accusa e quelle dichiarazioni (inutilizzabili) sono, invece, state acquisite sostenendo che il testimone aveva implicitamente rinunciato al segreto professionale.

    All’obiezione di non essere stato messo nelle condizioni di serenità migliori per rispondere, il Tribunale ha ritenuto che “sono questioni che esulano dall’oggetto del processo”. Vergognatevi se ne siete capaci e questo approccio non da Tribunale della Repubblica ma da caserma di gendarmeria cilena ai tempi dell’indimenticato Generale Augusto Pinochet è stata seguita pure con riguardo alle intercettazioni degli avvocati (vietatissime dagli artt. 103 e 271 del codice di procedura).

    Non è un riconosciuto diritto alla riservatezza che vengono omessi i nomi di coloro che si sono resi responsabili di sopraffazioni di ogni genere ed illegalità assortite frutto di immaginazione interpretativa, ma per tutelare quello di chi ha il diritto all’oblio a non diventare oggetto di curiosità morbose dopo aver patito di sofferenze psicologiche, vittima di una giustizia precipitata in un buco nero nel quale si è annidata calpestando le libertà inviolabili dei singoli.

    Nordio, se ci sei, batti un colpo e, magari: un giro degli ispettori in quella Procura e quel Tribunale non guasterebbe, e non solo quelli del Ministero ma anche quelli della Polizia di Stato.

  • Toghe&Teglie: torta al vino primitivo

    Ben ritrovati, affezionati lettori, sono Consuelo Pinto della vivace sezione tarantina del Gruppo Toghe & Teglie: questa settimana vi propongo un dolce che poteva apparire insolito, almeno fino ad un po’ di anni fa – quando i vini pugliesi venivano considerati buoni, tutt’al più, per il “taglio” di altri più pregiati – una preparazione tra l’impensabile ed il blasfemo: la torta al vino primitivo.

    Eccezionalmente, non solo vi fornirò gli ingredienti ma anche le dosi (non troppo approssimative: anche io in cucina vado a “occhio e sentimento”).

    Dunque, procuratevi: 160 grammi di farina 0 o semola per dolci, 60 grammi di cacao amaro, tre uova, 190 grammi di zucchero, 150 grammi di burro, 100 grammi di vino primitivo, una bustina di vanillina e una di lievito per dolci.

    Passiamo ora alla preparazione, tutt’altro che complicata:

    sciogliete in un pentolino, a 60 gradi circa, il vino, lo zucchero, il cacao e il burro realizzando uno sciroppo e mettetene da parte un bicchiere; utilizzate il restante per un composto a base di uova, farina, lievito e vanillina.

    Impastate per rendere omogeneo il composto e versatelo in uno stampo per dolci, precedentemente imburrato e infarinato e cuocete in forno preriscaldato a 170 gradi circa per 30 minuti al termine dei quali controllate la cottura con uno stecchino: nel caso lasciatela proseguire qualche minuto ancora a seconda dell’esito della verifica.

    Quando la torta sarà cotta, estraetela dal forno e fate sulla sua superfice dei fori, versandovi sopra lo sciroppo messo da parte.

    Fate raffreddare e a temperatura ambiente e sarete pronti per mettere a tavola un dolce capace di stupire anche i palati più esperti.

  • In attesa di Giustizia: Napoli brucia

    Bene ma non benissimo: Nicola Gratteri ha dovuto lasciare la Procura di Catanzaro per avere raggiunto il limite massimo di permanenza nella funzione di Capo dell’Ufficio (otto anni): dopo aver avanzato la candidatura per dirigere la Procura di Milano ha ritirato la domanda proponendosi su quella di Napoli, la più grande d’Italia. Eletto a maggioranza, con significative dissenting opinions, al di là delle competenze che gli vengono attribuite nel contrasto alla criminalità organizzata e dell’esigenza dei sottotitoli in italiano quando parla, l’esperienza partenopea di Gratteri sembra proprio che sia partita con il piede sbagliato.

    Prima ancora della ufficializzazione dell’incarico, ma con la ragionevole certezza di avere i voti necessari in Commissione ed al plenum del C.S.M., il nostro si è lasciato andare ad alcune considerazioni che i futuri colleghi e collaboratori napoletani non hanno apprezzato: in termini allusivi ma assai trasparenti sui destinatari ha parlato di magistrati lavativi da mettere in riga con più ore in ufficio a lavorare e meno gita in barca nel golfo, sezioni della polizia giudiziaria da derattizzare e amenità simili.

    Comprensibile il risentimento alimentato da queste parole ma, nell’interesse del funzionamento dell’Ufficio, nessuna polemica è stata apertamente alimentata.

    Dal canto loro, gli avvocati della Camera Penale di Napoli non hanno mancato di osservare che avrebbero preferito un profilo professionale diverso alla guida della Procura, un conoscitore della realtà territoriale che non è culturalmente e geneticamente dedita al crimine (come Gratteri sembra pensare) bensì una città che – pur riconoscendovi le significative complessità e la compresenza di fasce di popolazione che vivono in condizioni di degrado economico – sta faticosamente proiettandosi verso un futuro migliore da metropoli europea grazie ad un tessuto sociale fatto di cittadini onesti, professionisti, imprenditori e ad un ceto politico che ha saputo ben operare nel tempo.

    I penalisti non hanno mancato di rimarcare come nel passato il rapporto tra il Procuratore e l’Avvocatura calabrese non sia stato dei più sereni e che nelle sue inchieste le torsioni delle garanzie siano state una costante, così come l’impiego a largo spettro della carcerazione preventiva non disgiunta da una certa qual approssimazione probatoria come dimostrato dalle numerose assoluzioni in giudizio di soggetti molti dei quali dopo lunghi periodi di privazione della libertà.

    L’avvocatura associata ha, comunque, espresso l’auspicio e la convinzione che la cultura ed intelligenza del Dott. Gratteri gli consentiranno di comprendere le specificità del territorio evitando di riproporre schemi e visioni che mal si attaglierebbero ad una realtà come quella di Napoli.

    Insomma, non proprio un caloroso abbraccio di benvenuto al nuovo Procuratore Capo.

    Ma al peggio, come noto, non c’è limite e ci ha pensato proprio Gratteri in un’intervista con la Gruber a superare il limite della decenza, dopo che con i colleghi anche con gli avvocati e sempre con allusioni trasparenti e, questa volta, particolarmente brutali.

    Si deve riconoscere che i penalisti napoletani non l’hanno accolto come, forse, avrebbe sperato, con un comunicato non rispettoso del bon ton istituzionale che, forse, avrebbe dovuto essere più cauto nell’esprimere giudizi nei confronti di chi, a quel tempo, non si era nemmeno insediato nella carica di Procuratore della Repubblica. Gratteri, tuttavia, con la sua battuta nel corso dell’intervista li ha surclassati, quanto ad ineleganza.

    E cosa avrà mai detto?  Ha detto: “Io sono stato in Amazzonia a combattere i narcos, cosa vuole che mi possa preoccupare la Camera Penale di Napoli”. Brutta frase che non può avere altro significato che accostare ed equiparare una libera associazione di professionisti ad un gruppo di efferati criminali, dai quali doversi difendere e guardare le spalle.

    E questa citazione non è stata un lapsus: nel suo stile, Gratteri ha volutamente fatto un’offensiva equazione che tocca non soltanto un’associazione forense, ma una intera classe che, in quella associazione si riconosce.

    Allora che si fa? In questo modo Napoli brucia e non solo per le turbolenze dei campi Flegrei.

    Mutuiamo dal calcio una soluzione, come se si fossero riviste serenamente al VAR due azioni e siano stati annullate altrettante reti: palla a centro e ricominciamo dallo zero a zero.

    Magari a fine primo tempo, a mente fredda, ognuno potrà giudicare le azioni dell’altro.

    Da un lato, dalla guida delle Procura di Napoli si valuterà se è meritata la fama che precede Gratteri di essere poco attento alle garanzie individuali e molto interessato alla esposizione mediatica delle sue inchieste oppure sia solo il frutto di una narrazione distorta e malevola.

    Dal canto suo, il Procuratore farà bene a riconoscere che l’aver paragonato un organismo forense ad un commando di narcotrafficanti sia stata una clamorosa caduta di stile e, magari, chiedere scusa.

    Nel frattempo, in attesa di Giustizia, Napoli continua a bruciare.

  • Toghe&Teglie: rognoncino trifolato

    Buona settimana cari lettori, sono ancora Attilio Cillario – sezione lombarda di Toghe & Teglie – che, dovendo sciogliere l’antico dilemma “lascia o raddoppia?” ho deciso di raddoppiare la mia presenza in questa rubrica nel volgere di pochi giorni con un’altra proposta per il risotto, molto milanese e molto autunnale.

    Diciamo la verità: il risotto allo zafferano si presta benissimo ad una quantità di preparazioni che ne dimostrano la versatilità come accompagnamento di un piatto unico: non solo ossobuco e cotoletta “orecchia di elefante” ma anche – ed è il suggerimento odierno – del rognone trifolato, un’abbinata tradizionale della cucina lombarda.

    Vi risparmierò la ricetta del risotto che dovreste conoscere, è stata pubblicata anche su Il Patto Sociale in differenti versioni compresa quella che qui interessa; farò solo due raccomandazioni: usate sempre il burro chiarificato e possibilmente lo zafferano in pistilli che regala al piatto non solo un’estetica più accattivante ma sapore e profumo sono diversi e più intensi. E’ vero che, recentemente, l’ho visto in vendita a 25.000 € al kilo ma il peso specifico è un nonnulla rispetto alla resa e, proprio per la sua qualità, ne basta infinitamente meno anche per una mezza dozzina di bocche affamate.

    E passiamo al rognone: sulla quantità, come al solito, mi rimetto agli appetiti dei singoli ma diciamo che, parlando di un piatto unico, almeno un etto e mezzo a testa ci vuole e dovrà essere tagliato a fettine molto sottili.

    Dopo “l’affettatura” mettere il rognone a bagno in acqua e aceto per dieci minuti/un quarto d’ora al massimo, dopodichè scolatelo ed inseritelo in una padella per una leggera ed iniziale soffrittura con metà burro, metà olio evo ed uno spicchio d’aglio spellato e schiacciato.

    Dopo un paio di minuti sfumate scegliendo, secondo la preferenza, tra vino bianco, marsala o cognac ed aggiungete un mestolo di brodo di carne.

    Non ve lo dovrei dire perché lo avrete capito, ma ve lo dico a scanso di equivoci: la preparazione deve essere coordinata con i tempi di cottura del risotto…

    Torniamo al rognoncino: quando il brodo sarà evaporato, aggiungete un trito d’aglio e prezzemolo fresco ed una generosa grattata di scorza di limone non trattato, spegnete il fuoco e versate con tutto l’intingolo sul risotto e valorizzate il piatto stappando per tempo una bottiglia di un ottimo rosso.

    Enjoy!

  • In attesa di Giustizia: un passo avanti e due indietro

    Nella puntata di domenica 5 novembre di Report il conduttore, Sigfrido Ranucci, ha dedicato un “capitolo” della trasmissione a criticare il Ministro Nordio affermando, incurante che sia una fake new, essere stata approvata una legge di origine governativa che limita, quasi azzerandolo, l’uso delle intercettazioni con la conseguenza che ne risulterebbe mutilata la potenzialità investigativa soprattutto nei confronti di mafiosi e corrotti.

    Per dar corpo allo sproloquio, viene mandato in onda uno stralcio di intervento di Carlo Nordio ad un evento di Fratelli d’Italia: il sapiente taglia e cuci delle parole del Guardasigilli impedisce agli ascoltatori di rendersi conto della bufala che viene loro somministrata…ma non a tutti: il caso vuole che proprio il curatore di questa rubrica stia scrivendo un manuale sul cosiddetto “disegno di legge Nordio” che affronta – tra gli altri – proprio quell’argomento. Sia, allora, da subito ben chiaro, che è un disegno di legge approdato in Commissione Giustizia al Senato poco prima della chiusura per le ferie estive che non è ancora neppure passato al voto dell’Aula. Quindi siamo ben lungi dalla approvazione anche da uno solo dei rami del parlamento.

    Quanto al contenuto della proposta di riforma – per quanto riguarda la parte dedicata alle intercettazioni – la finalità è quella di renderne stringente il divieto di pubblicazione, oggi prassi comune per le redazioni dei quotidiani che ne entrino subito e furtivamente in possesso, qualora il contenuto non sia «riprodotto dal giudice nella motivazione di un provvedimento o utilizzato nel corso del dibattimento»; si vuole, altresì, impedire che possa esservi rilascio di «copia delle intercettazioni di cui è vietata la pubblicazione ad un soggetto diverso dalle parti e dai loro difensori».

    Viene, inoltre, previsto un obbligo di vigilanza del Pubblico Ministero sulle modalità di redazione delle sintesi delle intercettazioni ed il corrispondente dovere del giudice di eliminare quelle non pertinenti e i dati personali sensibili di soggetti estranei ai reati ipotizzati, salva l’ipotesi che siano comunque rilevanti ai fini delle indagini. Tradotto: Nelle trascrizioni fatte dalle Forze dell’Ordine devono evitarsi riferimenti a fatti o persone estranee ai reati di cui si intende accertare la responsabilità ed il giudice dovrà, comunque, eliminare tutte quelle residue non pertinenti. Come dire, la telefonata dell’indagato con l’amante non potrà più diventare un ghiotto boccone per certa stampa: si tratta di principi di civiltà volti ad impedire il dilagante gossip giudiziario. Con buona pace di Ranucci e Report.

    Le intenzioni del Ministro, basandosi sulle  dichiarazioni di intenti quando assunse la carica, sono delle migliori ma…ma…fino ad ora sono rimaste solo buone intenzioni smentite – non sarà tutta colpa sua – dai fatti: vi era quella di riprendere il progetto di riforma del Codice Penale e di dar vita alla eliminazione di una quantità di reati di poco o nessun conto (da trasformare in contravvenzioni amministrative) per alleggerire il carico dei tribunali e, invece, non solo non si ha avuto neppure più notizia di passi in avanti in questo senso ma – anzi – il catalogo dei reati si sta via via arricchendo con nuove ipotesi a cavallo tra l’inutile, il bizzarro ed il francamente improponibile: dalle norme anti rave party all’omicidio nautico fino alla più recente idea di criminalizzare il privato cittadino che non rispetta le regole di smaltimento differenziato della spazzatura.

    E tutto questo mentre ancora dobbiamo iniziare a metabolizzare i danni della “Riforma Cartabia” che ha determinato il coma irreversibile del processo penale proponendo un modello che moltiplica  adempimenti e formalità durante le indagini in nome di un garantismo di facciata invece di assicurare fluidità alla fase investigativa per giungere, se vi sono gli estremi, celermente al giudizio dove la prova – per legge – si deve formare con testimoni freschi di ricordi, documenti rintracciabili senza scavare negli abissi degli archivi e perizie attuali ed attendibili. Dunque, un (mezzo) passo avanti e due (anche di più) indietro: e l’attesa di giustizia continua.

  • Toghe&Teglie: risotto ai gamberi di Mazzara…senza gamberi

    Buona settimana ai lettori da Attilio Cillario, della sezione lombarda di Toghe & Teglie: spadellatore non meno che distillatore di un gin artigianale, Cillario & Marazzi, alle cui qualità alludono spesso i miei colleghi quando scrivono in questa rubrica e che vi invito a provare: fidatevi di Toghe & Teglie che vi accompagna su questa rivista ormai da alcuni anni.

    Passiamo alla ricetta: nonostante il titolo, procuratevi una ventina di gamberi rossi, appunto di Mazara del Vallo.

    Staccate le teste e privatele degli occhietti che darebbero un gusto amarognolo. Lo so che sembra un’autopsia ma tutto ciò è necessario e proseguite pulendo le code del carapace, devenatele e tenetele da parte, in una ciotola condite con un’emulsione di olio e limone perchè saranno il vostro antipasto, mica si buttano!

    Ora, in un wok versate qualche cucchiaio d’olio evo e mettete a soffriggere a fuoco moderato teste e carapaci per cinque minuti abbondanti, mescolando e sfumando con un bicchiere di vino bianco e, quando sarà evaporato, coprite con abbondante acqua e lasciate andare – adesso a fiamma bassa – per circa un’ora aggiungendone ancora se necessario: in seguito vi servirà un composto molto brodoso da frullare bene, un po’ alla volta, allungando ancora con acqua, se necessario per garantirne la fluidità.

    Passate poi il composto attraverso un colino abbastanza fitto: l’ideale è quello “cinese” e versate il brodo così ottenuto in un pentolino, rimettete sul fuoco (basso) aggiungendo un dado, di pesce ovviamente.

    E’ il momento di mettere in cottura il risotto: io ho usato il vialone nano, preparandolo nella maniera tradizionale, con un soffritto di burro e cipolla, aggiungendo il riso sufficiente per due porzioni abbondanti, sfumando con vino bianco e portandolo a cottura diluendolo progressivamente con il “brodo di gamberi”; la preparazione si conclude con trito di prezzemolo e una punta di peperoncino a fuoco spento.

    Un particolare interessante su cui voglio portare la vostra attenzione è l’ottima riuscita del piatto utilizzando il wok per cuocere il risotto invece della classica risottiera: esperienza da ripetere, provate anche voi.

    E le code dei gamberi? Abbiamo detto che saranno il vostro antipasto accompagnate, magari, da un gin  tonic… Cillario & Marazzi, naturalmente.

    Buone feste a tutti, spendetele bene dedicandovi

  • In attesa di Giustizia: …non solo a Berlino…

    Ha fatto notizia, come nel caso immaginario dell’uomo che morde il cane, il G.I.P. che, richiesto di emettere una ordinanza cautelare per 153 indagati, ritenendo che mancassero i presupposti, ha disposto la cattura solo per 11 di questi…e tutto ciò è accaduto a Milano, la capitale della Repubblica delle Procure: non solo a Berlino, quindi, c’è un giudice.

    Gli indignati in servizio permanente effettivo, peraltro, hanno subitaneamente rivolto giacobine esecrazioni contro chi ha osato falsificare così massicciamente il dogma dell’infallibilità del Pubblico Ministero e, con sacrilega indisponenza, si è sottratto alla tradizione del “copia e incolla” di una richiesta della Procura.

    Nel lodevole tentativo di sedare le polemiche è intervenuto il Primo Presidente del Tribunale difendendo l’operato del G.I.P., Tommaso Perna, sostenendo che “la terzietà ed il controllo del Giudice non sono una patologia”, un’affermazione impeccabile seppur degna di Jacques de Chabannes, noto come Monsieur De la Palice, se non fosse che – all’evidenza – in questo Paese sembra doversi darsi per scontato l’esatto contrario.

    La decisione si ritiene errata? Esistono gli strumenti per criticarla processualmente ed, infatti, il P.M. ha già redatto un ricorso di un migliaio di pagine destinato al Tribunale del Riesame…ma non prima di avere offerto il suo contributo ad infiammare la diatriba.

    Per molto meno il solerte C.S.M., anche in tempi recenti, ha aperto pratiche a tutela dei magistrati. In questo caso, invece, tace: forse perché difendendo il giudicante il sottinteso sarebbe un addebito al P.M. per averlo ingiustamente esposto alla critica dell’opinione pubblica? Forse perché tra la magistratura requirente e giudicante, che fisiologicamente può negare catture e condanne, si preferisce la prima e – comunque – quella che “tutto quanto fa spettacolo”?… con la sigla finale affidata al tintinnio delle manette in luogo del pianoforte di Keith Emerson come in “Odeon”, su RAI 2 a metà anni ’70.

    Nel tormentoso compito di decidere della libertà o del destino di un altro uomo, non di un asettico nome scritto su un fascicolo, è ben possibile che si sbagli ma, purchè l’errore non sia grossolano (e purtroppo questa rubrica ne registra sistematicamente) è nell’ordine delle cose che un magistrato possa prendere un abbaglio: per questo esistono gli appelli ma restando fuori da ogni polemica tenendosi conto che non esiste una sola ed univoca risposta a fronte dei dilemmi umani: leggere lo straordinario thriller filosofico di Ian Pears “La quarta verità”, il cui titolo è emblematico, potrebbe meglio far comprendere il senso di queste considerazioni.

    E, valga per i non addetti ai lavori, non c’è nulla di più arduo dell’impegno del giudice cui viene chiesto di disporre arresti demandatogli un doppio pronostico: il primo sulla gravità degli indizi nell’ottica probabilistica di una condanna in seguito a contraddittorio ed al confronto con le prove a discolpa in un futuro dibattimento ed il secondo sul pericolo che un indagato – se lasciato libero – commetta altri reati.

    L’uomo tuttavia, la storia lo dimostra, non è molto bravo a fare previsioni: basti pensare che Einstein sostenne che non ci sarebbe mai stata possibilità di produrre energia atomica e che Thomas Watson (chi sarà mai? Era il Presidente dell’IBM) nel 1943 predisse che in futuro solo una manciata di persone sarebbe stata interessata ad acquistare un computer, per non parlare di Steven Ballmer (e questo? Era l’Amministratore delegato di Microsoft) che, più di recente nel 2007, profetizzò autorevolmente che non vi era alcuna possibilità che l’ I-Phone conquistasse una significativa quota di mercato.

    Fatto sta che un altro signore non molto conosciuto, Philip Tetlock Docente a Berkeley, analizzando un campione significativo di migliaia di pronostici formulati negli anni da centinaia di esperti in diversi campi, ha concluso che la precisione di tali pronostici sarebbe rimasta la stessa se a generarli fosse stato un computer in maniera casuale.

    Sbaglia, dunque, il Dottor Perna sol perché dimostra autonomia di pensiero rispetto al P.M.? Sbaglia perché usa grande scrupolo nel decidere della vita di altri essere umani?  Alla stregua di ciò cui si assiste una volta di più vi è da temere che la cultura di cui sono intrise ampie fasce dell’opinione pubblica e lo stesso Ordine Giudiziario sia quella, poliziesca, del “non ci sono innocenti ma solo colpevoli che la fanno franca” di davighiana ispirazione. Parrebbe che quasi nessuno – in questo come in altri simili occorsi – si sia posto la domanda se fallibile non sia stato, invece, proprio l’organo investigativo. Sbaglia invece, sempre e comunque, chiunque associ la figura del magistrato ad una missione dedicata alla sconfitta del male dei torti e delle iniquità, dimenticando che, quando vi sono, simili missionari condividono con gli imbecilli il primato del maggior numero dei danni prodotti.

Pulsante per tornare all'inizio