Avvocati

  • In attesa di Giustizia: la corrida e la rivoluzione digitale

    Ennesima settimana convulsa sul fronte della giustizia: il luna park dell’opposizione purchessia ha sfoderato l’artiglieria contro le ultime iniziative, o per meglio dire gli annunci, del Guardasigilli il quale ha ribadito che la sua azione di Governo prevede la separazione le carriere tra giudicanti e pubblici ministeri e di rimodulare il reato di concorso esterno in associazione mafiosa; a quest’ultimo proposito non sono mancate neppure le salve di “fuoco amico” supportate dalla vibrante indignazione dei familiari di vittime della mafia.

    Una vera e propria corrida, intesa anche nell’accezione che al termine fu data dal celebre programma condotto da Corrado Mantoni: dilettanti allo sbaraglio in salsa di ignorante malafede e vediamo nell’ordine il perché di cotante ambasce senza che vi sia neppure un articolato su cui ragionare.

    L’obiezione principale che viene rivolta alla separazione delle carriere – con l’Associazione Nazionale Magistrati in prima linea – è che comporta la dipendenza del Pubblico Ministero dall’Esecutivo subendone le imposizioni su quali indagini avviare e quali fermare. Orrore autoritario e fascista da scongiurare a qualunque prezzo.

    Ebbene, che vi sia un simile automatismo non sta scritto da nessuna parte (in Francia, per esempio, le carriere sono unificate ma il P.M. dipende dal Ministro della Giustizia) ed, anzi: per raggiungere questo risultato bisognerebbe modificare ben quattro articoli della Costituzione posti a tutela della indipendenza della Magistratura da qualsiasi altro potere, con ciò intendendosi sia quella giudicante che quella inquirente (la Costituzione lo precisa). Impresa cui nessuno ha mai neppure accennato ed inverosimile se si pensa all’iter previsto per le modifiche costituzionali con doppia lettura alle Camere e maggioranza qualificata di 2/3. Le ragioni della contrarietà sono altre, forse meno nobili… ma andiamo oltre.

    Concorso esterno: sia chiaro innanzitutto, per chi non lo sapesse, che è un delitto che il codice penale non prevede. Proprio così, un reato per cui si può essere condannati frutto di una interpretazione giurisprudenziale, per quanto non risulti che i giudici possano sostituirsi al legislatore con le loro sentenze.

    Nordio, in realtà, non ha affatto detto che intende abolire questa ipotesi di reato ma tipizzarla meglio in via normativa, magari secondo i dettami della Costituzione che prevede che nessuno possa essere ritenuto responsabile per un fatto non previsto dalla legge come reato ed anche che le leggi siano tassative. Cioè puntualmente definite in modo che i cittadini sappiano cosa è consentito e cosa è vietato o punito. Esattamente quello che, commentando le parole del Ministro sostiene, tra i molti, anche Giovanni Fiandaca, professore emerito di diritto penale: uno dei massimi esponenti contemporanei di questa branca del diritto.

    Naturalmente, le critiche sono arricchite dalla considerazione che in l’attuale Ministro della Giustizia non abbia prodotto nulla in termini di utili ed intelligenti riforme mentre la Cartabia…ah, la Cartabia, quella sì!

    Basta vedere l’ultima creatura delle sue commissioni, volta ad efficientare il sistema, che ha visto la luce ad inizio mese: il Portale attraverso il quale si potranno e dovranno depositare ben 103 diversi atti giudiziari, dalla nomina di un difensore agli atti di appello. Un pachidermico prodigio delle più moderne tecnologie operativo già nei prossimi giorni (destinato, chissà perché solo agli avvocati e non ai magistrati) ma si impalla con inquietante frequenza, è ancora incompleto, lento, complicato e per non farsi mancare nulla alcuni riferimenti agli articoli del codice sono sbagliati. Si consideri, infine, che i Funzionari amministrativi dei Tribunali non sono stati formati per l’utilizzo e – soprattutto – se l’atto che si deve inoltrare prevede più di una copia le altre bisogna andarle a depositare cartacee, a mano, in cancelleria. E perché mai? Suvvia! Perché non si possono sprecare troppo toner e carta, non ci sono i fondi, e quelli del PNRR, faticosamente guadagnati con questo cretino meccanico non sono sacrificabili e servono altrove. Avanti così, la Giustizia può attendere.

  • Toghe&Teglie: frisa ai tre sapori

    Buona settimana, cari lettori! Sono Massimiliano D’Alessandro, avvochef tarantino del Gruppo Toghe & Teglie: spero che abbiate di me un buon ricordo, ospitato di recente in questa rubrica, perché sono nuovamente a proporvi qualcosa di appetitoso per saziarvi e soddisfarvi in una estate che si va arroventando e cioè a dire un piatto freddo con ingredienti assai naturali.

    La frisa, innanzitutto, senza la quale nemmeno si può cominciare…cos’è? Ma dai, è quel tipico pane biscottato, chiamato anche frisella a base di grano duro e cotto al forno, si trova facilmente sia dal fornaio che nei supermercati; ecco procuratevene tante quante sono le porzioni e l’appetito (ce ne sono di dimensioni diverse) e bagnatela appena appena in acqua, asciugandola poi con un panno, quel tanto che basta per ammorbidirla senza renderla moscia ma evitando la gioia del vostro dentista, e ponetela al centro del piatto.

    Ora ricopritela con uno strato di guacamole, sapete quella salsina a base di avocado che potrete preparare da voi, è decisamente migliore e dà più soddisfazione di quella comperata già pronta: basta avere degli avocado ben maturi, delle cipolle bianche, succo di lime, coriandolo e sale q.b. Si comincia tritando finemente la cipolla ed il coriandolo, aprite poi l’avocado in due prelevandone la polpa e mettete il tutto in una ciotola o nel frullatore, aggiungete il lime ed il sale (anche un ombra di peperoncino o tabasco, se piace più piccante) e mescolate o frullate fino ad ottenere una crema. Punto, il guacamole è pronto e potrete stenderlo sulla vostra frisella. Volete aggiungere qualche pomodorino tagliato a pezzettini, fate pure: io non li ho messi ma ci possono stare. E così siete pronti per un salutare apporto di potassio, zinco, magnesio vitamina B5 e B6.

    Ora del tonno sott’olio sgocciolato ma non troppo: vi dirò una cosa, quello che vedete in foto l’ho fatto con le mie mani ma – per questa volta – vi risparmio l’onere della realizzazione casalinga che, magari, vi spiegherò in un’altra occasione; in commercio se ne trova di eccellente e deve privilegiarsi proprio la qualità. Tra i migliori suggerisco quello di Carloforte a tranci grossi con l’avvertenza che una confezione costa come una cena al ristorante.

    Sminuzzate il tonno e distribuitelo sopra la frisa già spalmata con la crema di avocado e ora, il tocco finale: mezzo uovo sodo su ognuna, da salare leggermente e tritandovi sopra un po’ di pepe profumato.

    Mi raccomando! Le uova sode non devono essere buone per una partita a bocce, ma avere l’interno morbido ed ancora leggermente cremoso, risultato che si ottiene mettendole a bollore per otto minuti secchi, non un secondo di più e facendole raffreddare un filo senza usare acqua fredda che comprometterebbe il risultato.

    Pronti, via!

    Noi ci rivediamo presto, almeno spero.

  • In attesa di Giustizia: carnevale di Rio

    Accingendomi a commentare alcuni eventi, una premessa è d’obbligo: se un giornalista riceve una notizia ha il dovere di pubblicarla. E se riguarda un personaggio pubblico ancora di più.

    Il problema è che certe notizie non dovrebbero mai essere fatte esfiltrare: nè dagli inquirenti e nemmeno dai vari altri soggetti coinvolti nell’accertamento dei fatti e la violazione di questi obblighi non dovrebbe essere sanzionata alla stregua di un parcheggio abusivo perché l’indagine di per sé intacca l’onorabilità e neppure un’assoluzione contribuisce a diradare completamente le zone d’ombra lasciate dallo schizzo di fango.

    Le indagini per certi reati la cui verifica si basa sulle sole dichiarazioni della parte offesa dovrebbero essere secretate e rimanere tali almeno fino al giudizio di primo grado.

    Emblematico è quanto sta accadendo riguardo alla vicenda della presunta violenza sessuale attribuita ad uno dei figli di Ignazio La Russa: in questo caso è stato l’avvocato che assiste la ragazza a distribuire a piene mani notizie in favor di microfoni ed intervistatori, salvo ritirare la mano subito dopo aver gettato il sasso sostenendo che vi è e vi deve essere un riserbo massimo mentre le indagini sono in corso. Nella stretta osservanza di questa regola del silenzio da monaco benedettino ha preannunciato l’intenzione di citare lo stesso Ignazio La Russa che, con le sue affermazioni, sarebbe diventato testimone contro il suo stesso figlio: se anche così fosse, evidentemente gli sfugge la circostanza che i prossimi congiunti possono avvalersi (loro sì) del diritto al silenzio. Ma tutto quanto fa spettacolo e c’è già chi avanza la richiesta di dimissioni dalla sua carica del Presidente del Senato, bissando quelle invocate per Daniela Garnero meglio nota come Santanchè.

    Quest’ultima, invece, sta passando la sua gogna mediatica (e non solo) grazie al tradizionale impiego, sin dal novembre scorso, della redazione del Corriere della Sera come casella delle lettere della Procura di Milano; il tutto non senza l’abituale confusione (un po’ ignorante e un po’ creata ad hoc ): ha ricevuto l’informazione di garanzia, anzi no, non è iscritta nel registro delle notizie di reato, anzi si e non ultima la bufala più potente secondo la quale sarebbe indagata per bancarotta che come crimine, in effetti, è bruttarello, fa certo “meno fine” del falso in bilancio che evoca una frode fiscale che non scandalizza quasi nessuno piuttosto che l’appropriazione e sperpero di denaro in danno dei creditori, dipendenti inclusi. Peccato che questo reato possa contestarsi solo ad avvenuta dichiarazione di fallimento di una società e non consta che “Visibilia” sia stata dichiarata fallita, anzi stia negoziando un concordato.

    Nessuno dubita che per la sensibilità della carica ricoperta sia stato corretto chiedere che il Ministro del Turismo riferisse nella sua Camera di appartenenza su tali accadimenti. Magari poteva prepararsi un filo meglio nel chiarire certi aspetti tecnici piuttosto che dare ancora più fiato alle trombe di chi sta preparando una mozione di sfiducia. Sarà quale, la sesta, la settima da inizio legislatura? Tutte andate a vuoto. L’opposizione dovrebbe sapere tre cose: che il suo ruolo è proporre alternative all’azione della maggioranza con critica costruttiva, che una richiesta di dimissioni non si fa se non si hanno i numeri (ma se si fa significa che non si hanno idee) ed è un fuor d’opera alimentare questa sorta di Carnevale di Rio ogni volta che – in mancanza d’altro – c’è la possibilità di ricorrere allo sputtanamento dell’avversario invece di dire o fare “qualcosa di sinistra”. Attenzione, poi, ad operazioni “politiche” di bassa macelleria perché il “banco del taglio” è lo stesso che un domani può ospitare chi ama frequentarlo da primattore e non da vittima.

    Per concludere, una nota quasi di buonumore con una carnevalata giudiziaria: la Procura di Genova ha contestato anche il tentato omicidio ad un avvocato che, in base a quanto ricostruito dalla Guardia di Finanza, avrebbe sottratto i soldi all’anziana di cui era amministratore di sostegno e, secondo gli inquirenti, avrebbe pure commissionato ad un’amica maga un rito vudoo con delle candele nere, proprio per sbarazzarsi della signora che accudiva. Un simile reato è definito “impossibile” dallo stesso codice ma secondo il P.M. serve a valutare la personalità.

    Contestazione quanto meno insolita, anche per offrire prova di pericolosità di un soggetto; chiaramente non è punibile avere fatto ricorso a candele e magia nera per intentare un omicidio e però viene da chiedersi, a questo punto, perché non sia indagata anche la fattucchiera.

    Con le carnevalate più o meno divertenti per questa settimana è tutto: la Giustizia può attendere, magari la settimana prossima andrà meglio: ma non è affatto certo.

  • Toghe&Teglie: lasagnette al pesto ricco

    Guardate un po’ chi si rivede, cari lettori: Enrico Ghezzi, detto il “Bolscevico”, del Gruppo Toghe & Teglie nel quale mi viene riconosciuta una certa seniority nella realizzazione di lasagne e lasagnette. Un po’ come quelle che descrivo questa settimana…è caldo, dite voi e a luglio non si mangiano lasagne? E chi l’ha detto, un santone della Weight Watchers? E se anche così fosse, sfatiamo il mito: saranno anche un piatto caldo e dall’aspetto invernale ma perché, in agosto, non mangiate il fritto di pesce che si fa con l’olio bollente?

    Quello che vi propongo, inoltre, è un piatto molto semplice e veloce per il quale non pretendo la tiratura della sfoglia di pasta in casa che nemmeno io faccio se non ho il tempo da dedicarvi…quindi va benissimo quella che trovate al supermercato o dal fornaio.

    Stesso discorso vale per la besciamella che – però – è più facile da fare: gli ingredienti ci sono sempre e non servono macchinari di alcun tipo; in più bastano solo un padellino, un mestolo e olio di gomito… ma andiamo avanti con quella già pronta e non se ne parli più.

    Iniziate facendo appena sbollentare in acqua salata dei fagiolini: questione di istanti, oserei dire, per impedire che si ammoscino, devono restare quasi croccanti e tanto finiscono di cuocere in forno.

    A parte, in una ciotola capiente, miscelate il pesto con la besciamella…già c’è anche il pesto che non è poi così difficile da fare nemmeno lui (senza la pretesa di usare un mortaio di marmo) se si ha un frullatore. Pazienza, avanti con il pesto già pronto: che sia, però, di qualità perché è l’ingrediente principale. Aborrite quelli già pronti pubblicizzati da qualche panzone le cui dimensioni denotano che non si alimenta in modo sano e procuratevi del buon pesto in una gastronomia.

    Riprendiamo dal mix besciamella/pesto ed in seguito proseguite con l’assemblaggio delle lasagne cospargendo ogni strato di pasta con pesto/besciamella, parmigiano non tropo stagionato, fagiolini, prosciutto cotto a listarelle ed un altro formaggio a scelta tra mozzarella (non di bufala che fa acqua), provola, Emmenthal o anche sottilette a base di parmigiano: avete capito perché si chiamano lasagnette al pesto ricco?

    L’ ultimo strato sarà ancora pesto e besciamella senza dimenticare una spolverata finale di parmigiano. Siate generosi con questo parmigiano che deve fare la crosticina in forno: non è perché il piatto è a base di pesto ligure dovete farvi venire il braccino con gli ingredienti!

    Forno preriscaldato a 200° e cottura a occhio finchè non vedete filare bene i formaggi e lo strato superiore si è dorato bene.

    Buona estate a tutti!

  • Toghe&Teglie: ‘u sciusceddu

    Cari lettori, con mio grande orgoglio, sto subito bissando la presenza della settimana scorsa su queste colonne: sono di nuovo Maurizio Condipodero del Gruppo Toghe & Teglie: passato indenne dagli strali dei puristi per la ricetta della “calabronara” questa volta sono a proporvi ‘u sciusceddu che è un piatto preparato tradizionalmente a Messina in occasione della Pasqua ma non necessariamente limitato a quel periodo e ne esistono due versioni. Senza dilungarci in una duplice illustrazione – anche perché le differenze non sono poi sostanziali, vi descrivo il procedimento che seguo abitualmente con indicazione sommaria dei quantitativi secondo la migliore regola di questa rubrica.

    INGREDIENTI:

    polpa di manzo macinata (facciamo un centinaio di grammi scarsi a porzione per quattro), ricotta fresca di pecora, parmigiano grattugiato, “mollica” (pangrattato) in quantità “a muzzo”, brodo di carne sgrassato, un ciuffo di prezzemolo, uova, sale e pepe q.b..

    PREPARAZIONE

    Mettete la carne in una ciotola, salatela, e impastatela con due uova, una manciata di parmigiano, il pangrattato, il prezzemolo tritato e pochissimo brodo e regolate di sale e pepe.

    Lavorate bene gli ingredienti e con il composto fate delle polpettine tonde della grandezza di un’oliva e lessatele al massimo per tre minuti nel brodo bollente.

    Nel frattempo preparate un impasto con 80 grammi di parmigiano, la ricotta, tre tuorli (tenete da parte gli albumi), sale, pepe e un trito di prezzemolo.

    Montate a neve ben ferma i tre albumi ed incorporateli delicatamente nella crema di ricotta, con un movimento dal basso verso l’alto.

    Ora versate il brodo e le polpettine in una teglia dai bordi alti, che possa poi andare in forno e mettetela sul fuoco, a calore basso, portando a bollore.

    A questo punto, senza rimescolare, versate con delicatezza la ricotta, in modo da ricoprire tutta la superficie della teglia e lasciate sobbollire per qualche altro minuto.

    Mettete, infine, “u sciuscieddu” in forno caldo a 200° per cinque minuti facendo formare una crosticina leggera.

    Va servito ben caldo.

    Fa già fin troppo caldo, dite voi? Eh, va bene, tenete la ricetta in serbo per quest’autunno e, mi raccomando: nella preparazione, non vorrei essere ripetitivo ma più che le dosi esatte vale il … sentimento.

    Ciao, ciao.

  • In attesa di Giustizia: contrappasso

    C’è qualcosa di allegorico, cabalistico, nella parabola professionale e di vita di Piercamillo Davigo che da magistrato del Pubblico Ministero aveva promesso di “rivoltare l’Italia come un calzino” magnificando lo standing dei suoi colleghi di funzione: “i magistrati sono il meglio della società civile ed i pubblici ministeri sono il meglio del meglio del meglio”, poi da giudicante aveva presieduto i Collegi di Corte d’Appello e di Cassazione  trasformandoli in altrettanti Comitati di Salute Pubblica; del resto, ipse dixit, non ci sono innocenti ma solo colpevoli che non sono ancora stati scoperti. Anche lui, viene ora da chiedersi?

    L’inesorabile trascorrere degli anni gli ha fatto terminare anzitempo la consiliatura al C.S.M. e da pensionato ha intrapreso quella di editorialista per un quotidiano giacobino che, nella versione cartacea, può essere destinato solo agli scopi meno nobili. Ma la parabola non si era ancora conclusa: l’ultima delle esperienze nel mondo della giustizia l’ha fatta in un ruolo che mai avrebbe immaginato, a stretto contatto – orrore! – con un avvocato cui ha affidato il compito di difenderlo smentendo se stesso a proposito del giudizio di appello, ritenuto superfluo e causa di malfunzione del sistema, ma che ha già preannunziato dopo la sua condanna.

    Quest’ultimo segmento di vita è stato scandito anche da correlazioni enigmaticamente realizzatesi: Davigo è stato rinviato a giudizio proprio nel giorno in cui ricorreva il trentennale dell’arresto di Mario Chiesa che diede inizio alla macelleria giudiziaria di “Mani Pulite” di cui è stato indiscusso protagonista e la sua sentenza di condanna è stata pronunciata mentre si celebrava la memoria di Silvio Berlusconi che, praticamente da solo, ha dato per decenni motivo di esistere alla Procura di Milano ed alla “casella delle lettere” messa a disposizione dal Corsera: se si vuole sapere il perché e gli si vuole dare credito, basta leggere il primo libro intervista di Luca Palamara con Sallusti.

    Torniamo a Brescia: il momento della lettura di una sentenza è un passaggio di grande solennità che si ascolta in piedi e le prime parole sono sempre “In nome del Popolo Italiano…” dando corpo al canone 101 della Costituzione; in nome di quel Popolo, a rappresentarlo durante la pronuncia di condanna, vi era anche Francesco Prete, che è il Procuratore Capo di Brescia, a fianco dei suoi sostituti che avevano condotto le indagini ed il dibattimento: un gesto volto a dimostrare che in quell’Ufficio ci si era mossi con iniziative condivise e probabilmente anche sofferte perché rivolte nei confronti di un ex collega.

    Francesco Prete, ai tempi di Mani Pulite, era un giovane P.M. in forza proprio a Milano e la sua stanza era vicina a quella di Davigo ma non ha mai fatto parte del famoso (o famigerato) pool: lavoratore, equilibrato, studioso, il suo tragitto professionale lo ha portato a dirigere tre Procure (Vasto, Velletri ed infine Brescia) senza mai cercare il “colpo di teatro”, l’inchiesta sensazionalistica che aiuta la carriera o – comunque – offre notorietà e non l’ha perseguita nemmeno ora che le regole di competenza per i processi ai magistrati assegnano a Brescia i procedimenti a carico di quelli milanesi e proprio la sua Procura di un tempo rivela l’esistenza di un verminaio di prassi opache, per usare un termine garbato, di cui si è sempre avuto il sospetto: Francesco Prete ha mantenuto un basso profilo con interviste ridotte al minimo, riserbo e parole misurate che dovrebbero essere patrimonio di chi svolge ruoli sensibili come il suo.

    Contrappasso anche in quest’ultima immagine che raffigura due uomini divenuti inaspettatamente avversari e due modi diversi di interpretare la funzione giurisdizionale mentre un comunicato della Giunta dell’Unione Camere Penali, senza (troppo) sarcasmo, auspica che nel futuro di Davigo, ora che ha scoperto il diritto all’appello, vi siano Giudici con una concezione delle impugnazioni diversa dalla sua.

    Ci mancava la solidarietà, obiettivamente un po’ di maniera, del nemico di sempre per trasformare in fiele il contenuto del calice già amarissimo toccato in sorte all’ultimo (speriamo) dei grandi inquisitori.

    Un augurio di buona sorte, nel rispetto della presunzione di innocenza non si nega a nessuno e lo formuliamo anche noi ma quello in cui è inscritta la parabola discendente di Piercamillo Davigo è come un arazzo che, attraverso ironie e contrappassi, sembra intessuto di una Giustizia quasi poetica.

  • Toghe&Teglie: la calabronara

    Un caro saluto a tutti da Maurizio Condipodero del Gruppo Toghe & Teglia, specialista di pesantissime calabresità: sono stato ospite di questa rubrica in tempi recenti e – forse – ricorderete il mio ultimo suggerimento. Questa volta, ben sapendo che mi attirerò gli strali dei puristi, vi propongo la mia versione, calabresizzata anch’essa, della carbonara. Pazienza, credetemi, parlando di varianti è decisamente più accettabile di quella cafonata della pizza con il Pata Negra e, volendo, si può anche fare a meno di accostarne il nome alla carbonara. Chiamatela come vi pare e per iniziare procuratevi:

    – Cipollotti freschi, possibilmente di Tropea;

    – Peperoni cruschi;

    – Nduja;

    – Uova, pecorino e parmigiano.

    Ora stufate un kg. di cipollotti comprensivi del loro gambo.

    A metà della loro cottura aggiungete tre peperoni cruschi tagliati a pezzetti ed un cucchiaio di nduja sciolta precedentemente con un po’ di acqua calda (senz’acqua si brucia).

    Completata la cottura, separate le cipolle dal liquido prodotto e conservatelo in un recipiente.

    Siete pronti? Mettete a bollire l’acqua per la pasta ed a parte preparate le uova con pecorino e parmigiano, con le proporzioni classiche della carbonara.

    E’ fondamentale che si completi la cottura della pasta, dopo averla scolata molto molto al dente, in un’ampia padella, con il liquido rilasciato dalle cipolle aggiungendo l’intingolo peperoni cruschi, nduja e cipolle dopo averle sminuzzate.

    Spegnete il fuoco, inserite le uova già mixate con i formaggi, mantecate ed impiattate.

    N.B.: le quantità degli ingredienti per il numero di commensali sono sempre a sentimento, il dosaggio della pasta – sono perfetti degli spaghettoni – comunque non può essere inferiore ai 120 grammi a testa altrimenti si rientra nella categoria “razioni di guerra” e l’impiattamento è a valanga.

    Se si vuole vuoi ottenere un colore giallo più acceso basta aggiungere una bustina di zafferano: male non ci sta.

    Ora sono pronto a subire gli improperi degli amici della Sezione Romana al comando di Ivan Vaccari, ma voi mi ringrazierete.

    A presto su queste colonne con qualche altra golosità incompatibile con la prova costume.

  • Toghe&Teglie: tonnarelli con quello che c’è

    Ciao lettori, sono Ivan Vaccari, l’Ayatollah della carbonara, ovviamente della Sezione di T&T dell’Urbe, e questa settimana sono stato prescelto per intrattenervi con una ricetta frutto di arrangiamento causato dal vuoto torricelliano con cui mi sono ritrovato il frigorifero una delle sere scorse.

    I tonnarelli, per fortuna c’erano, non molti secondo il mio metro di misura (io sono un fanatico del formato “cofana”) ma me ne sono fatto una ragione: il problema poteva essere condirli ma con un po’ di inventiva ne è venuto fuori un prodotto degno anche della ribalta su Il Patto Sociale.

    Dunque, procuratevi dei tonnarelli (per le persone normali, a regola, ne bastano circa 80 grammi a porzione) e mettete, pronti all’uso, sul piano della cucina del burro, meglio se aromatizzato alle erbe, meglio ancora se fatto in casa, basilico, salvia, pepe profumato, pecorino (romano, ovviamente) e parmigiano: questa che sembra una regola per me era ciò che “passava il convento” e non azzardatevi a chiedermi le dosi soprattutto per un piatto preparato con queste premesse.

    Intanto che l’acqua va a bollore tritate basilico e salvia insieme e grattugiate i formaggi.  Riponete il tutto in due ciotole separate.

    Qualche minuto prima del termine di cottura, scolate i tonnarelli conservando un po’ della loro acqua (ingrediente sempre utilissimo) e metteteli in una padella facendoli saltare nel burro a fuoco moderato: ce ne vuole un bel po’, come nei tagliolini Alfredo (e come quando solo gli studenti di medicina sapevano cos’è il colesterolo) e mantecate con i formaggi e un saggio impiego dell’acqua di cottura. Non troppa, e aggiungetela gradualmente, se no, invece della cremina vi verrà fuori un’ acquerugiola.

    In finale, continuando a rimestare i tonnarelli nella padella, spegnete il fuoco aggiungete il trito di odori e macinatevi sopra il pepe. Il pepe, ricordatevelo, si macina al momento se si vuole che conservi al meglio aroma e profumo.

    Ora potete impiattare ed accomodarvi a tavola e chiamate questo piatto come vi pare: un nome non ce l’ha per i motivi che vi ho spiegato ma quando ho assaggiato la prima forchettata ho pensato che in cucina vale più che altrove la definizione del Melandri di Amici Miei: cos’è il genio? È fantasia, intuizione, colpo d’occhio e velocità di esecuzione.

    Dajeeeee, alla prossima.

  • Toghe&Teglie: paccheri al ragù di calamaro

    Buona settimana, cari lettori, sono Laura Antonelli, avvocato della sezione Toscana (sarebbe più preciso dire: Pisana) di Toghe & Teglie e sono stata selezionata per proporvi una ricettina davvero saporita per farvi inaugurare facilmente la stagione dei piatti estivi che, spesso, sono a base di pesce.

    Forse non è mia originale, certamente non l’ho letta da nessuna parte prima: ho avuto un’intuizione  trovando in pescheria i “tentacoli di calamaro gigante” che non avevo mai visto.

    Visti e presi! Cercateli anche voi oppure accontentatevi di quelli di calamari “regular”: saranno boni (senza la u, alla toscana) ugualmente, almeno credo.

    Tagliateli a pezzettini e metteteli in una larga bastardella in cui avrete fatto scaldare aglio, olio – rigorosamente evo – e peperoncino a piacimento: troppo piccante, però copre i sapori, non dimenticatelo.

    Inserite i tocchetti di tentacoli facendo andare a fuoco vivace per tre minuti e poi sfumate con vino rosso. Sì, rosso, con questo piatto ci sta benissimo e poi basta con codesta storia che il pesce vuole il bianco: dipende, da pesce a pesce e da ricetta a ricetta e qui ci vuole il rosso, magari non un Barolo o un Amarone ma qualcosa di meno impegnativo e con una gradazione minore.

    Appena sarà evaporato il vino aggiungete della passata di pomodoro a pezzettoni ed un cucchiaio di concentrato, abbassate il foco (anche questo senza la u) al minimo e lasciate andare dando una rimescolata di quando in quando.

    A metà cottura (circa mezz’ora) colorate ed insaporite con una generosa tritatura di prezzemolo fresco ed in tempo utile mettete a bollire l’acqua per la pasta: è preferibile un formato come i paccheri, comunque grossa.

    Scolate la pasta molto al dente e terminate la cottura “risottandola” nel condimento, allungando (se necessario, nel caso si sia un po’ ristretto) con acqua di cottura che va sempre bene tenere da parte prima di eliminarla tutta.

    Amalgamate badando a mantenere il foco sempre bassino e siete pronti per andare a tavola: volendo si può dare una ripassata di prezzemolo anche all’impiattamento di ogni porzione. Male non fa.

    Non lamentatevi né della difficoltà, perché è un piatto facilissimo, né della mancanza dei dosaggi, qui non si usa e nessuno dei commensali si lamenterà se il vostro occhio non vi avrà ingannato.

    A presto!

  • Toghe&Teglie: tiella di polpo e patate “Bari Vecchia”

    Puglia uber alles, cari lettori, questa settimana: su Il Patto Sociale – oltre che in questa – se ne parla nella rubrica “In attesa di Giustizia”, ed io che firmo per voi una tradizionale preparazione barese sono Massimiliano Chico D’Alessandro, avvocato tarantino del Gruppo Toghe & Teglie!

    Sarà contento il conterraneo Direttore, Raffaella Bisceglia, anche se è certamente più digeribile la mia ricetta che il racconto di alcune vicende tranesi che troverete in un’altra pagina…

    Dunque, tiella di polpo e patate “Bari Vecchia”, dove tiella è il termine usato per indicare un tipico contenitore da cucina, la teglia che dà il nome anche al nostro Gruppo, e Bari Vecchia è il quartiere di origine del piatto: una delle zone più caratteristiche di Bari dove fino a qualche anno fa aveva timore ad entrare anche Don Salvatore Annacondia della Scara Corona Unita, luogo ora frequentabilissimo, pieno di fascino, ricco di eccellenti ristoranti di pesce e dove si trovano ancora anziane signore che preparano a mano le orecchiette e le mettono ad essiccare fuori dalla porta.

    Bando alle chiacchiere e procuratevi, ovviamente, una teglia, una cipolla che taglierete a fettine sottili, dei pomodorini da fare a tocchetti, tritate del prezzemolo fresco e tenete a portata di mano sale, olio evo e pepe.

    Ah, già! Prima di iniziare avrete pescato un bel polpo fresco…non avete il mare a portata di mano? Può succedere specialmente se si vive in riva all’Adda o al Ticino, ma un pescivendolo di fiducia lo avrete pure? Ecco, il polpo prendetelo da lui.

    Ora affettate sottilmente delle patate (sì servono anche quelle, non ve l’ avevo ancora detto ma dalla foto si capisce!) e stendetene uno strato nella tiella, ricoprite con abbondante pecorino grattugiato non troppo stagionato e sapido, poi uno strato di polpo tagliato a pezzi, coprite con altre patate a fette, insaporite con tre/quattro spicchi di aglio sminuzzati, ora una bella passata di prezzemolo, pomodorini, sale e pepe, abbondate con un giro d’ olio, allungate versando un mezzo bicchiere di acqua e coprite nuovamente il tutto con il pecorino grattugiato.

    Come avrete capito è un piatto multistrato da inserire in forno preriscaldato a 180 gradi e quando si forma la crosticina proseguite altri 5/10 minuti con distribuzione del calore solo inferiore…e poi…che ti mangi…

    Cosa volete, le dosi? Ma quali dosi, qui non si usa andate – come si suol dire in Toghe & Teglie – “ad occhio e sentimento”

    Buon appetito

Pulsante per tornare all'inizio