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  • Pmi: strategie per uscire dalla crisi (2a parte)

    Gentilissimo Dott. Ielo, nella nostra precedente intervista ha descritto una situazione delle PMI in Italia tutt’altro che rosea. In particolare ci ha ricordato come i molteplici vincoli normativi, l’ingente pressione fisale (tra le più alte in Europa) e l’arretratezza del “sistema Italia” sul piano commerciale rappresentino degli ostacoli difficilmente superabili se non si attuano rapidamente delle riforme fiscali ed economiche lungimiranti e se, nel breve periodo, le aziende non si rivolgono a professionisti esperti. Cosa intende per una riforma fiscale lungimirante?

    In genere si dice lungimirante quella persona che ha la capacità di prevedere gli sviluppi futuri di una o più situazioni. Nel nostro caso, definisco una riforma fiscale lungimirante quell’insieme di norme che possono mantenere e far accrescere la ricchezza degli italiani tenendo conto di come gli orientamenti produttivi e dei consumi (per costume e per necessità) stiano cambiando rapidamente e radicalmente in questo Paese e nel Mondo.

    Il debito italiano è di circa 2.700 miliardi di euro e l’evasione fiscale è stimata (e ripeto, stimata) intorno ai 100 miliardi di euro all’anno. Questo è il presente. E il futuro? Di certo sappiamo che la spesa per affrontare le emergenze ambientali, agricole, alimentari, sociali ed economiche aumenteranno. Di conseguenza, per essere lungimiranti, qualunque azienda o persona orienti le proprie attività per migliorare questa situazione deve essere fortemente aiutata sul piano fiscale, oltre che incentivata o finanziata. Al contrario, chi non fa nulla in questa direzione deve essere disincentivato. Ogni euro non speso per la tutela dell’ambiente, o per la tutela della salute, equivale a cento, mille, diecimila euro di spesa pubblica per cercare di risolverlo. E ancora, tassare in modo esponenziale chi produce, indifferentemente da cosa e come lo produce, e, di contro, dare sempre più sussidi direttamente a chi non produce nulla (è fuori dubbio che ci sono persone che ne hanno davvero diritto) senza avere adeguati strumenti di controllo e senza alcuna reale progettualità, alla lunga porterà dei grossi scompensi economici. Sono alcune delle contraddizioni che credo meritino di essere affrontate con urgenza e con lungimiranza, appunto.

    Se lei domani fosse nominato Ministro delle Finanze, che cosa farebbe da subito?

    Partendo dal presupposto che siamo in emergenza e che è tempo di essere italiani ancor prima che appartenenti ad un partito politico, istituirei innanzitutto un tavolo di lavoro per condividere le informazioni sulla situazione attuale e futura delle casse dello Stato con i più importanti enti di rappresentanza del mondo del lavoro (a livello nazionale e regionale) e non solo (penso anche al terzo settore). Scopo di questo tavolo quello di elaborare in tempi brevi una strategia condivisa sui più urgenti interventi di correzione, in positivo, delle proiezioni più negative. In secondo luogo istituirei un altro tavolo di lavoro, composto da comprovati professionisti, per raccogliere, studiare ed analizzare i “sistemi fiscali” di altri paesi. E lo scopo dell’iniziativa è quello di creare un confronto su scala internazionale sul tema perché oggi non esiste solo il “pianeta” Italia ma esiste un sistema economico globalizzato e globalizzante con il quale è impossibile non fare i conti. In terzo luogo creerei un altro tavolo di lavoro per studiare il modo per alleggerire e semplificare tutto il sistema fiscale delle PMI e delle partite iva. La vera forza economica e culturale di questo paese. All’analisi darei corso fattivamente ad una strategia attuativa.

    Più che una riforma del fisco mi sembra una vera e propria rivoluzione. Non pensavo fosse così ottimista.

    Con gli amici spesso ci diciamo che “In Italia è bello vivere solo da turisti”. È solo una battuta che cela la tanta amarezza e tristezza che alberga nei nostri cuori. Stiamo ritornando ad essere un paese di emigranti. Stanno via via scomparendo i piccoli agricoltori custodi di biodiversità, i piccoli artigiani custodi di multiculturalità e tutti i piccoli geniali inventori che hanno fatto di questo paese uno dei più belli e ricchi al mondo. C’è qualcosa che non va. Mi trovo perfettamente d’accordo con Piero Angela quando afferma che l’Italia è un paese morto perché non ci sono punizioni per chi sbaglia né premi per chi merita. Tuttavia, alla possibilità di sedermi nel punto più alto della scala decisionale, come ha potuto sentire, non mi tirerei di certo indietro e cercherei di fare di tutto per rianimare questo paese allo stremo.

    Per lavoro è molto spesso a Roma ma vive in una città del Sud. Cosa farebbe se diventasse assessore delle attività produttive della sua città? 

    Si, vivo a Messina, una delle principali culle storiche della cultura mediterranea. Mi concentrerei, nelle stesse modalità poc’anzi descritte, per rilanciare nell’immediato la cultura della “condivisione” fra imprenditori (in primis di obiettivi di sistema) per procedere all’istituzione di un sistema di offerta integrata in grado di proporsi sui mercati domestici e locali (con particolare riferimento a quello dell’indotto turistico) e sui mercati internazionali dei paesi cosiddetti “ricchi” dove ancora il made in Italy è sinonimo di eccellenza qualitativa ed il rapporto dei prezzi è per noi maggiormente vantaggioso. È solamente uniti e con obiettivi comuni che si può concorrere e vincere! Affermo con fermezza che è arrivato il momento di abbandonare le retoriche di difesa (di cosa poi? i nostri imprenditori e le famiglie ad essi collegate hanno perso praticamente tutto in questi ultimi anni). Vanno abbracciate nuove logiche di rinascita economica, soprattutto a livello locale, degne di rappresentare la nuova vera opportunità che tutti quanti aspettiamo.

    Strategie di breve periodo per uscire da questa cristi energetica ed economica?

    In Italia siamo esperti risparmiatori ma pessimi investitori. Dalla singola persona fino ad arrivare, purtroppo, ai piani alti. Si stima che nelle nostre banche ci siano depositati quasi 1.200 miliardi di euro e che a dichiarare un reddito annuo sotto i 30.000 Euro siano circa la metà degli Italiani. Per quanto il divario tra ricchi e poveri stia aumentando i conti non tornano (o meglio, i soldi non girano, per lo meno in Italia). C’è una situazione di stallo. Tra le incertezze sul futuro e la pressione fiscale, fare impresa o investire in questo Paese diventa molto difficile. Tuttavia io sono tra quelli che pensa che è proprio in questi momenti che bisogna avere il coraggio di impiegare le proprie risorse, anche economiche, in progetti che portino i loro frutti a medio e lungo periodo. E non mi riferisco solo a iniziative imprenditoriali o a prodotti finanziari e bancari (per i quali, come detto anche nella prima parte dell’intervista, bisogna rivolgersi solo a persone di comprovata esperienza) ma anche a piccoli progetti di miglioramento della propria vita (dal fare l’orto al fare ginnastica, dall’abbonamento a teatro alla beneficienza di quartiere). Se tutti quanti, infatti, facciamo “girare” anche piccole somme di denaro destinate alla salute, alla cultura e all’ambiente ne gioverà da subito la nostra persona e le persone a noi più care famiglia e a medio periodo anche tutto il sistema perché una lungimirante prevenzione rimane sempre una delle forme di risparmio più intelligente a tutti i livelli.

  • Brand in fuga da Mosca

    Di giorno in giorno si allunga la lista delle aziende che interrompono i business con la Russia, sia per testimoniare la vicinanza al popolo ucraino sia per motivi economici, visto che il conflitto sta causando anche gravi interruzioni della catena di approvvigionamento e delle condizioni commerciali. Come spiega Ikea, ultima in ordine di tempo ad aver sospeso oggi tutte le operazioni con Mosca e anche con la Bielorussia.

    Dal settore automobilistico a quello dell’hi-tech, da quello dell’intrattenimento a quello della moda e delle spedizioni, a quello petrolifero, è fuga dal “regno” di Vladimir Putin. Dall’Italia, il settore bancario riflette sul da farsi mentre Sace (che opera nel settore assicurativo-finanziario) lancia un allarme sul “rischio di credito delle controparti pubbliche e private” di Mosca dopo le sanzioni imposte da numerosi Paesi che ostacolano i pagamenti nelle relazioni commerciali con l’estero e avverte anche su un “rischio espropri come ritorsione». Assicurazioni Generali ha deciso di lasciare i tre posti nel board di Ingosstrakh, la compagnia russa di cui detiene il 37,5%: escono Paolo Scaroni, Luciano Cirinnà, responsabile dell’area Austria Centro Est Eurpa e Russia del Leone Giorgio Callegari, ex numero uno di Generali Russia. Il gruppo italiano chiude inoltre l’ufficio di rappresentanza a Mosca e le attività di Europ Assistance nel Paese.

    Il gruppo Intesa Sanpaolo che conta 28 filiali ed oltre 900 dipendenti in Russia ha detto che la sua presenza lì “è oggetto di valutazioni strategiche”. Anche Unicredit monitora la situazione e ribadisce che la banca in Russia rappresenta circa il 3% dei ricavi e del capitale allocato del gruppo. Da Leonardo, che con la Russia non ha relazioni commerciali per le attività nella Difesa, fanno sapere che nel civile seguiranno ogni indicazione del governo. Pirelli fa un monitoraggio costante della situazione ma allo stato attuale non prevede di fermare la produzione in nessuno stabilimento mentre Michelin ha sospeso alcune attività in impianti in Europa per difficoltà logistiche.

    Fabbriche chiuse e numerose interruzioni di attività nei giorni scorsi da parte di diversi big internazionali di vari settori economici. Oggi si è fatto indietro anche il colosso svedese dell’arredamento Ikea, che ha sospeso produzione, vendita, import ed export, con un impatto diretto su 15.000 collaboratori in Russia e Bielorussia. Si fermano altre fabbriche come quella dell’auto Volkswagen che sospende anche le esportazioni in terra russa; blocco anche dalle principali case automobilistiche giapponesi da Toyota per criticità legate all’approvvigionamento delle forniture nello stabilimento di San Pietroburgo (100.000 veicoli all’anno), a Honda che ha deciso di fermare l’invio delle proprie auto in Russia per le difficoltà nel sistema dei pagamenti in quanto le vetture vengono trasferite dagli Stati Uniti, a Mazda che bloccherà le forniture di parti di ricambio.

    Attività commerciali sul territorio russo e on line chiuse da Apple e Nike, mentre Eni ha deciso di vendere la sua quota nel gasdotto Bluestream con Gazprom. Nel settore energetico Bp era stata la prima a rompere le fila annunciando di voler dismettere la sua quota di quasi il 20% in Rosneft, anche a fronte di una perdita stimata in 25 miliardi di dollari. Shell vuole uscire dalla joint venture con Gazprom e ha preso le distanze da Mosca anche Exxon pianificando una uscita graduale dal paese. La norvegese Equinor ha cessato le partnership con Rosneft, e ha detto addio a Putin anche la danese Orsted.

    Sul fronte della grande industria a fare un passo indietro sono state da Boeing che ha sospeso supporto tecnico e manutenzione dei suoi aerei alla compagnie russe a Bmw che ha bloccato le esportazioni, passando per Ford e Mercedes che hanno sospeso le attività, a Renault che ha chiuso l’impianto di Mosca, Daimler Truck ha interrotto la partnership con Kamaz e si è fermata anche la tedesca Siemens.

  • Scudo Ue contro le scalate di Paesi terzi alle aziende

    L’Europa alza lo scudo contro le scalate ostili e sfodera il suo ‘golden power’. Con una proposta di legge ormai pronta ad essere svelata il prossimo 5 maggio dalla vicepresidente Margrethe Vestager, Bruxelles avverte le potenze straniere, soprattutto a Oriente: chi nel post-pandemia vorrà fare ‘shopping’ selvaggio dei gioielli strategici europei, fiaccati dalla crisi, dovrà prima vedersela con norme più rigide. Non si tratta, dicono i funzionari Ue, di scoraggiare gli investimenti esteri, ma di garantire condizioni uguali per tutti. Questo significa innanzitutto riempire il vuoto legislativo che regola gli aiuti di Stato pompati dai governi stranieri nelle casse di società spesso controllate con l’obiettivo di depredare gli asset più preziosi del Vecchio Continente.

    La mossa guarda in modo distinto alle aziende di Pechino che, gonfie di sussidi governativi, sono ormai da anni indaffarate in scalate sul territorio europeo approfittando della disastrata situazione economica. Non a caso, tra gli Stati membri c’è anche chi si è già mosso: soltanto una ventina di giorni fa, il governo Draghi ha deciso di fare uso del proprio golden power per bloccare l’acquisizione della lombarda Lpe, attiva nel settore dei chip, da parte della cinese Shenzhen Investment.

    Stando ai primi dettagli del disegno di legge Ue, anticipati da alcuni media internazionali, sono 2 le principali novità che la Commissione si appresta a introdurre rispetto al passato. Innanzitutto, il suo potere d’intervento: l’antitrust Ue avrebbe per la prima volta diritto di veto sulle acquisizioni di aziende europee alimentate da aiuti pubblici esteri. Non solo: così come già accade per le operazioni che coinvolgono le società europee, qualora Bruxelles riscontrasse che un’acquisizione facilitata da sussidi di Paesi terzi nuoce alla concorrenza, avrebbe il potere di chiedere impegni correttivi alle società, come la vendita di attività. Sarebbe poi introdotto l’obbligo di notifica anticipata per le operazioni dalla portata potenzialmente più distorsiva. Si tratterebbe, secondo quanto indica il Financial Times, di tutte quelle acquisizioni che superano i 500 milioni di euro. Mentre per Reuters, a essere assoggettate all’obbligo di notifica sarebbero le imprese straniere che, forti di aiuti pubblici di oltre 10 milioni di euro, acquisiscono più del 35% del capitale di una società europea con un fatturato di oltre 100 milioni di euro. L’esecutivo Ue è ancora al lavoro per definire la soglia critica per le sovvenzioni estere capaci di distorcere il mercato, ma con tutta probabilità sarà superiore ai 5 milioni di euro.

    Alcuni tipi di aiuti, come le garanzie illimitate, saranno considerati particolarmente nocivi. L’obbligo di notifica ex-ante dovrebbe poi riguardare anche gli appalti pubblici per contratti da almeno 250 milioni di euro. Qui, notava già un anno fa Bruxelles nel suo libro bianco che anticipa la proposta, i sussidi potrebbero distorcere la concorrenza permettendo alle imprese estere di gareggiare al ribasso.

  • La Commissione approva il regime italiano modificato per sostenere le aziende colpite dall’epidemia di coronavirus

    La Commissione europea ha riscontrato che la modifica dell’attuale regime italiano di sovvenzioni dirette per supportare le aziende attive a livello internazionale colpite dall’epidemia di coronavirus è in linea con il quadro temporaneo. Il regime originale è stato approvato dalla Commissione il 31 luglio 2020. Il 10 dicembre 2020 la Commissione ha approvato la proroga del regime fino al 30 giugno 2021. L’Italia ha notificato un aumento del bilancio totale stimato del regime di 828 milioni di euro, il che significa un aumento del bilancio totale da 300 milioni di euro a 1,128 milioni di euro. Analogamente al regime originale, il regime modificato continuerà a sostenere le società ammissibili facilitando il loro accesso alla liquidità e non assumerà la forma di aiuti all’esportazione condizionati alle attività di esportazione in quanto non è vincolato a contratti di esportazione concreti. La Commissione ha concluso che il regime, così come modificato, resta necessario, appropriato e proporzionato per porre rimedio a un grave turbamento dell’economia di uno Stato membro, in linea con l’articolo 107 e le condizioni stabilite nel quadro temporaneo. In particolare, il sostegno continuerà a non superare gli 800.000 euro per impresa e il regime è limitato nel tempo fino al 30 giugno 2021. Su questa base, la Commissione ha approvato la misura ai sensi delle norme UE sugli aiuti di Stato.

  • La cultura dell’inclusione fa bene alle aziende

    Le aziende con una cultura dell’uguaglianza e della trasparenza sono più inclusive verso i dipendenti con disabilità e registrano una crescita più rapida. E’ quanto emerge studio di Accenture, diffuso in occasione della Giornata Mondiale della Disabilità (3 dicembre), secondo il quale i leader che abbracciano una cultura dell’uguaglianza assumendo e valorizzando nelle proprie aziende le persone con disabilità stanno aumentando le vendite (2,9 volte) e i profitti (4,1 volte) rispetto ai loro pari.

    Lo studio “Enabling Change” fa parte della ricerca “Getting to Equal 2020” di Accenture e si basa su un sondaggio globale condotto su quasi 6.000 dipendenti con disabilità, 1.748 dirigenti (di cui 675 con disabilità) e 50 interviste video. Ciò che emerge è che i dipendenti con disabilità hanno il 60% di probabilità in più di sentirsi esclusi rispetto ai loro colleghi e il 27% di probabilità in meno di sentirsi inclusi nel proprio posto di lavoro; la maggioranza dei dipendenti (76%) e dei dirigenti (80%) con disabilità non è completamente trasparente al riguardo. “Le organizzazioni stanno sottoutilizzando un ampio segmento della forza lavoro a causa dell’incapacità di rendere il posto di lavoro accessibile ai dipendenti con disabilità – commenta Anna Nozza, Responsabile Risorse Umane di Accenture Italia. “L’80% delle disabilità viene acquisito tra i 18 ei 64 anni, e dunque è fondamentale che i leader ricordino che chiunque, e in qualsiasi momento, potrebbe manifestare delle disabilità. Ora più che mai le aziende devono rafforzare il proprio impegno a favore di una cultura dell’uguaglianza più efficace e capace di generare successo condiviso”.

    Lo studio di Accenture suggerisce inoltre otto elementi che aiuteranno le aziende a costruire culture in cui le persone con disabilità possano progredire: role models, lavoro flessibile, ERG – gruppi di risorse per dipendenti, retribuzione equa, congedo parentale, libertà di produrre innovazione, politiche sulla salute mentale e formazione.

  • Covid-19 toglie la carne dalla tavola, le macellazioni calano del 19%

    La pandemia ha tolto la carne dalla tavola degli italiani e ridotto di circa un quinto le macellazioni, mandando sottosopra il sistema allevatoriale italiano. Secondo l’Istat, nel primo semestre 2020 le macellazioni di bovini diminuiscono del 17,8%, quelle dei suini del 20,2% rispetto allo stesso semestre del 2019. Nel mese di giugno, a fine lockdown, si registra un recupero del numero dei capi macellati per entrambe le categorie. Come dire, qualche bistecca alla fiorentina e grigliata mista nei ristoranti sono stati ordinati.

    Anche sull’import di carni la crisi economica dovuta alla pandemia causata dal CoV-19 ha avuto e sta avendo ancora impatto: nel primo semestre del 2020, rende noto l’Istituto di statistica, diminuisce l’importazione di bovini e bufalini (-1,2%) e, più marcatamente, quella dei suini (-21,6) sullo stesso periodo dell’anno precedente. Aumenta invece l’export sia dei capi bovini e bufalini (+15,1%) che dei suini (+2,2%).

    Sul fronte dei listini, rileva ancora l’Istat, le aziende registrano una marcata riduzione dei prezzi di vendita (-63,4%). La diminuzione dei prezzi riguarda soprattutto le aziende del Nord Italia (più del 70% delle aziende) mentre è inferiore al Centro-Sud (meno del 50%). A rivedere al ribasso i listini, precisa ancora l’Istat, circa l’87% dei grandi allevatori.

    Per il 63,6% delle aziende, evidenzia il report Istat, la pandemia ha avuto e avrà un impatto sulla propria azienda agricola (per il 64,0% gli effetti sono”sostanziali”). L’impatto è più rilevante al Nord-Ovest (68,6%delle aziende), meno importante al Centro 53,7%).La principale ripercussione subita dagli allevatori è la riduzione dei prezzi di vendita (-63,4 %); segue la riduzione della domanda (-55,3%). Ad aver risentito della diminuzione dei prezzi sembra essere soprattutto il Nord Italia, con un dato che supera il 70% delle aziende, mentre nel Centro-Sud è inferiore al 50%. Esattamente l’opposto, sottolinea l’analisi dell’Istituto di statistica, si registra per la riduzione della domanda, il cui dato nazionale del 45,9% è fortemente condizionato da Sud e Isole che si attestano a circa il 70%; cioè dovuto anche alla difficoltà del trasporto merci in questo periodo, specialmente nelle Isole: quasi il 25% delle aziende del Sud, contro un 15% nazionale, indica la consegna tra le difficoltà avute

    Per le prospettive future, le preoccupazioni principali riguardano sempre la riduzione dei prezzi di vendita (51,7% delle aziende) e la riduzione della domanda (47,2%). Anche in questo caso la riduzione dei prezzi è temuta dalle aziende ubicate nel settentrione (oltre il 55%) mentre la riduzione della domanda preoccupa quelle del Centro-Sud (circa il 60%); altra preoccupazione è la mancanza di liquidità, che viene paventata principalmente dalle aziende del Centro-Sud (37%).

  • Sostituto d’imposta

    Probabilmente sono l’unico in Italia a non aver assolutamente apprezzato la proposta del presidente di Confindustria di togliere alle imprese l’onere del sostituto d’imposta. Non è attraverso l’aumento delle incombenze burocratiche ai lavoratori dipendenti del settore privato che si migliora la produttività ma eventualmente la si abbassa.

    In questo senso, infatti, si dirige la strategia utilizzata dalle più grandi imprese come Luxottica e Ferrero le quali adottano delle politiche di Welfare aziendale che vanno esattamente nella direzione opposta a quella proposta dal presidente Bonomi. Inoltre, se ad un unico sostituto d’imposta si sostituissero i dipendenti singoli sicuramente “l’efficienza” della pubblica amministrazione dimostrerebbe ancora più i propri limiti con inevitabili ripercussioni sulla stessa produttività dei dipendenti.

    Il vero problema non può venire individuato nel ruolo di sostituto imposta ma nella risposta che la pubblica amministrazione è in grado di offrire come servizio nel suo complesso a tutte le attività di impresa (https://www.ilpattosociale.it/attualita/linutile-crescita-della-produttivita/).

    Francamente sarò l’unico in Italia ma ho trovato notevolmente deludente questa relazione del presidente di Confindustria e la considero un passo indietro rispetto alle vere tematiche di sviluppo. Il progresso e lo sviluppo economico traggono beneficio dal miglioramento delle relazioni tra pubblico e privato e non dalla condivisione con i propri dipendenti di problematiche imputabili al soggetto pubblico.

  • Problemi di liquidità per quasi 6 imprese su 10 nella fase post-Covid

    Sono quasi 780mila (il 58,4% del totale) le imprese che prevedono di avere problemi di liquidità nei prossimi sei mesi e poco meno di 565mila (il restante 41,6%) quelle alle quali invece si prospetta un futuro meno difficoltoso sul versante finanziario. La crisi di domanda che si è innescata con la   pandemia Covid-19 e il clima di incertezza sui tempi del recupero, legato anche alle diffuse criticità sui mercati globali, fanno temere a molte imprese di non poter generare i flussi di cassa necessari a garantire l’ordinaria operatività aziendale.

    E’ quanto risulta da un approfondimento del Sistema informativo Excelsior sull’universo di 1.380 mila imprese con almeno un dipendente, condotta tra il 22 giugno e il 6 luglio 2020 da Unioncamere in accordo con Anpal, per valutare le prospettive occupazionali a seguito dell’emergenza Coronavirus.

    Le imprese che si sono presentate di fronte allo shock generato dalla pandemia operando stabilmente sui mercati internazionali e quelle con strategie avanzate e integrate di digitalizzazione mostrano una solidità finanziaria relativamente maggiore: infatti, si attestano rispettivamente al 48% e al 45% dei relativi totali le aziende che non segnalano difficoltà (tra i 6 e i 3 punti in più della media). Soffrono invece maggiormente le micro imprese (1-9 dipendenti) tra le quali raggiunge il 60,4% la quota di quante segnalano un insufficiente livello di liquidità, una situazione che migliora sensibilmente al crescere della dimensione di impresa, arrivando al 44% nelle imprese over 250. La ristorazione e i servizi legati alla filiera del turismo rappresentano il settore più colpito dagli effetti della carenza di liquidità, segnalata da poco meno di tre quarti delle imprese (73,8%), dal momento che segmenti importanti del comparto, come quello legato alle presenze straniere nelle città d’arte, hanno ripreso solo molto marginalmente. Problemi di liquidità superiori alla media del comparto terziario anche per gli altri servizi alle persone (che comprendono anche le attività ricreative, culturali e sportive) e per l’istruzione e la formazione private. Tra i settori industriali è, invece, la filiera della moda ad aver risentito più sensibilmente delle conseguenze del lockdown, tanto che problemi di liquidità sono indicati dal 68,0% delle imprese di questo settore, ma quote superiori al 60% si osservano anche nel legno-arredo e nell’industria della carta. Situazione di sostanziale equilibrio tra le imprese con e senza problemi di liquidità nella meccanica e nelle industrie elettriche ed elettroniche. Più intensa la carenza di liquidità nel Sud e Isole (la mettono in luce due terzi delle imprese) e nel Centro (60,3%), mentre nelle regioni settentrionali il problema è segnalato nel 53-54% dei casi.

  • Il 78% delle aziende europee concede dilazioni nei pagamenti a causa del coronavirus

    La maggior parte delle aziende europee, il 78%, a fronte del 59% nel 2019, ha accettato termini di pagamento più lunghi per portare avanti la propria attività dopo l’emergenza coronavirus. Una percentuale che scende al 61% in Italia. A rivelarlo sono i dati dello Epr White Paper (European  Payment Report White Paper), una survey condotta da Intrum, operatore europeo dei credit service, intervistando le posizioni apicali di 9.980 aziende in 29 Paesi europei e di 11 settori industriali, sia nella fase pre Covid-19 (febbraio 2020) che durante (maggio 2020).

    Tra i settori in cui in Europa vengono accettate più dilazioni ci sono energia, minerario e utility (86%), farmaceutica, medicina e biotecnologie (85%), con tecnologie, media e telecomunicazioni (83%). In Italia il 61% che accetta di ritardare lo fa per un’unica ragione: non rovinare il rapporto col cliente. Nel 2019 il 33% aveva accettato pagamenti più lunghi dalle multinazionali, il 51% dalle piccole e medie aziende e il 24% del settore pubblico, mentre il 16% non ne aveva accettati.

    Le dilazioni però non piacciono, non solo in Italia, infatti in Europa quasi la metà delle aziende vorrebbe che le aziende stesse si organizzassero per prendere iniziative contro i pagamenti in ritardo (+15% rispetto al 2019). In Italia però si crede meno in un impegno comune delle aziende in tale direzione: solo il 29% si aspetta iniziative comuni contro i ritardati pagamenti, mentre il 54% crede che sia lo Stato a doversene fare carico. Cresce intanto l’adozione della direttiva sui ritardati pagamenti, che permette alle aziende di applicare un tasso d’interesse e un minimo di 40 euro per i costi di recupero del credito: il 23% delle aziende europee dice di applicarla (8% dello scorso anno), mentre il 57% no (37% nel 2019). In Italia il 44,5% la applica qualche volta, il 12% sempre e il 28,5% mai.

  • La metastasi finanziaria

    Da oltre un mese il governo ha sempre confermato la piena disponibilità ad accedere ai finanziamenti fino a 25.000 euro o ad una cifra pari al 25% del fatturato senza valutazione patrimoniale e quindi direttamente disponibile nel conto corrente. Al di là della sconcertante tempistica per l’evasione di queste pratiche tale volontà governativa avrebbe dovuto fornire liquidità alle imprese dopo oltre sessanta  giorni di assoluto lockdown ed interruzione dei flussi di cassa.

    A tutt’oggi solo una minima parte di questi finanziamenti risultano erogati mentre per quelli già resi operativi la criticità emerge sino ad assumere i connotati di una vera e propria truffa. A fronte di una richiesta di 20.000 euro o il 25% del fatturato di una partita IVA la quale aveva già precedentemente un accordo con l’istituto bancario per un fido di 10.000 il finanziamento complessivo che viene accreditato sul conto risulta dalla differenza tra l’ammontare, cioè 20.000 euro, ed il fido preesistente. Questa operazione rappresenta una vera e propria truffa in quanto il finanziamento dello Stato può essere utilizzato per far fronte alle scadenze che da oltre 60 giorni attendono di essere evase ma non per coprire posizioni finanziarie precedentemente debitorie.

    In altre parole, gli Istituti bancari con il tacito consenso o peggio la complice ignoranza del governo utilizzano il finanziamento erogato per assicurare tutti i rientri dai fidi drenando di conseguenza buona parte di quella liquidità che lo Stato con grande fatica ha messo a disposizione come espressione per un reale e consistente incentivo alla ripresa economica.

    Questa situazione rappresenta un vero e proprio “golpe finanziario” in quanto le risorse immesse nel circuito e destinate a dei soggetti economici vengono drenate dal sistema bancario per sanare le proprie criticità. In un simile contesto risulta paradossale il fatto poi che qualora si dovesse accedere nuovamente ad un fido si pagherebbero degli interessi aggiuntivi a quelli sulla erogazione della liquidità dello stato.

    Quindi l’erogazione risulta utilizzata sostanzialmente dagli Istituti bancari per criticità finanziarie pregresse ma non per servizi alle imprese. Una truffa che rappresenta l’ennesima conferma di una complicità, se conosciuta, o ignoranza, nel caso opposto, da parte del Governo e di una inaudita disonestà da parte del sistema bancario.

    A queste condizioni il nostro Paese è destinato alla metastasi economica.

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