Balcani

  • Bisogna pensare responsabilmente alle conseguenze

    Chi difende un colpevole si rende complice della colpa.

    Publilio Siro

    Accadeva proprio ventiquattro anni fa. Era il 12 giugno 1999 quando un contingente militare internazionale di 50.000 effettivi a guida NATO, denominata KFOR (acronimo di Kosovo Force, un contingente militare internazionale; n.d.a.) entrò in Kosovo. Due giorni prima, il 10 giugno 1999 il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, con quattordici voti a favore e una sola astensione, aveva adottato la Risoluzione 1244. Una Risoluzione quella che ha stabilito, tra l’altro, la fine degli scontri in Kosovo, nonché i principi di base per una soluzione politica e duratura della crisi. Quella Risoluzione ha sancito anche lo schieramento di un contingente militare internazionale sul territorio del Kosovo a guida dell’Alleanza Atlantica, attivando così un’operazione congiunta denominata “Joint Guardian” (Guardiano comune; n.d.a.). Parte integrante di quell’operazione era la costituzione della sopracitata KFOR attiva subito, già dal 12 giugno 1999. La Risoluzione 1244 è stata approvata dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite dopo settantotto giorni di attacchi aerei da parte della NATO sul territorio della Serbia, compresa la capitale, cominciati il 23 marzo 1999. Un’operazione, quella, denominata “Allied Force” (Forza alleata; n.d.a.) che costrinse al ritiro dal territorio del Kosovo l’esercito serbo. In più la Risoluzione 1244 sanciva anche la costituzione di un governo e di un parlamento provisorio in Kosovo, sotto controllo e protettorato internazionale, garantiti dalla NATO e dal UNMIK (acronimo di United Nations Interim Administration Mission in Kosovo – La Missione di Amministrazione ad interim delle Nazioni Unite in Kosovo; n.d.a.).

    Bisogna evidenziare anche un altro fatto accaduto il 12 giugno 1999. I primi contingenti militari che entrarono in Kosovo quel giorno erano gli effettivi delle forze speciali della Norvegia e del Servizio speciale dell’aeronautica del Regno Unito. Ma loro hanno trovato di fronte un contingente militare delle forze armate della Russia, che, guarda caso, proprio un giorno prima, all’improvviso e senza un comune accordo con la KFOR, avevano preso il controllo dell’aeroporto del capoluogo del Kosovo. Da alcune indiscrezioni riferite a fonti ben informate mediatiche e non solo, e subito diffuse, risultò che la Russia aveva previsto l’arrivo di un suo consistente contingente militare tramite l’aeroporto. Chissà perché?! La reazione della NATO è stata immediata. La Romania, la Bulgaria e l’Ungheria hanno bloccato i rispettivi spazi aerei per i voli russi. E solo dopo il controllo posto sull’aeroporto da parte delle forze della KFOR, il ministero degli Affari Esteri della Russia ha considerato un “errore” l’occupazione dell’aeroporto da parte del contingente militare russo.

    Bisogna però sottolineare che sia la decisione di cominciare gli attacchi aerei sul territorio della Serbia che l’adozione da parte del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite della Risoluzione 1244 il 12 giugno 1999 sono state molto importanti per porre fine ad una sanguinosa guerra ed al ritorno alla normalità. Erano delle decisioni difficili da prendere, ma erano delle decisioni indispensabili ed importanti, prese dopo un lungo periodo di scontri armati, di massacri crudeli e di pulizia etnica contro gli albanesi etnici del Kosovo, che rappresentavano circa il 92% dell’intera popolazione, da parte dell’esercito della Repubblica Federale di Jugoslavia, il cui presidente era Slobodan Milošević. Proprio colui che il 28 giugno 2001 era stato consegnato al Tribunale Penale Internazionale per i Crimini nella ex-Jugoslavia con sede all’Aia in Olanda. L’accusa contro di lui era quella di crimini contro l’umanità per le operazioni di pulizia etnica dell’esercito jugoslavo in Croazia, Bosnia ed Erzegovina e Kosovo.

    Adesso, dopo ventiquattro anni dall’entrata in Kosovo dei primi contingenti della KFOR, proprio il 12 giugno 1999, nonostante molte e ripetute trattative e mediazioni da parte delle istituzioni dell’Unione europea, degli Stati Uniti d’America e di singoli Paesi europei per stabilire la normalità nei rapporti tra la Serbia ed il Kosovo, purtroppo continuano gli attriti. Da più di due settimane ormai la tensione è tornata di nuovo nella irrequieta regione dei Balcani. E sono valse a niente le mediazioni di importanti rappresentanti della Commissione europea, del Dipartimento di Stato statunitense e di altri singoli Stati europei. Il 29 maggio scorso nel nord del Kosovo dei violenti “protestanti” serbi hanno aggredito con bastoni e spranghe, ma anche con l’uso delle armi, sia gli agenti della polizia locale che i soldati della KFOR. Il nostro lettore è stato informato la scorsa settimana di quegli scontri violenti, nonché delle ragioni che hanno portato ad una simile e preoccupante situazione (Non c’è pace nei Balcani; 5 giugno 2023). Immediate sono state le reazioni e le reciproche condanne verbali da parte delle massime autorità del Kosovo e della Serbia. Ma immediate sono state anche le reazioni e le dichiarazioni ufficiali dei massimi rappresentanti della Commissione europea, del Dipartimento di Stato statunitense e di alcuni singoli Stati europei. Anche loro hanno verbalmente condannato quanto stava accadendo nel nord del Kosovo ed hanno chiesto il “ritorno alla normalità”. La Commissione europea ed il Dipartimento di Stato statunitense sono le due importanti istituzioni che da tempo sono state direttamente coinvolte a trovare e garantire una soluzione duratura dei problemi e dei contenziosi tra la Serbia ed il Kosovo. Ma che purtroppo, ad oggi, non ci sono riusciti. Chissà perché?! Comunque sia però, quanto da anni sta accadendo nella regione dei Balcani occidentali, e non solo tra la Serbia ed il Kosovo, dovrebbe far riflettere seriamente tutti i rappresentanti delle istituzioni internazionali coinvolti. Tutti loro, ma anche le massime autorità dei singoli Paesi europei e/o chi per loro, che si stanno prestando a mediare ed a trovare una duratura, perciò giusta e ragionevole, soluzione per tutti i contenziosi tra la Serbia ed il Kosovo hanno assunto una grande responsabilità. Sia personale che istituzionale. Ragion per cui tutti loro, prima di arrivare a delle conclusioni, prima di prendere delle decisioni, prima di cercare di convincere le parti ad accettare un accordo, prima di tutto, dovrebbero conoscere e prendere seriamente in considerazione le storie e le realtà locali. Ragion per cui tutti loro dovrebbero tenere presenti e riflettere sui tanti interessi geopolitici e geostrategici internazionali, quelli attuali ed a medio e lungo termine, che si incrociano nella regione dei Balcani occidentali. Perciò bisogna pensare responsabilmente anche alle conseguenze delle loro proposte, delle loro decisioni e degli accordi raggiunti tra le parti, con l’obbligo della firma. E non come è accaduto quest’anno, prima a Bruxelles, il 27 febbraio e poi ad Ohrid il 18 marzo, quando sono stati presentanti come un “successo” i due rispettivi accordi accettati verbalmente ma non firmati dalle parti. Il nostro lettore è stato informato a tempo debito di tutto ciò (Lunghe mediazioni europee e solo un accordo verbale; 27 marzo 2023).

    Quello che sta accadendo adesso tra la Serbia ed il Kosovo ha inevitabilmente attirato l’attenzione pubblica. Ma sta preoccupando anche l’Unione europea, gli Stati Uniti d’America e le cancellerie di singoli Paesi europei. Quello che accade nei Balcani, da tempo, coinvolge direttamente e/o indirettamente però anche la Russia, la Cina, la Turchia ed alcuni Paesi del Golfo Persico. Il che significa e testimonia che i Balcani rappresentano un’area di interessi geostrategici e geopolitici non indifferenti, anzi, per alcuni dei Paesi più potenti e ricchi del mondo. Un’aumentato interesse per i Balcani occidentali, dovuto a dei fattori geopolitici e geostrategici, si sta verificando adesso, mentre continua la guerra in Ucraina. Da tempo è noto che la Russia gode dell’amicizia storica con la Serbia. Un’amicizia quella dichiarata spesso in questo periodo, sia dal presidente della Russia e dal suo ministro degli Esteri, che dal presidente della Serbia e da alcuni suoi ministri e stretti collaboratori. Un’amicizia quella che spiega anche la decisione della Serbia, un Paese candidato all’adesione nell’Unione europea, di rifiutare di aderire alle sanzioni poste dalla stessa Unione alla Russia, dopo l’inizio dell’aggressione militare contro l’Ucraina, il 24 febbraio 2022. Non a caso durante le ultime “proteste” nel nord del Kosovo gli “oppositori” serbi hanno imbrattato muri e veicoli con la “Z” che gli invasori russi usano in Ucraina. Ma anche con la croce con quattro “C” cirillica corrispondente alla lettera “S”.  Quelle quattro “S” sono le prime lettere delle parole Samo Sloga Srbina Spasava (Solo l’Unità Salva i Serbi; n.d.a.). È ben noto ormai che la Serbia, compresa la chiesa ortodossa della Serbia, insieme con la Russia hanno fatto sempre dei tentativi per essere presenti e controllare il Montenegro dopo il referendum del 21 maggio 2006 per la separazione del Paese dalla Confederazione di Serbia e Montenegro. Lo stesso anche in Macedonia e in Bosnia ed Erzegovina. Non a caso uno dei più stretti collaboratori dell’attuale presidente della Serbia è il presidente della Republika Srpska (Repubblica serba; n.d.a.), una delle due entità statali in Bosnia ed Erzegovina. Proprio quest’ultimo ha fatto sapere giovedì scorso, l’8 giugno, che loro avevano approvato una risoluzione con la quale si chiede a tutti i Paesi membri delle Nazioni Unite che hanno conosciuto il Kosovo come una Repubblica indipendente, di ritirare ufficialmente questo riconoscimento. Nel gennaio scorso il nostro lettore, tra l’altro, è stato informato dei rapporti di dichiarata amicizia con la Russia del presidente della Republika Srpska, il quale con le sue scelte e le sue decisioni, “…sta cercando di avere un suo esercito, nonché un sistema fiscale e giudiziario divisi da quelli della Bosnia ed Erzegovina. Ed è quel presidente che ha recentemente conferito un’onorificenza al presidente della Russia.” (Finanziamenti occulti in cambio di influenze internazionali; 23 gennaio 2023). Ma, fatti accaduti alla mano, la Russia e la Serbia cercano di essere presenti e di controllare gli sviluppi politici e non solo, anche in Montenegro e nella Macedonia del Nord. Ormai è pubblicamente noto il tentativo fallito del colpo di Stato ideato ed organizzato il 16 ottobre 2016, giorno di elezioni in Montenegro, da alcune centinaia di miliziani, in maggioranza serbi e russi. Così come sono noti anche altri casi di presenze, di “rapporti collaborativi” di serbi e russi nella Macedonia del Nord. Giovedì scorso, l’Accademia delle Scienze della Serbia ha presentato un progetto sul modello dell’Associazione dei comuni a maggioranza di serbi etnici in Kosovo. Si tratta proprio del conditio sine qua non, del principale punto di contrasto tra la Serbia ed il Kosovo durante i negoziati con la difficile mediazione dei massimi rappresentanti della Commissione europea e del rappresentante del Dipartimento di Stato statunitense per i Balcani di quest’anno, prima a Bruxelles, il 27 febbraio scorso, e poi ad Ohrid il 18 marzo scorso. Negoziati che, come ormai il nostro lettore sa, sono falliti, nonostante i mediatori hanno cercato di presentare quel fallimento come un “successo condizionato”. Ebbene, il progetto presentato giovedì scorso dall’Accademia delle Scienze della Serbia era nient’altro che il progetto della “Grande Serbia”, una copia dell’ormai ben noto progetto della “Grande Russia”.

    Chi scrive queste righe anche oggi avrebbe avuto molti altri argomenti e fatti accaduti da trattare e condividere con il nostro lettore. Argomenti e fatti che riguardano la crisi in corso tra la Serbia ed il Kosovo. Ed essendo una crisi che potrebbe avere delle conseguenze non solo per i due Paesi, ma anche per l’intera regione ed oltre, probabilmente verrà trattato in seguito. Chi scrive queste righe pensa però che i rappresentanti internazionali devono pensare responsabilmente alle conseguenze di quello che fanno. Purtroppo loro hanno fallito con la loro politica “del bastone e della carota”. Purtroppo loro hanno fallito trattando il presidente serbo con “le buone maniere”, mentre hanno cercato, allo stesso tempo, di “minacciare” le massime autorità del Kosovo. Diventa perciò molto significativa ed attuale la convinzione espressa da Publilio Siro circa ventuno secoli fa: “Chi difende un colpevole si rende complice della colpa”. Quanto sta accadendo lo dimostra.

  • Non c’è pace nei Balcani

    I Balcani producono più storia di quanta ne possano consumare

    Winston Churchill

    Nel 1950 uscì nelle sale cinematografiche in Italia un film del neorealismo italiano che si intitolava Non c’è pace tra gli ulivi. Un film che anche l’autore di queste righe ha visto con piacere diverse volte nel corso degli anni. I due protagonisti del film, maestosamente interpretati da Raf Vallone e Lucia Bosé, sono Francesco, un pastore, e Lucia, la ragazza che lui amava. Francesco, dopo aver combattuto per tre anni al fronte e dopo essere stato, in seguito, per tre anni in prigione, era tornato finalmente a casa. Ma nel frattempo un suo compaesano e pastore, Agostino, aveva rubato quasi tutte le pecore che possedeva la famiglia di Francesco. Convinto però del detto popolare che ‘chi ruba quello che gli appartiene non è un ladro’, decise di riavere le sue pecore. In quel suo piano vengono coinvolti altri suoi famigliari e Lucia che, nonostante amasse Francesco, era promessa sposa ad Agostino. E, guarda caso, Lucia era l’unica che aveva visto Agostino rubare le pecore. Ebbene, Francesco rubò non solo le pecore sottratte alla sua famiglia, ma tutte le pecore che possedeva il vero ladro. Accortosi della perdita delle pecore, Agostino si mise a seguire i ladri. Strada facendo trovò la sorella di Francesco, che non teneva il ritmo degli altri, e la stuprò. Poi, non riuscendo a raggiungerli, denunciò tutto alle autorità. Francesco è stato arrestato e condannato a quattro anni di prigione. Anche perché i compaesani hanno testimoniato a favore di Agostino. Lucia stessa, durante il processo, non ammette di aver visto Agostino rubare le pecore di Francesco. Nel frattempo però Lucia doveva sposare Agostino, ma il giorno del matrimonio la sorella di Francesco, stuprata da Agostino, incontra Lucia e in mezzo a tutti racconta a lei la verità su tutto ciò che era accaduto. Allora Lucia torna nella sua casa paterna; il matrimonio perciò viene annullato. Nel frattempo gli altri pastori si mettono tutti contro Agostino per delle ingiustizie da lui fatte nei loro confronti. Francesco riusce ad evadere dal carcere. Lucia la raggiunge. Francesco insieme con Lucia e anche con l’aiuto ed il pieno supporto dei pastori va a trovare Agostino. Adesso è lui che scappa, trascinando nella sua fuga anche la sorella di Francesco. Ma poco dopo la uccide perché lei, debole di nervi, impediva la fuga. Fuggendo Agostino spara molti colpi contro quelli che lo stavano inseguendo e non si accorge che i proiettili erano finiti. Raggiunto da Francesco, ma senza più colpi in canna, Agostino si getta in un precipizio e muore. Nel frattempo arrivano anche i carabinieri avvertiti di quello che stava accadendo. Il maresciallo dei carabinieri, dopo aver visto e sentito tutto, aveva capito chi era il vero colpevole. Perciò promette e garantisce che avrebbe fatto di tutto per riaprire il processo e fare finalmente giustizia. Una promessa, quella del maresciallo dei carabinieri, che ha riempito di gioia e di speranza per il loro comune futuro anche i due protagonisti del film Non c’è pace tra gli ulivi, Francesco e Lucia.

    Non c’è pace anche nei Balcani. E soprattutto tra la Serbia ed il Kosovo. Nel settembre del 2021 si è riattivato il contenzioso delle targhe automobilistiche. Il governo del Kosovo, rivendicando il principio di reciprocità, facendo riferimento all’Accordo di Bruxelles del 2013 tra i due Paesi, ha imposto il cambio provvisorio delle targhe per i veicoli serbi entrati in Kosovo. Una prassi che la Serbia applica per i veicoli del Kosovo, una volta entrati nel suo territorio. Un conflitto, quello, che ha direttamente coinvolto anche le istituzioni dell’Unione europea, soprattutto la Commissione. Dopo lunghe e non facili trattative la questione fu soltanto posticipata di alcuni mesi. Ma già dal luglio del 2022 altre manifestazioni di protesta si verificarono nel nord del Kosovo. Erano sempre dei protestanti serbi che si opponevano alla decisione del governo del Kosovo sulle targhe. Delle frange estremiste serbe hanno messo in atto blocchi stradali con dei camion ed altri mezzi pesanti. Non ha risolto il contenzioso sulle targhe neanche la mediazione dei massimi rappresentanti della Commissione europea. La situazione si è aggravata ulteriormente il 5 novembre 2022. E questa volta, oltre al contenzioso sulle targhe e le modalità d’applicazione, la parte serba ha aggiunto anche l’istituzione dell’Associazione delle municipalità serbe in Kosovo, come prestabilito nell’Accordo di Bruxelles del 2013. Ma anche nel caso delle Associazioni delle municipalità, quell’Accordo non prevedeva e garantiva il principio di reciprocità per i comuni con maggioranza di abitanti di etnia albanese nel sud della Serbia. Ebbene, il 5 novembre 2022, la protesta dei serbi etnici nel nord del Kosovo portò alle dimissioni di massa dei sindaci, dei consiglieri comunali, dei giudici e dei procuratori, del personale giudiziario e degli agenti di polizia di etnia serba da tutte le istituzioni del Kosovo. La situazione continuò ad aggravarsi anche nei mesi successivi, soprattutto dopo le decisioni di sostituire gli agenti di polizia dimessi e il dimesso ministro per le Comunità con un altro serbo etnico, non gradito però alla Serbia. Per ripristinare la mancata normalità istituzionale dopo le dimissioni di massa nel novembre 2022, era stato deciso di svolgere nuove elezioni in quei quattro comuni il 18 dicembre 2022. Ma l’aggravarsi della situazione, dovuto alle proteste e ai blocchi stradali, non poteva permettere un normale processo. Perciò, dopo diverse consultazioni con i rappresentanti dell’Unione europea e degli Stati Uniti d’America, è stata decisa una nuova data, il 23 aprile 2023, per quelle elezioni comunali. Elezioni nelle quali si sono registrati come candidati sindaci soltanto rappresentanti dei partiti albanesi. Di fronte ad una simile realtà però sono stati proprio i rappresentanti dell’Unione europea e degli Stati Uniti d’America ad insistere perchè le elezioni si svolgessero. Nel frattempo gli elettori di etnia serba, che sono la maggioranza in quei quattro comuni, “consigliati” anche da chi di dovere in Serbia, hanno boicottato in massa le elezioni. Una “scelta” quella che ha permesso ai quattro candidati di etnia albanese ad essere eletti come sindaci, ma con una veramente bassa affluenza degli elettori ai seggi, che non superava i 4% degli aventi diritto al voto. Nonostante ciò le elezioni sono state regolari e secondo le leggi in vigore nel Kosovo i sindaci dovevano insediarsi ufficialmente il 26 maggio scorso.

    Ebbene, da venerdì, 26 maggio scorso, si sono aggravati di nuovo i rapporti tra il Kosovo e la Serbia. Questa volta il casus belli è stato proprio l’insediamento dei nuovi sindaci di etnia albanese in quattro comuni nel nord del Kosovo. Sono stati molti i contestatori serbi che il 26 maggio scorso avevano circondato gli edifici dei comuni per impedire ai nuovi sindaci di entrare nei propri uffici. Protestavano esponenti ed aderenti di un partito dei serbi etnici del Kosovo, molto vicino al presidente della Serbia. Le proteste cominciate il 26 maggio scorso sono proseguite poi per tutta la successiva settimana. Da fonti di informazione credibili risulterebbe che in quelle proteste c’erano anche molti “violenti” arrivati dalla Serbia, tra paramilitari e persone con precedenti penali. Lunedì scorso, il 29 maggio, il governo del Kosovo ha deciso di intervenire e di permettere ai nuovi sindaci di cominciare ad esercitare il loro mandato. E siccome gli edifici comunali erano circondati dai “contestatori”, è dovuta intervenire anche la polizia del Kosovo. Ma i “contestatori” hanno aggredito i poliziotti. Poi, dopo l’intervento dei militari della KFOR (acronimo di Kosovo Force; n.d.a.), i “contestatori” serbi hanno aggredito anche loro. Risulta che sono stati 30 i militari della KFOR, 11 soldati italiani e 19 ungheresi, feriti durante gli scontri il 29 maggio scorso. Gli scontri sono continuati per tutta la settimana scorsa, anche se non più violenti come quelli del 29 maggio. Bisogna però sottolineare che la KFOR è un contingente militare internazionale a guida NATO, attivo in Kosovo dal 12 giugno 1999, due giorni dopo l’adozione della Risoluzione 1244 da parte del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.

    Subito dopo l’inizio degli scontri dei “contestatori” serbi” con le forze di polizia del Kosovo e i militari della KFOR, hanno reagito le massime autorità del Kosovo e della Serbia. Hanno reagito anche i massimi rappresentanti dell’Unione europea, soprattutto quelli della Commisione, nonché il segretario di Stato statunitense ed il responsabile per i Balcani del Dipartimento di Stato. Però alcuni di loro hanno dovuto “correggere” le loro dichiarazioni dopo le reazioni del primo ministro e della presidente del Kosovo. E purtroppo anche durante la scorsa settimana si è verificato il solito atteggiamento ambiguo di non pochi alti rappresentanti istituzionali e statali europei e statunitensi per delle situazioni e realtà chiare e per niente ambigue. Già da lunedì scorso quasi tutti loro hanno cercato di incolpare non l’aggressore, bensì l’aggredito. Hanno cercato di fare pressione sulle autorità del Kosovo, le quali hanno semplicemente cercato di rispettare le leggi in vigore. Leggi fatte con la sempre presente ed attiva consulenza delle istituzioni specializzate sia dell’Unione europea che altre. Sono stati gli stessi rappresentanti che nell’aprile scorso sono stati determinati ad avere elezioni in quei quattro comuni nel nord del Kosovo che, un mese dopo, hanno “dimenticato” tutto ed hanno incolpato le autorità del Kosovo. Così facendo davano un “appoggio” al presidente della Serbia, nonostante tutti sanno che è lui e/o chi per lui ad aver “consigliato” gli aventi diritto al voto di etnia serba in quei quattro comuni a boicottare le elezioni il 23 aprile scorso. Bisogna sottolineare che il presidente della Serbia la scorsa settimana ha avuto il pieno e dichiarato sostegno della Russia. E per coloro che non lo sanno, o che lo hanno dimenticato, l’attuale presidente della Serbia è stato, dal marzo del 1998 fino all’ottobre del 2000 il ministro dell’Informazione della Repubblica Federale di Jugoslavia (Repubblica costituita allora solo dalla Serbia ed il Montenegro; n.d.r.). Ed in quel periodo il Presidente della Repubblica era Slobodan Milošević, accusato di crimini contro l’umanità per le operazioni di pulizia etnica dell’esercito jugoslavo in Croazia, Bosnia ed Erzegovina e Kosovo e processato poi dal Tribunale penale internazionale. In più l’attuale presidente della Serbia, durante la guerra del Kosovo (1998-1999) ha presentato una legge sull’informazione, poi approvata ed attuata, che penalzzava tutti i media che si opponevano al regime di Milošević. Ragion per cui allora lui, l’attuale presidente della Serbia, fu inserito nella Black List (Lista nera; n.d.a.) dell’Unione europea. Ed e proprio lui che non ha aderito neanche alle sanzioni poste dall’Unione europea alla Russia, dopo l’aggressione in Ucraina. Chissà perché da alcuni anni i massimi rappresentanti dell’Unione europea, soprattutto quegli della Commissione, cercano però di “prendere con le buone” il presidente della Serbia?!

    I rapporti tra la Serbia ed il Kosovo sono stati sempre molto difficili e problematici. E quanto è accaduto la scorsa settimana lo dimostra. I massimi rappresentanti dell’Unione europea, soprattutto quelli della Commissione, hanno cercato di fare da mediatori nei negoziati tra le parti. Nel passato ci sono stati degli accordi (2013 e 2015) e quest’anno altri due: quello di Bruxelles del 27 febbraio e poi l’Accordo di Ohrid del 18 marzo. Questi due ultimi accordi però sono stati soltanto verbali, ma non ufficialmente firmati, sia dal presidente della Serbia che dal primo ministro del Kosovo, anche se quest’ultimo aveva dichiarato la sua disponibilità a firmare. Accordi che però sono stati presentanti come un “successo” dai massimi rappresentanti della Commissione europea! L’autore di queste righe già allora era convinto che “…l’accordo non firmato di Ohrid, raggiunto dopo le lunghe e difficili mediazioni europee, soprattutto dell’Alto rappresentante dell’Unione per gli Affari esteri e la Politica di Sicurezza, purtroppo non sarà rispettato. Non a caso è stata rifiutata la firma finale.” (Lunghe mediazioni europee e solo un accordo verbale; 27 marzo 2023).

    Chi scrive queste righe, come molte altre persone, purtroppo constata che ancora non c’è pace nei Balcani. Come non c’era pace tra gli ulivi, nell’omonimo film del regista Giuseppe de Santis. Ma alla fine del film il maresciallo dei carabinieri capì chi era il vero colpevole e promise che avrebbe fatto di tutto per fare finalmente giustizia. Chissà se accadrà lo stesso anche nei Balcani che, come diceva Churchill, producono più storia di quanta ne possano consumare.

  • Lunghe mediazioni europee e solo un accordo verbale

    L’accordo di principio è la più cortese forma di disaccordo.

    Robert Emil Lembke

    La scorsa settimana il nostro lettore è stato informato sul vertice del Consiglio di Stabilizzazione ed Associazione tra l’Unione europea e l’Albania, svoltosi a Tirana il 16 marzo scorso. Un vertice al quale hanno partecipato, oltre all’anfitrione, il primo ministro albanese, anche due alti rappresentanti della Commissione europea. I due illustri ospiti erano l’Alto rappresentante dell’Unione per gli Affari esteri e la Politica di Sicurezza, allo stesso tempo vicepresidente della Commissione europea, ed il Commissario europeo per l’Allargamento e la Politica di Vicinato. Dopo il vertice si è tenuta anche una conferenza congiunta con i giornalisti. Chi conosce la realtà albanese, nonché l’innata e viscerale abilità del primo ministro albanese di mentire e di ingannare, non poteva avere dubbi che lui avrebbe fatto di nuovo quello che sta facendo da anni in simili occasioni. E cioè che avrebbe di nuovo mentito ed ingannato spudoratamente, cercando di presentare per vera solo una immaginaria e virtuale realtà. Una realtà che niente ha a che fare con quella vera, vissuta e sofferta quotidianamente dalla maggior parte degli albanesi. Una realtà che, proprio perché è tale, da alcuni anni ha costretto, dati ufficiali alla mano, circa un terzo della popolazione residente in Albania a lasciare tutto e tutti e cercare una vita migliore in altri paesi europei ed oltreoceano. Ma purtroppo anche i due illustri ospiti europei, trascurando, loro sanno perché, la vera realtà albanese, hanno parlato di “successi” mai raggiunti, anzi! Una realtà, quella albanese, che da anni è stata descritta con dei dettagli anche dai rapporti ufficiali delle istituzioni internazionali specializzate, comprese alcune dell’Unione europea. Chissà perché i due alti rappresentanti della Commissione europea non erano stati informati del contenuto di quei rapporti dai loro collaboratori?! Riferendosi a quelle irreali dichiarazioni durante la congiunta conferenza con i giornalisti, dopo il sopracitato vertice del 16 marzo scorso, il nostro lettore è stato informato del fatto che “si è ripetuto però e purtroppo lo stesso scenario. Come in tante altre precedenti occasioni durante questi ultimi anni, anche giovedì scorso, nonostante la vera, vissuta, sofferta e scandalosa realtà albanese, gli illustri ospiti europei hanno parlato di “successi” (Sic!). Ma a quali “successi” si riferivano?”. Ed in seguito l’autore di queste righe faceva una lunga serie di domande, mettendo in evidenza l’eclatante contrasto tra la vera realtà e quella immaginaria e illusoria, dovuta ai tanti “successi” del primo ministro albanese e del suo governo. “Successi” ai quali si riferivano i due alti rappresentanti della Commissione europea (Ipocrisia e irresponsabilità di alcuni rappresentanti europei; 20 marzo 2023). “Successi” che non solo non hanno convinto nessuno ma, evidenziando proprio l’ipocrisia e l’irresponsabilità dei due alti rappresentanti della Commissione europea, hanno messo in repentaglio la serietà stessa delle istituzioni dell’Unione europea.

    Durante il vertice di Tirana del Consiglio di Stabilizzazione ed Associazione tra l’Unione europea e l’Albania, oltre alle sue solite bugie ed inganni verbali riguardo l’immaginaria e illusoria realtà albanese, il primo ministro ha fatto riferimento allo stato in cui si trova l’Albania nel suo percorso europeo. Ed anche in questo caso ha mentito. Ha prima espresso il suo riconoscimento ed ha ringraziato, per il loro continuo appoggio, i due alti rappresentanti della Commissione europea, i quali, in seguito, hanno parlato dei “successi” dovuti all’impegno del primo ministro e del suo governo. Poi, parlando anche lui di “successi e della fruttuosa ed apprezzabile collaborazione tra le parti”, il primo ministro albanese ha detto che era contento perché “…l’atmosfera di questo vertice è stata estremamente positiva”. Parlando del processo dell’adesione dell’Albania nell’Unione europea, lui ha detto che “…noi oggi siamo molto felici mentre constatiamo che le cose sono andate secondo le previsioni: non abbiamo avuto nessun ritardo e non abbiamo nessun problema”. Una bugia bella e pura, detta dal primo ministro come al suo solito, senza batter ciglio. Si, perché fatti accaduti, documentanti e pubblicamente noti alla mano, comprese anche le ripetute decisioni del Consiglio europeo di questi ultimi anni, il processo europeo dell’Albania ha avuto solo ritardi e rinvii ed è stato contrassegnato da tantissimi seri e preoccupanti problemi. Riferendosi alla collaborazione con la Commissione europea, il primo ministro, contento e fiero, ha confermato che “…. abbiamo un pieno accordo in tutto l’asse di questa collaborazione strategica”. E poi, sempre fiero e contento, lui ha aggiunto che finalmente “…l’Albania adesso non è più in coda del treno dell’integrazione [europea], bensì alla testa.” (Sic!). In seguito si è rivolto all’Alto rappresentante dell’Unione per gli Affari esteri e la Politica di Sicurezza che, da Tirana, doveva andare direttamente, l’indomani, nella Macedonia del Nord per assistere ai difficili negoziati tra la Serbia ed il Kosovo. “… Mi permetta di dire che noi guardiamo con ammirazione i suoi sforzi per la normalizzazione dei rapporti tra il Kosovo e la Serbia”, ha dichiarato riconoscente il primo ministro albanese. Proprio lui che è molto fiero e contento anche del ruolo dell’Albania nella regione dei Balcani. Un ruolo che “…viene valutato come un modello per l’aspetto della promozione della pace, del dialogo e della normalizzazione”. E sicuramente era una dichiarazione autoreferenziale e di autostima, suscitata dal suo subconscio, perché lui non perde mai occasione di apparire come uno dei veri promotori della pace, della collaborazione e della stabilità nella regione dei Balcani occidentali. Anche la vanità è una sua caratteristica innata e viscerale. Lui rivendica anche la paternità, insieme con il suo “caro amico”, il presidente serbo, dell’iniziativa Open Balkans. Un’iniziativa che contrasta un’altra iniziativa europea, sempre nella regione dei Balcani occidentali, quella che dal 2014 è nota come il Processo di Berlino. Un’iniziativa fortemente voluta ed appoggiata sia dalla Germania, quale promotore dell’iniziativa, sia dagli altri Stati membri dell’Unione europea e dalle sue istituzioni. E anche dai Paesi dei Balcani occidentali, alcuni dei quali, come la Serbia e l’Albania, magari formalmente. Mentre l’iniziativa Open Balkans è stata promossa e sostenuta soltanto da tre dei sei Paesi dei Balcani occidentali, e cioè dalla Serbia, dall’Albania e dalla Macedonia del Nord. Mentre il Montenegro, il Kosovo e Bosnia ed Erzegovina hanno contrastato l’iniziativa, ribadendo, convinti, che portava vantaggi soltanto alla Serbia. Il nostro lettore è stato informato diverse volte e a tempo debito anche dell’occulta e pericolosa iniziativa Open Balkans, del suo ideatore, un multimiliardario e speculatore di borsa da oltreoceano e di chi gli sta dietro, compreso il presidente serbo ed il primo ministro albanese  (Accordo ingannevole e pericoloso, 13 gennaio 2020; Bugie scandalose elevate a livello statale; 24 febbraio 2020; Preoccupanti avvisaglie dai Balcani, 8 novembre 202; Un’ingannevole ed occulta iniziativa regionale, 31 maggio 2022; Smascheramento in corso di un’accordo regionale occulto, 13 giugno 2022; Pericolose somiglianze espansionistiche, 26 agosto 2022 ecc…).

    Come prestabilito, l’Alto rappresentante dell’Unione per gli Affari esteri e la Politica di Sicurezza, dopo il sopracitato vertice di Tirana l’indomani, il 17 marzo scorso, era già ad Ohrid, una nota città della Macedonia del Nord, in riva al omonimo lago. Una città dove, dopo il vertice di Bruxelles del 27 febbraio scorso, era previsto lo svolgimento di un altro incontro, sempre con la mediazione degli alti rappresentanti dell’Unione europea, tra il presidente della Serbia ed il primo ministro del Kosovo. Un incontro nell’ambito di quello che, dal novembre 2022, è ormai noto come il piano franco-tedesco per la normalizzazione delle relazioni tra la Serbia ed il Kosovo. Ohrid è la città dove, il 13 agosto 2001, sono stati sottoscritti anche quelli che da allora vengono riconosciuti proprio come gli Accordi di Ohrid. Accordi che hanno messo fine ad un pericoloso conflitto armato, avviato all’inizio del 2001, tra le due etnie, quella macedone e quella albanese, parti integranti della popolazione macedone. Chissà perciò se la scelta di Ohrid è stata fatta anche come un buon auspicio per l’esito delle trattative, promosse dall’Unione europea, sulla normalizzazione delle relazioni tra la Serbia ed il Kosovo? Ma non sempre servono e funzionano i buoni auspici.

    Le trattative, si prevedeva, dovevano essere difficili. E così sono veramente state. La mattina del 18 marzo scorso ad Ohrid sono cominciati, all’inizio, gli incontri separati tra gli alti rappresentanti dell’Unione europea e i capi delle delegazioni della Serbia e del Kosovo. L’Unione europea era rappresentata dall’Alto rappresentante dell’Unione per gli Affari esteri e la Politica di Sicurezza e dal rappresentante speciale dell’Unione europea per il dialogo tra la Serbia ed il Kosovo. In seguito agli incontri separati, si è svolto anche l’incontro comune, dove hanno partecipato i due alti rappresentanti dell’Unione europea, il presidente della Serbia ed il primo ministro del Kosovo. Si è trattato di un lungo incontro e, da quanto riferito in seguito, si è trattato soprattutto di trattative non facili che non hanno permesso di raggiungere gli obiettivi proposti dall’Unione europea. Obiettivi che si riferivano al piano franco-tedesco di undici punti, trattati senza un esito positivo anche durante il vertice di Bruxelles del 27 febbraio scorso. Purtroppo neanche ad Ohrid, il 18 marzo scorso, dopo circa dodici ore di incontri separati e di lunghe e difficili trattative tra le parti, non si è ottenuto quello era stato prestabilito dall’Unione europea. Anzi, proprio l’Unione europea, tramite i due suoi alti rappresentanti, è stata costretta a cambiare gli obiettivi per mettere d’accordo il presidente della Serbia ed il primo ministro del Kosovo. Alla fine è stata raggiunta una faticosa intesa tra le parti. Un’intesa che metteva insieme il testo dell’accordo, elaborato in base a quanto è stato raggiunto a Bruxelles il 27 febbraio scorso e a quanto le parti si sono concordate durante le trattative ad Ohrid, con quello che è stato intitolato “L’allegato di attuazione” dell’accordo stesso. Ma come a Bruxelles il 27 febbraio scorso, anche ad Ohrid, il 18 marzo scorso, l’accordo non è stato di nuovo firmato! E sia a Bruxelles che ad Ohrid, il primo ministro del Kosovo ha affermato la sua disponibilità a firmare. Un rifiuto quello che ha messo di nuovo in difficoltà i mediatori europei e soprattutto l’Alto rappresentante dell’Unione per gli Affari esteri e la Politica di Sicurezza. Perché, dalle tante esperienze legali e di giurisprudenza, sia quelle dei singoli Paesi, sia di quelle internazionali, nonché dalle ben note norme della legislazione internazionale in vigore, si sa che sono soltanto gli accordi firmati che obbligano le parti firmatarie. Mentre quelli non firmati, come quello raggiunto soltanto verbalmente il 18 marzo scorso ad Ohrid, permettono di fare scelte diverse e prendere altre decisioni in futuro. E, guarda caso, sono proprio gli accordi tra la Serbia ed il Kosovo che, pur essendo firmati, non sono stati in seguito rispettati dalle parti per delle diverse “ragioni”. Dalle esperienze di questi ultimi anni risulta che sono tanti gli impegni presi con i precedenti accordi di Bruxelles nel 2013 e 2015, che in seguito sono stati disattesi dalle parti firmatarie, la Serbia ed il Kosovo. Perciò chissà cosa succederà con l’accordo non firmato di Ohrid?! Una prima avvisaglia è arrivata da Belgrado, solo un giorno dopo le lunghe e difficili trattative di Ohrid. Il presidente serbo ha dichiarato perentorio: “Lo dico anche oggi, che nessuno può imporre un obbligo legale alla Serbia”. Aggiungendo, riferendosi all’accordo non firmato e al suo Allegato di attuazione, che “…Ci sono cose che non possiamo fare e che non sono [neanche] realistiche”. Rimane da seguire gli sviluppi successivi, ma niente fa pensare in positivo.

    Chi scrive queste righe pensa che l’accordo non firmato di Ohrid, raggiunto dopo le lunghe e difficili mediazioni europee, soprattutto dell’Alto rappresentante dell’Unione per gli Affari esteri e la Politica di Sicurezza, purtroppo non sarà rispettato. Non ha caso è stata rifiutata la firma finale. E si sa, come affermava il giornalista tedesco Robert Emil Lembke, che “l’accordo di principio è la più cortese forma di disaccordo”. E l’accordo non firmato non obbliga chi è malintenzionato.

  • Finanziamenti occulti in cambio di influenze internazionali

    Chi nasce tondo non può morire quadrato.

    Proverbio  

    Era il 9 dicembre scorso quando ebbe inizio quello che subito dopo è stato denominato Qatargate. Una somiglianza verbale con il ben noto scandalo Watergate, riferito alla seconda parte della parola. Proprio quello che scoppiò negli Stati Uniti d’America nel 1972 e che riguardava le intercettazioni illegali alla vigilia delle elezioni presidenziali del 7 novembre 1972, mentre Qatargate ha a che fare con l’emirato arabo del Qatar. Uno Stato, quello, situato su una piccola penisola sul golfo persico. Un piccolo Paese che fino ad un centinaio di anni fa era popolato da pescatori di perle ed allevatori di cammelli, ma che, dopo le scoperte delle enormi riserve di petrolio e soprattutto di gas, all’inizio del secolo passato, divenne un territorio di grande interesse per degli investimenti occidentali. Attualmente il Qatar rappresenta uno dei Paesi più importanti nel mondo per l’approvvigionamento di gas. Dati alla mano, il Qatar rappresenta il primo esportatore globale di gas naturale con circa il 14% delle riserve mondiali. Ragion per cui è anche un Paese molto ricco. Ma è altresì un Paese dove si ignorano e si calpestano i basilari diritti civili e quelli dei lavoratori. Sono stati a migliaia i migranti morti mentre lavoravano per la costruzione degli stadi per il campionato mondiale di calcio. E proprio per cancellare quella brutta e vergognosa immagine sembrerebbe che siano stati versati ingenti somme di denaro per pagare l’appoggio dell’Unione europea e di singoli Stati occidentali. Ma non è solo la documentata violazione dei diritti civili e dei lavoratori che il Qatar ha cercato di “offuscare” con pagamenti milionari fatti ad importanti rappresentanti istituzionali. C’è anche la proposta che riguarda l’esenzione di visti per i cittadini dell’emirato di viaggiare liberamente in Europa. Ragion per cui il Qatar ha cercato in questi ultimi anni di assicurare l’appoggio a suo favore influenzando con finanziamenti occulti ed attività lobbistiche le decisioni delle istituzioni dell’Unione europea. Lo scandalo Qatargate, reso pubblico dal 9 dicembre scorso, è tuttora in corso. E da allora ci sono stati ulteriori sviluppi nelle indagini condotte dalla procura belga. Indagini che potrebbero portare ad altri coinvolgimenti, sia di persone influenti nell’ambito delle istituzioni europee e/o di altre organizzazioni, che di mandanti e finanziatori di attività lobbistiche. Finora, dalle indiscrezioni mediatiche risulterebbe che un altro Paese, il Regno del Marocco, potrebbe aver finanziato, con ingenti somme, delle decisioni prese a suo favore dalle istituzioni dell’Unione europea. L’accordo tra l’Unione europea e il Marocco sulla pesca, approvato nel 2019, è stato in seguito rifiutato dalla Corte europea perché in quell’accordo si includevano, come parte integrante del territorio del Regno di Marocco, anche territori del Sahara occidentale, contestati da altri. Un buon e convincente motivo perché si possano versare dei milioni però.

    L’autore di queste righe, riferendosi allo scandalo Qatargate, scriveva alcune settimane fa per il nostro lettore che si trattava di “…Uno scandalo tuttora in corso, nell’ambito del quale sono state arrestate alcune persone. Tra le quali anche la vice presidente del Parlamento europeo ed un ex eurodeputato italiano. Quest’ultimo è, dal 2019, anche il fondatore di una ONG (organizzazione non governativa; n.d.a.) il cui nome è Fight Impunity (Combattere l’Impunità; n.d.a.). Un nome che è tutto un programma! E chissà perché nel consiglio dei membri onorari dell’organizzazione, cioè dei garanti, hanno fatto parte, fino al 10 dicembre scorso, diverse persone note ed ancora influenti, alcune delle quali anche ex commissarie della Commissione europea.” (Ciarlatani e corrotti di alto livello istituzionale; 19 dicembre 2022). La scorsa settimana, il 17 gennaio, proprio l’ex eurodeputato italiano e fondatore della ONG Fight Impunity ha firmato con il procuratore che sta seguendo in Belgio le indagini su Qatargate un memorandum, dichiarandosi pentito e perciò anche collaboratore di giustizia. In base a quanto prevede la legge belga, adesso lui si impegna perciò “a informare la giustizia e gli inquirenti in particolare sul modus operandi, gli accordi finanziari con Stati terzi, le architetture finanziarie messe in atto, i beneficiari delle strutture messe in atto e i vantaggi proposti, l’implicazione delle persone conosciute e di quelle ancora non conosciute nel dossier, ivi inclusa l’identità delle persone che ammette di aver corrotto”. Chissà cosa avrà da dichiarare ed informare l’ex eurodeputato pentito e collaboratore di giustizia? Si sa però che con quella sua decisione, dal 17 gennaio scorso, altre persone non sono più tranquille, essendo in vari modi coinvolte in attività che hanno beneficiato di finanziamenti occulti in cambio di influenze internazionali, abusando dei loro obblighi istituzionali.

    Il 18 gennaio scorso, il gruppo parlamentare dell’Alleanza progressista di socialisti e democratici ha ufficializzato una sua richiesta al Parlamento europeo. Essendo presa in considerazione quella richiesta, il Parlamento europeo chiede, a sua volta, lo svolgimento di “…un’indagine indipendente e imparziale sul Commissario europeo per l’Allargamento e la Politica di vicinato”. In più si prende in considerazione il fatto che il Commissario europeo potrebbe aver violato il Codice di condotta dei membri della Commissione europea durante il suo operato nei Balcani occidentali. Ragion per cui la richiesta fatta è stata inclusa nel rapporto annuale sulla politica estera e di sicurezza comune. E proprio nel pomeriggio del 18 gennaio scorso, l’Assemblea plenaria del Parlamento europeo ha adottato quel rapporto con 407 voti a favore, 92 contrari e 142 astenuti. In quel rapporto, tra l’altro, si evidenziava che “…il Parlamento europeo rimane profondamente preoccupato per le notizie secondo cui il Commissario per l’Allargamento cerca deliberatamente di agitare e minare la centralità delle riforme democratiche e dello Stato di diritto nei Paesi in via di adesione all’Unione europea”. E si fa espressamente riferimento al comportamento del Commissario nel caso della crisi istituzionale in Bosnia ed Erzegovina all’inizio dell’anno scorso. Da sottolineare che il Paese è uno di quelli candidati dei Balcani occidentali. Ma per l’Unione europea, e non solo, da più di un anno, il comportamento ufficiale ed i rapporti di dichiarata amicizia con la Russia del presidente della Republika Srpska (Repubblica serba; n.d.a.), che è una delle due entità statali in Bosnia ed Erzegovina, a maggioranza serba, sta preoccupando le istituzioni dell’Unione europea. Con le sue scelte e le sue decisioni, il presidente della Republika Srpska sta cercando di avere un suo esercito, nonché un sistema fiscale e giudiziario divisi da quegli della Bosnia ed Erzegovina. Ed è quel presidente che ha recentemente conferito un’onorificenza al presidente della Russia. Ma, fatti accaduti e resi pubblici alla mano, risulterebbe che oltre al presidente della Republika Srpska, il Commissario europeo per l’Allargamento e la Politica di vicinato abbia degli ottimi rapporti anche con il presidente della Serbia. E si sa che c’è proprio la Serbia dietro tutte le “iniziative” del presidente della Republika Srpska. Si sa anche che la Serbia, un Paese candidato all’adesione nell’Unione europea, non ha aderito alle sanzioni poste dall’Unione alla Russia, dopo l’inizio della guerra in Ucraina, il 24 febbraio scorso. Ragion per cui i promotori della richiesta rivolta il 18 gennaio scorso al Parlamento europeo hanno espresso anche la loro preoccupazione riguardo i rapporti del Commissario europeo per l’Allargamento e la Politica di vicinato sia con il presidente della Serbia, che con quello della Republika Srpska. Secondo i promotori della sopracitata richiesta il Commissario tende a relativizzare i comportamenti e gli atti antidemocratici del presidente della Serbia, mentre appoggia gli atti separatisti del presidente della Republika Srpska.

    Già un anno fa, il 12 gennaio 2022, trenta eurodeputati hanno inviato una lettera alla Commissione europea, tramite la quale chiedevano di verificare su “…possibili violazioni dell’imparzialità e neutralità” del Commissario per l’Allargamento e la Politica di vicinato, in riferimento ai concreti e sopracitati tentativi secessionistici del presidente della Republika Srpska. Mentre il 18 gennaio scorso, un anno dopo, con l’approvazione dal Parlamento europeo del rapporto annuale sulla politica estera e di sicurezza comune, si mette in evidenza che l’operato del Commissario europeo costituisce “…una violazione del Codice di condotta per i membri della Commissione e degli obblighi del Commissario, ai sensi dei Trattati”. Bisogna sottolineare che, tra l’altro, il Codice di condotta sancisce il modo in cui i commissari europei debbano attuare in concreto i loro obblighi istituzionali di indipendenza ed integrità. In quel Codice si prevede e si sancisce, altresì, che “I membri della Commissione si astengono da ogni atto incompatibile con il carattere delle loro funzioni”. In più si sancisce che loro, durante tutto il periodo dell’esercitazione del mandato conferito “assumono l’impegno solenne di rispettare gli obblighi derivanti dalla loro carica”. Rimane da seguire e di conoscere le conclusioni delle indagini che svolgerà la Commissione europea nei confronti del Commissario per l’Allargamento e la Politica di vicinato. Chissà però se siano vere le accuse a lui fatte. E se così sarà allora viene naturale pensare: lo ha fatto per sua propria convinzione, oppure in seguito a delle attività lobbistiche. Si sa però che la Serbia da anni finanzia “gruppi di interesse” e attività lobbistiche a suo favore. Sono note anche le relazioni di “vecchia amicizia” che la Serbia ha con alcuni Paesi europei. Ma, fino alla pubblicazione delle conclusioni dell’indagine della Commissione europea, bisogna essere garantisti.

    Leggendo il testo della sopracitata richiesta fatta il 18 gennaio scorso al Parlamento europeo e del rapporto annuale sulla politica estera e di sicurezza comune dallo stesso Parlamento, nel quale era inserita integralmente la richiesta, ad una persona che conosce i Paesi dei Balcani occidentali, non poteva non pensare anche all’Albania. Pur non essendo stata citata, alcune affermazioni del rapporto sono attuali e si verificano quotidianamente in Albania. Soprattutto quando si tratta del rapporto che il primo ministro ha con i principi della democrazia. Come anche il presidente della Serbia, al quale lo legano degli ottimi rapporti di “amicizia e fratellanza”. E non a caso lui, il primo ministro albanese, ha fatto “l’avvocato” della Serbia, anche nelle istituzioni dell’Unione europea. Lo ha fatto anche la scorsa settimana, durante il vertice economico di Davos. Durante quel vertice il primo ministro albanese, cercando di essere “originale”, ha fatto anche una gaffe, rivolgendosi alla presidente del Parlamento europeo e riferendosi allo scandalo Qatargate. Ha citato fuori contesto il detto “Il karma è una puttana”, senza però aggiungere la rimanente parte del detto “che agisce sul lungo termine”. Con ogni probabilità non conosceva il vero significato del detto.

    Il nostro lettore è stato spesso informato della vera, vissuta e sofferta realtà albanese. L’Albania è uno dei Paesi più poveri, se non il più povero, dell’Europa. In Albania, durante questi ultimi anni si sta consolidando una nuova dittatura sui generis. Anche di questo il nostro lettore è stato spesso informato. Ma nonostante tutto ciò, il primo ministro ed i suoi “alleati”, i capi della criminalità organizzata e i rappresentanti di certi raggruppamenti occulti locali ed/o internazionali sono ricchissimi. Ragion per cui possono anche spendere molto.

    Chi scrive sueste righe è convinto che anche il primo ministro albanese può pagare tangenti miliardarie per “ripulire” la sua imagine. Proprio come hanno fatto i suoi simili in Qatar ed in Marocco, pagando e comprando alti funzionari e deputati del Parlamento europeo ed altre Istituzioni dell’Unione. Sono ormai noti anche i rapporti entusiastici e ottimisti di progresso della Commissione europea sull’Albania. Comprese anche le dichiarazioni dell’attuale Commissario dell’Allargamento. Di colui che, dal 18 gennaio scorso è sotto indagine dalla Commissione. Chissà se anche le sue dichiarazioni sull’Albania non siano “condizionate” da altro?! Si sa però che, come ci insegna la saggezza popolare, chi nasce tondo non può morire quadrato.

  • Ipocriti che continuano a nascondere gravissime realtà

    Solo l’ipocrita è davvero marcio fino al midollo.

    Hannah Arendt; da “Sulla rivoluzione”

    Era il 9 aprile dell’anno 1300, verso le ore 9 del mattino quando Dante e Virgilio, scesi all’ottavo cerchio dell’Inferno, ossia le Malebolge, sono stati inseguiti dai diavoli dell’Inferno, i Malebranche. Alla fine però sono riusciti ad allontanarsi. Erano arrivati all’orlo della sesta bolgia dove soffrivano le pene dell’inferno gli ipocriti. Quelli che hanno sempre presentato per vero ciò che in realtà non lo era. Peccato gravissimo. E, per aumentare il loro castigo, erano costretti ad indossare sempre delle cappe che fuori erano dorate, ma all’interno erano imbottite di piombo, perciò molto pesanti. “…Là giù trovammo una gente dipinta/che giva intorno assai con lenti passi/piangendo e nel sembiante stanca e vinta”. Così scrive il sommo poeta Dante Alighieri nella sua Divina commedia (canto XXIII dell’Inferno). Quelli erano proprio gli ipocriti, rinchiusi nella sesta bolgia. Erano tanti e stavano stretti. Camminavano con molta fatica, a causa delle lunghe e pesanti cappe lucenti d’oro, ma imbottite di piombo e con dei bassi cappucci che scendevano giù. Erano dei lunghi mantelli fatti come quelli dei monaci cluniacensi (monaci di un noto monastero benedettino che si trova a Cluny, una cittadina in Francia; n.d.a.). Poi il canto prosegue: “Oh in etterno faticoso manto!/Noi ci volgemmo ancor pur a man manca/con loro insieme, intenti/al tristo pianto;/ma per lo peso quella gente stanca/venìa sì pian, che noi eravam nuovi/di compagnia ad ogne mover d’anca”. Questo ci racconta Dante, nel suo canto XXIII dell’Inferno, testimoniando così le sofferenze atroci e perpetue degli ipocriti. Ed era una pena per l’eternità quella loro.

    Il 6 dicembre scorso a Tirana, nella capitale dell’Albania si è svolto il vertice dell’Unione europea con i rappresentanti dei sei Paesi dei Balcani occidentali. Oltre al presidente del Consiglio europeo, alla presidente della Commissione europea e di altri rappresentanti dell’Unione, erano presenti anche i capi di Stato e di governo dei Paesi membri dell’Unione europea, tranne il primo ministro della Spagna, perché nello stesso giorno si celebrava la festa della Costituzione nel Paese iberico. Erano presenti i massimi rappresentanti dei Paesi balcanici e di altre istituzioni internazionali. Un vertice, quello di Tirana, che tra l’accoglienza dei partecipanti, i ricevimenti ufficiali ed i concerti di danza tradizionale e moderna non ha lasciato molto tempo per delle necessarie discussioni sulle problematiche che riguardano la situazione internazionale, la regione dei Balcani ed altro. Era stato previsto che durante il vertice si dovevano trattare alcune questioni. Ci si doveva accordare su come affrontare le conseguenze dell’aggressione russa contro l’Ucraina. Si doveva altresì trattare come intensificare il dialogo politico e strategico per l’allargamento dell’Unione. Si dovevano discutere anche il rafforzamento della sicurezza e della resilienza contro le ingerenze straniere, il preoccupante problema della migrazione e la lotta contro il terrorismo e la criminalità organizzata. Alla conclusione del vertice è stata approvata una dichiarazione comune dei partecipanti. In quella dichiarazione, tra l’altro, è stato sottolineato che l’aggressione della Russia contro l’Ucraina sta mettendo in serio pericolo la pace e la sicurezza a livello europeo e globale. Ragion per cui bisogna consolidare e garantire un partenariato strategico tra l’Unione europea e i Paesi balcanici. In più l’Unione europea ha riconfermato il suo pieno impegno per l’allargamento dell’Unione ai Paesi dei Balcani occidentali. Nella dichiarazione finale si ribadisce che l’Unione europea apprezza la determinazione dei partner dei Balcani occidentali per sostenere i valori e i principi fondamentali dell’Europa. In quella dichiarazione si evidenziano anche altre affermazioni comuni e le decisioni prese durante il vertice, come l’abbassamento dei costi dell’uso del servizio roaming per i Paesi balcanici, a partire dal prossimo anno, alcuni accordi di collaborazione e di sostegno nel campo economico, energetico, delle università ecc.. Alla fine del vertice, si è svolta una conferenza comune con i giornalisti del presidente del Consiglio europeo, della presidente della Commissione europea e del primo ministro albanese, come Paese ospitante del vertice.

    Purtroppo, anche questo vertice non ha potuto evitare comportamenti, constatazioni e dichiarazioni poco credibili, ipocrite, che non rispecchiano la vera, vissuta e sofferta realtà dei Paesi dei Balcani occidentali. Lo testimonia quanto sta accadendo nel Kosove del nord, dove, da sabato scorso, sono cominciati degli scontri, anche armati, tra dei raggruppamenti paramilitari serbi ed il contingente internazionale che opera in Kosovo. Una preoccupante situazione questa tuttora in corso. Lo testimonia quanto sta succedendo, almeno da alcuni mesi, in Bosnia ed Erzegovina. Così come lo stanno testimoniando gli sviluppi in Montenegro e anche nella Macedonia del Nord. Quanto è stato scritto nella dichiarazione finale del vertice di Tirana del 6 dicembre scorso tra l’Unione europea e i Paesi dei Balcani occidentali, non rispecchia la vera realtà in Serbia. Non solo, ma la Serbia, un Paese candidato all’adesione nell’Unione europea, è anche l’unico Paese che non ha aderito alle diverse sanzioni poste dall’Unione alla Russia, in seguito all’aggressione contro l’Ucraina. E continua a non diventare parte attiva di quelle sanzioni, anzi! La Serbia, in più, continua ad avere un rapporto di dichiarata amicizia e di collaborazione con la Russia. Soltanto durante questi ultimi mesi sono ormai di dominio pubblico le dichiarazioni sia del ministro degli Esteri russo, che quelle del ministro degli Interni serbo e anche dello stesso presidente della Serbia.

    Nel caso dell’Albania, quanto è stato ribadito dagli alti rappresentanti dell’Unione europea durante e alla fine del vertice di Tirana del 6 dicembre scorso tra l’Unione e i Paesi dei Balcani occidentali, nonché quanto è stato scritto nella dichiarazione finale del vertice, dimostrano la non veridicità delle constatazioni e delle affermazioni. Ma testimoniano, purtroppo, allo stesso tempo, anche un loro comportamento ipocrita. Sono delle dichiarazioni, delle constatazioni e delle affermazioni che non evidenziano la drammatica e molto preoccupante realtà albanese. Così come suonano ridicole ed ingannatrici anche le dichiarazioni del primo ministro albanese. Ma di lui non ci si può e non ci si deve stupire perché lui non è mai stato vero e credibile in tutto ciò che ha dichiarato pubblicamente in tutti questi anni, sia in lingua albanese che in altre lingue. Il nostro lettore, nel corso di non pochi anni ormai, è stato spesso informato, fatti accaduti alla mano, dell’irresponsabilità istituzionale e personale del primo ministro. Così come è stato informato della sua caratteriale inaffidabilità, della sua innata capacità di mentire e di ingannare come se niente fosse. Ragion per cui anche quanto ha detto durante il vertice del 6 dicembre scorso a Tirana tra l’Unione europea e i Paesi dei Balcani occidentali era prevedibile. E non si è smentito neanche questa volta. In più, riferendosi anche a quanto ha affermato sia il presidente del Consiglio europeo prima e durante il vertice, che quanto lui stesso, il primo ministro albanese ha detto, risulterebbe che lui ha voluto che questo vertice si svolgesse proprio in Albania. Ed aveva delle buone e serie ragioni. Ragioni che hanno a che fare con diversi scandali clamorosi tuttora in corso in Albania. Scandali milionari ed abusi di potere che coinvolgono anche il primo ministro, sia istituzionalmente che personalmente. Basta riferirsi soltanto a due scandali, quello dei tre inceneritori e del porto di Durazzo, per capire le difficoltà in cui si trova il primo ministro albanese. Anche di questi scandali il nostro lettore è stato informato durante queste ultime settimane. Il vertice del 6 dicembre scorso a Tirana poteva e doveva servire a lui per motivi puramente propagandistici, per “sponsorizzare se stesso”.  Il primo ministro voleva trattare ed usare il vertice proprio a Tirana come un suo successo personale, come un sostegno meritato e riconosciuto anche dai “grandi dell’Europa”. Ed ha fatto di tutto, spettacoli folcloristici compresi. Non ha esitato neanche ad inginocchiarsi davanti al primo ministro del Lussemburgo. Chissà perché? Ma le cattive lingue parlano anche di cose della vita personale dell’ospite.

    I “grandi dell’Europa”, alcuni di quelli che erano a Tirana il 6 dicembre scorso, ma anche altri (adesso e/o prima), sono coloro che hanno scelto non di rado la “stabilità” e la “sicurezza” invece di una funzionale e funzionante democrazia. Sono coloro che spesso predicano i principi della democrazia ed invece appoggiano quelli che calpestano consapevolmente quei principi. Come il primo ministro albanese. E così facendo hanno, nolens volens, condannato gli albanesi con il loro comportamento ipocrita. Hanno condannato gli albanesi con il loro appoggio per il primo ministro, il nuovo autocrate, il nuovo dittatore che imita, tra gli altri, anche quello comunista che ha causato innumerevoli sofferenze, tragedie, drammi e privazioni agli albanesi per più di quarant’anni di dittatura comunista. Bisogna evidenziare che il primo ministro è un discendente diretto, biologico, ma anche per mentalità e comportamento, di una nota famiglia della nomenklatura comunista. Adesso il primo ministro albanese vuole a tutti i costi l’appoggio pubblico dei “grandi d’Europa”. Di quelli che erano a Tirana il 6 dicembre scorso, ma anche di altri, che dichiarano di voler tenere lontano il dittatore russo dai Balcani. Ma che, guarda caso, sono stati proprio alcuni di loro, con i loro accordi, dovuti anche alle loro amicizie personali con il dittatore russo e/o con chi per lui, che hanno acconsentito a degli accordi miliardari con la Russia. Miliardi che hanno poi permesso al dittatore russo di sentirsi forte e di aggredire l’Ucraina il 24 febbraio scorso, con tutte le gravissime e drammatiche conseguenze di questa guerra tuttora in corso.

    Guarda caso, da anni ormai, i “rappresentanti internazionali” non vedono, non sentono e non capiscono cosa sta accadendo in Albania. Il che ha permesso, nolens volens, la restaurazione ed il consolidamento della nuova dittatura sui generis in Albania, rappresentata istituzionalmente dal primo ministro. Chissà perché i “rappresentanti internazionali” non “si rendono conto” del continuo abuso di potere da parte di coloro che esercitano potere politico in Albania. I “rappresentanti internazionali” non “si rendono conto” della galoppante corruzione che sta divorando tutto; una corruzione che, fatti accaduti, documentanti ed ufficialmente denunciati alla mano, coinvolge direttamente il primo ministro, ma anche tutti i suoi stretti collaboratori ed alcuni famigliari. I “rappresentanti internazionali non “si rendono conto” dell’allarmante e molto preoccupante spopolamento dell’Albania. Proprio loro, i “rappresentanti internazionali” non “si rendono conto” neanche del voluto fallimento della riforma del sistema della giustizia e continuano a dichiarare ed applaudire il “successo” di quella fallita riforma. I “rappresentanti internazionali” non “si rendono conto” che l’Albania sia diventata da anni non solo uno dei più importanti Paesi produttori ed esportatori della cannabis, ma da qualche anno anche un centro di smistamento della cocaina. I “rappresentanti internazionali” non “si rendono conto” del diffuso e molto preoccupante riciclaggio del denaro sporco in Albania. Sono dei miliardi che arrivano anche dall’estero e si “puliscono”, soprattutto nel campo dell’edilizia. Il riciclaggio del denaro sporco in Albania da anni è stato evidenziato, tra l’altro, anche nei rapporti ufficiali di Moneyval (struttura di monitoraggio del Consiglio d’Europa; n.d.a) ed il nostro lettore è stato spesso informato di una simile e molto preoccupante realtà. I “rappresentanti internazionali”, purtroppo, non “si rendono conto” di tutto questo e di tanto altro. Chissà perché?! Ma si sa però che un simile e consapevole comportamento testimonia la loro ipocrisia, istituzionale e/o personale. Ed il sommo poeta, Dante, è stato chiaro.

    Chi scrive queste righe anche questa volta, anzi, soprattutto questa volta, avrebbe avuto bisogno di molto più spazio per continuare a trattare, analizzare ed evidenziare, fatti alla mano, le dannose conseguenze causate dall’ipocrisia. Compresa anche quella dei “rappresentanti internazionali”. Di quegli ipocriti che continuano a nascondere delle gravissime realtà in Albania. Proprio di coloro che, come affermava Hannah Arendt, sono davvero marci fino al midollo.

  • Pericolose ma consapevoli scelte di appartenenza geopolitica

    Possiamo scegliere quello che vogliamo seminare,

    ma siamo obbligati a mietere quello che abbiamo piantato.

    Proverbio cinese

    “Non facciamoci illusioni. Siamo in un mare agitato. All’orizzonte si intravede un inverno segnato dal malcontento globale. […] Le persone soffrono e quelle più vulnerabili soffrono di più. La Carta delle Nazioni Unite e gli ideali che rappresenta sono in pericolo. Abbiamo il dovere di agire, ma siamo bloccati da una disfunzione colossale e globale.. Così ha dichiarato, tra l’altro, il Segretario generale delle Nazioni Unite, il 19 settembre scorso, durante il suo intervento all’apertura dei lavori della 77a sessione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Una sessione svoltasi dal 19 al 26 settembre 2022 presso la sede centrale dell’Organizzazione delle Nazioni unite a New York. Durante quella settimana capi di Stato e di governo, nonché altri rappresentanti delle più importanti istituzioni internazionali, hanno presentato le loro opinioni e le loro priorità sulle principali sfide globali. Come tali sono la guerra in Ucraina, le crisi energetica e quella alimentare scatenate proprio da quella guerra, ma anche la lotta contro il cambiamento climatico ed altre ancora. In quei giorni ci sono stati tanti anche gli incontri ufficiali ed informali tra i più alti rappresentanti delle singole nazioni. Non sono mancati neanche gli accordi discussi, alcuni dei quali firmati poi in seguito. Come l’accordo tra la Russia e la Serbia sulla collaborazione nell’ambito della politica estera. Un’accordo quello firmato il 23 settembre scorso dal ministro russo degli affari esteri e il suo omologo serbo. All’indomani della firma dell’accordo anche il presidente serbo ha incontrato il ministro russo degli affari esteri. Tutto ciò, mentre quasi tutti i capi di Stato e di governo che sono intervenuti durante i dibattiti della 77a sessione dell’Assemblea generale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite hanno condannato l’aggressione russa in Ucraina. Compreso il presidente serbo. In più lui ha condannato, il 28 settembre scorso, anche i referendum svolti tra il 23 e il 27 settembre nelle quattro autoproclamate repubbliche nel sud dell’Ucraina. La Serbia “non può e non riconoscerà” l’annessione alla Russia di quelle quattro repubbliche separatiste. Nel frattempo però si sa che la Serbia, nonostante abbia firmato le convenzioni delle Nazioni Unite, non ha aderito alle sanzioni poste dall’Unione europea alla Federazione Russa proprio in seguito all’aggressione in Ucraina. Un obbligo quello per la Serbia, visto che ha firmato con l’Unione europea l’accordo stabilizzazione e associazione già dal 29 aprile 2008. E poi, in seguito, il Consiglio europeo ha approvato il 1o marzo 2012 anche lo status di Paese candidato all’adesione all’Unione europea per la Serbia. Ma nonostante ciò la Serbia sempre ha rifiutato di aderire alle sanzioni. Durante la 77a sessione dell’Assemblea generale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite il presidente serbo non ha risparmiato delle accuse neanche alla stessa Organizzazione, dichiarando che “…La serietà del momento mi obbliga di condividere con voi delle parole difficili, ma vere. Ogni cosa che stiamo facendo oggi qui sembra impotente ed incerta. Le nostre parole hanno un vuoto eco comparate con la realtà con la quale ci stiamo affrontando. E la realtà è che qui nessuno ascolta nessuno. Nessuno [qui] non si impegna a [attuare] dei veri accordi, alla soluzione dei problemi”. E tutto ciò secondo il presidente serbo, perché “…tutti tengono presente solo i propri interessi”.

    Subito dopo la firma dell’accordo firmato il 23 settembre scorso dal ministro russo degli affari esteri e il suo omologo serbo sulla collaborazione nell’ambito della politica estera, è arrivata anche la ferma condanna dell’Unione europea. Il portavoce della Commissione europea, riferendosi al sopracitato accordo, ha sottolineato che un simile accordo è stato firmato proprio mentre la Russia continua la sua aggressione contro l’Ucraina. Proprio mentre la Russia ogni giorno“…sta violando il diritto internazionale, le sue truppe stanno attuando crimini contro i civili e nei territori occupati sta organizzando dei referendum illeciti”. In seguito alla sua dichiarazione ufficiale, il portavoce della Commissione europea ha ribadito che “…se in simili circostanze notiamo che il ministro serbo degli esteri firma un accordo, con il quale si impegna per delle consultazioni con lo Stato che genera atti come questi, allora questo è un segno che la Serbia sta rafforzando i rapporti con la Russia.”. Aggiungendo che tutto ciò non può non creare delle serie preoccupazioni. Perché secondo il portavoce della Commissione europea “…i rapporti [della Serbia] con la Russia non possono essere trattati come se niente fosse. Tutto ciò noi [Commissione europea] lo consideriamo come molto serio”. Il portavoce della Commissione, sempre riferendosi all’accordo firmato il 23 settembre scorso dal ministro russo degli affari esteri e il suo omologo serbo sulla collaborazione nell’ambito della politica estera ha dichiarato che “…l’Unione europea è stata completamente chiara con tutti i Paesi membri e i partner, compreso anche un Paese candidato come la Serbia, che i rapporti con la Russia non possono essere un affare comune sotto l’ombra dell’occupazione non provocata e irragionevole in Ucraina”. Mentre nel frattempo e dopo le dichiarazioni del portavoce della Commissione europea, il ministro serbo degli affari esteri, rispondendo il 25 settembre scorso ai giornalisti, ha detto che “…tutto ciò che ha a che fare con le critiche” ma anche con l’accordo stesso, è legato alla “ricerca delle ragioni per attaccare e per biasimare la Serbia”.

    L’accordo tra la Russia e la Serbia sulla collaborazione nell’ambito della politica estera firmato il 23 settembre scorso dal ministro russo degli affari esteri e il suo omologo serbo durante la 77a sessione dell’Assemblea generale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite è il primo documento diplomatico che la Serbia e la Russia hanno firmato dall’inizio dell’aggressione russa in Ucraina. Ma non è l’unico accordo tra i due Paesi durante questi ultimi mesi. Si, perché proprio il 29 maggio scorso, durante un colloquio telefonico, il presidente serbo ed il presidente russo si sono accordati di continuare “il partenariato strategico tra la Russia e la Serbia” e la fornitura della Serbia di gas e petrolio russo con dei prezzi vantaggiosi. Un “partenariato strategico” quello tra la Russia e la Serbia ribadito chiaramente anche dal ministro degli Interni serbo, in visita ufficiale in Russia il 22 agosto scorso. Lui ha considerato come “sbagliato e inutile” il tentativo dell’isolamento della Russia, durante un incontro con il Segretario del Consiglio di Sicurezza della Russia. Perché, secondo il ministro serbo, la Russia “…come territorio è il più grande del mondo”. Il ministro serbo degli Interni ha avuto il 22 settembre scorso un incontro anche con il ministro russo degli affari esteri. Dopo l’incontro il ministro serbo ha dichiarato che “…la Serbia è l’unico Paese in Europa che non ha attuato delle sanzioni contro la Russia e non ha partecipato all’isteria antirussa”. In più il ministro serbo degli Interni ha dichiarato che la Serbia “…non dimentica la fratellanza secolare [con la Russia]”. Durante l’incontro del ministro degli Interni serbo e il ministro russo per gli affari esteri è stato confermato che “…anche in tempi di grandi sfide, la Serbia e la Russia hanno delle straordinarie relazioni diplomatiche e una collaborazione bilaterale di successo”. Così come anche i due presidenti, quello russo e quello serbo “hanno delle relazioni personali straordinariamente buone”. Più chiaro di così!

    L’autore di queste righe informava nel giungo scorso il nostro lettore di una visita non realizzata il 5 giugno scorso a causa del blocco degli spazi aerei da tre Paesi balcanici per un aereo russo a bordo del quale si trovava il ministro degli Esteri russo. Lui, insieme con una delegazione da lui guidata doveva andare a Belgrado per degli incontri con le massime autorità della Serbia. I tre Paesi che hanno chiuso gli spazi aerei, la Bulgaria, la Macedonia del Nord ed il Montenegro, sono dei Paesi i quali, insieme a quelli dell’Unione europea e ai tanti altri, hanno aderito alle sanzioni restrittive contro la Russia dopo l’invasione del territorio ucraino il 24 febbraio scorso. Ebbene, il 6 giugno scorso il ministro russo degli affari esteri ha dichiarato che “…è accaduto qualcosa di inimmaginabile. Ad uno Stato sovrano è stato negato il diritto di seguire la [sua] politica estera”. Aggiungendo che “Le attività internazionali della Serbia verso la Russia sono bloccate”. Lui però ha ribadito altresì la sua convinzione, e cioè che “la cosa più importante è che nessuno potrà distruggere i nostri legami con la Serbia”! L’autore di queste righe informava il nostro lettore che il ministro russo ha dichiarato anche che “Se la visita del ministro degli Esteri russo in Serbia è percepita in Occidente come una minaccia su scala globale, allora, chiaramente, le cose in Occidente vanno piuttosto male”. Mentre il ministro serbo degli Interni dichiarava allora che “…Il mondo in cui i diplomatici non possono attuare la pace è un mondo in cui non c’è la pace”. Lui ha sottolineato anche che era rimasto “profondamente dispiaciuto per l’ostruzione alla visita di un grande e comprovato amico della Serbia”. Per poi ribadire in modo diretto e perentorio che “…Chi ha impedito l’arrivo di Lavrov non vuole la pace, sogna di sconfiggere la Russia e la Serbia è orgogliosa di non far parte dell’isteria anti-russa”! Ma il ministro russo degli affari esteri, dopo essere rientrato a Mosca, il 6 giungo scorso, durante una sua conferenza online con i media, ha dichiarato, senza mezzi termini, che alla Serbia e al suo presidente non mancherà l’appoggio della Russia. Durante la stessa conferenza con i giornalisti il ministro russo degli affari esteri ha parlato anche di un’iniziativa della quale l’autore di queste righe da più di due anni sta informando il nostro lettore, l’iniziativa non a caso chiamata Open Balkans (Accordo ingannevole e pericoloso, 13 gennaio 2020; Bugie scandalose elevate a livello statale; 24 febbraio 2020; Preoccupanti avvisaglie dai Balcani, 8 novembre 2021; Importanti decisioni, vergognose manipolazioni e una protesta, 20 dicembre 2021; Un’ingannevole ed occulta iniziativa regionale, 31 maggio 2022; Smascheramento in corso di un’accordo regionale occulto, 13 giugno 2022; Volgari arroganze verbali balcaniche e verità che accusano, 28 giugno 2022; Volgarità e arroganza verbale di un voltagabbana in difficoltà, 4 luglio 2022; Pericolose somiglianze espansionistiche, 26 agosto 2022). Ebbene, il ministro russo degli affari esteri, parlando il 6 giugno scorso dell’iniziativa Open Balkans ha scoperto, anche la “paternità” dell’iniziativa. L’autore di queste righe ha riportato le frasi del ministro russo in merito. Lui, riferendosi all’Unione europea, ha detto che “…Loro non volevano che noi esprimessimo il nostro appoggio all’iniziativa di Belgrado per realizzare il progetto Open Balkan per l’interesse di un rapporto più solido e più sano tra i Paesi della regione [balcanica]”. L’autore di queste righe sottolineava allora che il ministro russo degli affari esteri “ha confermato proprio l’appoggio russo all’iniziativa di Belgrado per realizzare il progetto Open Balkans”. Aggiungendo in seguito che lui “…ha contribuito, nolens volens, proprio ad un ulteriore smascheramento di un accordo regionale occulto.” (Smascheramento in corso di un’accordo regionale occulto; 13 giugno 2022).

    Chi scrive queste righe ha informato il nostro lettore anche del “sostegno incondizionato”, nonché della “avvocatura gratis” che il primo ministro albanese ha dato/fatto alle scelte della Serbia nei confronti della Russia. Lui, il primo ministro albanese, ha sempre giustificato la scelta della Serbia di non aderire alle sanzioni poste alla Russia dall’Unione europea, obbligatorie anche per la Serbia (Volgarità e arroganza verbale di un voltagabbana in difficoltà; 4 luglio 2022). Il primo ministro albanese lo ha fatto anche durante la 77a sessione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Chi scrive queste righe è convinto, fatti alla mano, che le scelte della Serbia, ma anche dell’Albania sono delle pericolose ma consapevoli scelte di appartenenza geopolitica a fianco della Russia. Ma condivide anche la saggezza del proverbio, secondo il quale noi possiamo scegliere quello che vogliamo seminare, ma siamo obbligati a mietere quello che abbiamo piantato.

  • Pericolose somiglianze espansionistiche

    Non ci si piglia se non ci si somiglia.

    Proverbio

    Il 24 agosto è una data che per gli ucraini ha un importante valore storico. Era proprio il 24 agosto del 1991 quando il Parlamento adottò ed approvò l’Atto d’indipendenza dall’Unione sovietica, dichiarando l’Ucraina uno Stato indipendente e democratico. Ragion per cui il 24 agosto scorso gli ucraini hanno celebrato il 31o anniversario dell’indipendenza, quest’anno però, e purtroppo, sotto la reale minaccia di attacchi da parte delle forze armate della Russia. Attacchi che proprio il 24 agosto scorso hanno causato altre vittime innocenti. Sono 25 le vittime di un bombardamento dei russi della stazione ferroviaria di Chaplyne nel sud-est del Paese. Tra quelle vittime civili due erano dei bambini. Nel frattempo sono passati ormai sei mesi dall’inizio dell’invasione russa dei territori ucraini. Era proprio l’alba del 24 febbraio scorso, quando il presidente russo ordinò l’attuazione di quello che lui stesso aveva annunciato alcune ore prima, la sera precedente, durante un suo lungo discorso in diretta televisiva. Cominciò così, sei mesi fa, una ben ideata e programmata invasione che il dittatore russo, con un irritante cinismo, la ha sempre considerata come una “operazione militare speciale”. Una spietata, crudele e sanguinosa invasione quella che ebbe inizio il 24 febbraio scorso, come parte integrante dell’attuazione di quella che ormai è nota come la strategia per la ricostituzione della “Grande Russia”. Il 24 agosto ha segnato il 182o giorno di una vera e propria guerra spietata e sanguinosa. Ormai sono di dominio pubblico le tante barbarie e crudeltà attuate dalle forze armate russe in Ucraina. Sono purtroppo di dominio pubblico anche le immagini che mostrano fosse comuni dove sono state buttate decine di vittime innocenti, dopo essere state uccise con le mani legate. E tutto ciò, nell’ambito di quella che il dittatore russo continua a considerare una “operazione militare speciale”! Durante questi sei mesi di guerra, secondo l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti umani, sono stati 5.587 civili inermi uccisi e 7.890 feriti. Ma tutti sono convinti che il numero reale delle vittime civili sia molto più grande. Sempre facendo riferimento ai dati ufficiali delle vittime registrate risulta, secondo l’organizzazione Save the Children, che purtroppo 356 sono minori tra i quali il 16% aveva un’età inferiore ai 5 anni. Mentre, secondo quanto rapporta l’agenzia Ukrinform il 25 agosto, dal 24 febbraio scorso il numero dei bambini uccisi è di 376 e di quelli feriti è almeno di 733. L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti umani conferma che la maggior parte dei morti e dei feriti “…sono state vittime di armi esplosive come artiglieria, missili e attacchi aerei”. Risulterebbe inoltre che dal 24 febbraio scorso, circa un terzo dell’intera popolazione dell’Ucraina è stata costretta ad abbandonare le proprie case. Secondo i dati dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti umani, i cittadini ucraini che hanno lasciato il Paese si valuta che siano più di 6.6 milioni. Durante i sei mesi di guerra, di quella guerra che però il dittatore russo, con un irritante cinismo, continua a considerarla semplicemente una “operazione militare speciale”, anche i danni materiali sono ingenti. Dalle valutazioni fatte da diverse istituzioni internazionali specializzate risulterebbe che la ricostruzione del Paese, a guerra finita, potrebbe costare oltre 750 miliardi di euro. Secondo una valutazione del ministero ucraino della Protezione Ambientale e delle Risorse Naturali, solo i danni ambientali, causati durante questi sei mesi di guerra, superano i 10.7 miliardi di euro.

    Il 24 agosto scorso, al termine dell’udienza generale, Papa Francesco, sei mesi dopo l’inizio della sanguinosa guerra in Ucraina, ha rinnovato “l’invito ad implorare dal Signore la pace per l’amato popolo ucraino che da sei mesi patisce l’orrore della guerra”. Poi, riferendosi ai bambini ucraini, il Santo Padre ha detto che si tratta di “Innocenti che pagano la pazzia della guerra”.

    Subito dopo l’invasione dei territori ucraini da parte delle forze armate russe, è stata immediata ed unanime la reazione delle più importanti istituzioni internazionali, nonché della maggior parte dei singoli Stati. Tutti hanno condannato, senza mezzi termini, l’invasione russa dei territori ucraini. Sono state tante anche le sanzioni imposte alla Russia, sia dagli Stati Uniti d’America e dall’Unione europea, che da altri Stati in tutto il mondo. Cosa che, invece, non ha fatto la Serbia nonostante, come Paese candidato all’adesione nell’Unione europea, abbia obbligatoriamente sottoscritto, tra l’altro, anche l’Accordo di Stabilizzazione ed Associazione. Sono state tante le richieste fatte alla Serbia da parte dei massimi rappresentanti delle istituzioni dell’Unione Europa per aderire alle sanzioni imposte alla Russia. Richieste che però non hanno trovato il dovuto riscontro da parte della Serbia. Anzi, sono risultate tutte delle richieste vane. Ma visto i reali e riconfermati, a più riprese ed occasioni, rapporti di amicizia e di vasta collaborazione tra la Serbia e la Russia, tutto ciò era da aspettarselo. E non a caso anche la Serbia, da qualche anno, sta cercando di attuare, a sua volta, la strategia della “Grande Serbia”. C’è sempre da imparare dai “cari e storici amici”!

    Una dimostrazione e testimonianza dell’attuazione di quella strategia espansionistica erano anche le pericolose provocazioni e i preoccupanti conflitti cominciati il 31 luglio scorso nel nord del Kosovo, per poi continuare anche il giorno successivo. Tutto scaturì dopo due leciti decisioni prese dal governo del Kosovo. La prima si basa sul rispetto della reciprocità per quanto riguarda il rilascio di un documento di entrata ed uscita per i cittadini serbi che entrano nel territorio del Kosovo. Come procede, da 11 anni, il governo della Serbia per i cittadini del Kosovo. La seconda si basa sul rispetto della reciprocità per quanto riguarda il rilascio delle targhe provvisorie per le macchine immatricolate in Serbia che entrano nel territorio del Kosovo. Proprio come procedono le autorità della Serbia per le macchine immatricolate in Kosovo che entrano nel territorio della Serbia. Ma subito dopo la messa in atto di queste due decisioni da parte delle autorità del Kosovo, nell’ambito del rispetto della reciprocità, nel nord del Paese alcuni gruppi ben strutturati ed organizzati di militanti serbi hanno bloccato diverse strade con degli autocarri ed hanno costruito delle barricate. In seguito a dei negoziati tra i massimi rappresentanti delle istituzioni dell’Unione europea ed altri ancora con le massime autorità del Kosovo, il governo ha deciso di posticipare l’applicazione delle due sopracitate decisioni per il 1o settembre prossimo.

    Bisogna sottolineare però che dal 12 giugno 1999 ad oggi in Kosovo è attiva una forza militare internazionale che opera nell’ambito della NATO, meglio nota come KFOR (abbreviazione di Kosovo Force; n.d.a.). La KFOR, è diventata operativa sul tutto il territorio del Paese su mandato dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, subito dopo l’adozione della Risoluzione 1244 dal suo Consiglio di Sicurezza. Il compito della KFOR è quello di stabilire e mantenere l’ordine e garantire la pace nel Paese. La Serbia ed alcuni altri Paesi, Russia compresa, non riconoscono ancora però l’indipendenza dello Stato del Kosovo, proclamata il 17 febbraio 2008 e fortemente voluta e appoggiata, allora come oggi, da tutte le grandi potenze mondiali. Attualmente la KFOR viene sostenuta dal contributo di 27 diverse nazioni, mentre sul territorio del Kosovo sono presenti 3.500 militari di quella struttura internazionale, con altri 3.000 militari di riserva.

    Quanto è accaduto il 31 luglio scorso ed il giorno successivo nel nord del Kosovo ha causato una seria preoccupazione dei vertici della NATO. Ragion per cui i massimi rappresentanti della KFOR hanno immediatamente dichiarato ufficialmente che le truppe di quella struttura militare della NATO erano pronte ad intervenire se fosse stata messa in pericolo la stabilità in Kosovo, secondo il mandato che deriva dalla Risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza dell’Organizzazione delle Nazioni Unite. Ed erano proprio le pericolose provocazioni e i preoccupanti conflitti cominciati il 31 luglio scorso nel nord del Paese che, il 17 agosto scorso, abbiano costretto il segretario generale dell’Alleanza atlantica a convocare a Bruxelles ed incontrare, separatamente, sia il presidente della Serbia che il primo ministro del Kosovo. Egli aveva già avvertito il presidente serbo il 3 agosto scorso dicendo che “…bisogna che tutte le parti si impegnino in maniera costruttiva nel dialogo che sta negoziando l’Unione europea”, in modo che “le discordie si risolvano tramite la diplomazia”. Il 17 agosto scorso a Bruxelles il segretario generale della NATO ha incontrato il presidente della Serbia prima e poi il primo ministro del Kosovo. Subito dopo i due separati incontri il massimo rappresentante dell’Alleanza atlantica ha dichiarato che “…se sarà necessario noi faremmo muovere le nostre truppe ed aumenteremo la nostra presenza”. Egli ha ribadito che la KFOR è attualmente la più grande missione della NATO fuori dai territori dei Paesi aderenti all’Alleanza. Il che testimonia “il suo impegno per prevenire le tensioni”. L’indomani, il 18 agosto scorso, anche l’Alto rappresentante dell’Unione europea per gli Affari esteri e la Politica di sicurezza ha incontrato, prima separatamente e poi insieme, il presidente della Serbia e il primo ministro del Kosovo. Durante l’incontro trilaterale era presente anche l’incaricato speciale dell’Unione europea per il dialogo tra la Serbia ed il Kosovo. L’incontro è finito senza un accordo tra le parti. Però l’Alto rappresentante dell’Unione europea per gli Affari esteri e la Politica di sicurezza non ha perso la speranza ed ha dichiarato che “…non c’è accordo oggi, ma non ci fermeremo, non ci rassegneremo perché fino al 1o settembre c’è ancora tempo”. Ma lui è convinto che “le tensioni verificatesi ultimamente nel nord del Kosovo hanno testimoniato che ormai è tempo di muoversi verso la completa normalizzazione. Attendo che i due dirigenti siano flessibili e trovino la lingua comune”. Chissà però se quell’auspicio espresso si possa avverare, vista la ben nota intransigenza del presidente serbo a riconoscere l’indipendenza del Kosovo. Indipendenza fortemente voluta e appoggiata però da tutte le grandi potenze mondiali. Ma non dalla Russia. Chissà perché?!

    Si sa però che parte integrante della strategia della “Grande Serbia”, fatti accaduti alla mano, risulterebbe essere anche l’iniziativa Open Balkans. L’autore di queste righe, dal gennaio 2020 e a più riprese, ha informato il nostro lettore di questa iniziativa e di chi sta dietro come ideatore e sostenitore. Un progetto espresso dal multimiliardario e speculatore di borsa George Soros già nel 1999 in un suo articolo. Un progetto fortemente voluto e sostenuto, ovviamente, dal presidente della Serbia. Un progetto sostenuto anche dal primo ministro albanese e da quello macedone. Un progetto però, quello alla base dell’iniziativa Open Balkans, contestato dagli altri Paesi balcanici e dalle istituzioni dell’Unione europea, che riconoscono e promuovono il Processo di Berlino per i Balcani occidentali. E, non a caso, l’iniziativa Open Balkans viene riconosciuta ed appoggiata anche dalla Russia. Lo ha dichiarato convinto il ministro degli Esteri russo il 6 giugno scorso. Lui, riferendosi all’Unione europea ha detto: “Loro non volevano che noi esprimessimo il nostro appoggio all’iniziativa di Belgrado per realizzare il progetto Open Balkans, all’interesse di un rapporto più solido e più sano tra i Paesi della regione [balcanica]”. Aggiungendo convinto che “Ormai è chiaro per tutti che Bruxelles, la NATO e l’Unione europea vogliono convertire il progetto Open Balcans in un loro progetto, chiamato Close Balcans (Balcani chiusi; n.d.a.).”!

    Chi scrive queste righe, dati e fatti accaduti alla mano, considera come preoccupanti e pericolose le somiglianze espansionistiche tra la Russia e la Serbia. Come considera preoccupanti e pericolose anche le “amicizie” tra l’ideatore, i promotori e gli ubbidienti sostenitori della famigerata iniziativa Open Balkans. Primo ministro albanese incluso. Proprio colui che da tempo ormai, criticando gli altri, sta facendo anche “l’avvocato difensore” della Serbia. Ma si sa e la saggezza popolare ce lo insegna che non ci si piglia se non ci si somiglia!

  • Volgarità e arroganza verbale di un voltagabbana in difficoltà

    Il bisogno di avere ragione è segno di una mente volgare.

    Albert Camus

    La scorsa settimana il nostro lettore è stato informato delle decisioni prese il 23 giugno scorso dai capi di Stato e di governo dei Paesi dell’Unione europea. Parte attesa delle decisioni erano anche quelle sul percorso dei diversi Paesi balcanici. Il Consiglio europeo decise, tra l’altro, di non avanzare i processi con la Serbia, l’Albania e la Macedonia del Nord. Per la Serbia, perché non aveva fatto progressi con le riforme e i requisiti precedentemente posti dalle istituzioni europee, ma anche per l’ambiguo atteggiamento nei confronti della Russia, dopo l’aggressione militare in Ucraina, avviata il 24 febbraio scorso. Proprio quella che il dittatore russo, anche dopo centotrentuno giorni di ineffabili crudeltà e di tante vittime innocenti ed inermi, compresi molti bambini, continua con irritante cinismo a classificarla come “un’operazione speciale militare”! Un ambiguo atteggiamento, perché la Serbia ha aderito alle risoluzioni dell’Organizzazione delle Nazioni Unite che condannano quell’agressione e tutte le derivanti conseguenze. Ma, allo stesso tempo però, non ha mai aderito alle restrizioni poste dall’Unione europea alla Russia, nonostante le ripetute richieste e le forti critiche fatte dai massimi rappresentanti delle istituzioni dell’Unione europea. Restrizioni che sono obbligatorie anche per la Serbia, essendo un Paese candidato ad aderire all’Unione. Mentre per la Macedonia del Nord e l’Albania, il blocco del processo europeo è stato dovuto al veto posto dalla Bulgaria alla Macedonia. E siccome il Consiglio europeo aveva precedentemente deciso di trattare insieme la Macedonia del Nord e l’Albania o si doveva andare avanti con il processo insieme oppure il blocco dei negoziati con uno dei due Paesi bloccava anche quelli con l’altro. L’autore di queste righe aveva informato di tutto ciò il nostro lettore. Così come lo aveva informato anche della conferenza con i rappresentanti dei media, dopo le decisioni prese dal Consiglio europeo. Una conferenza quella, prevista e svolta nel pomeriggio del 23 giugno scorso, negli ambienti del Consiglio europeo. Una conferenza alla quale sono stati presenti solo il presidente serbo, il primo ministro albanese e quello macedone. Mancavano però i massimi rappresentanti delle istituzioni dell’Unione europea che, come è stato “ufficialmente chiarito”, era legata semplicemente alla “mancanza di tempo”, dovendo loro, in seguito, partecipare alle successive discussioni del Consiglio europeo sulla dichiarazione come “Paesi candidati” dell’Ucraina e della Moldavia. Il nostro lettore è stato inoltre informato delle dichiarazioni critiche dei tre partecipanti alla conferenza con i media. Il presidente serbo ed il primo ministro macedone, per motivi diversi, sono stati “cautamente critici” con le istituzioni dell’Unione europea e con singoli Stati membri. Mentre il primo ministro albanese ha dimostrato una insolita, ingiustificata e ingiustificabile arroganza e volgarità verbale contro tutti. Con una ineffabile sfacciataggine lui ha detto: “Permettetemi di esprimere il profondo rammarico per l’Unione europea. Mi dispiace per loro e spero che potremmo aiutarli” (Sic!). Il primo ministro albanese, riferendosi alle ripetute decisioni del Consiglio europeo di non convocare la prima conferenza intergovernativa e di non aprire i negoziati con l’Albania come “Paese candidato”, ha considerato, recitando come un attore drammatico, come uno “spirito deformato dell’allargamento [dell’Unione europea], uno spirito totalmente deformato” quello delle istituzioni dell’Unione europea. Chissà se tra quelle istituzioni lui annoverava anche la Commissione europea, le cui valutazioni e suggerimenti sull’Albania sono “tutto rose e fiori”?! Valutazioni e suggerimenti che dal 2014 ad oggi, dati e fatti accaduti in Albania alla mano, risultano essere del tutto fuori realtà. Valutazioni e suggerimenti che, secondo le cattive lingue, sono state suggerite e richieste ai massimi rappresentanti della Commissione europea da certe organizzazioni lobbistiche oltreoceano e che sono state profumatamente ricompensate. E in Albania, si sa, le cattive lingue sanno molto, ma veramente molto, e difficilmente hanno sbagliato in questi ultimi anni. Il primo ministro albanese non ha risparmiato, durante il suo lunghissimo discorso, oltre tutti i limiti previsti in simili conferenze stampa, neanche i dirigenti europei. Dirigenti che, secondo lui, sembrano essere “una congregazione di sacerdoti che discutono del sesso degli angeli, mentre le mura di Costantinopoli crollano”.

    Uno degli “obiettivi” dei suoi attacchi verbali era anche il veto bulgaro alla Macedonia del Nord. Veto che il primo ministro albanese ha dichiarato essere veramente “una disgrazia”. E poi, con la dovuta drammatica teatralità, ha dichiarato che “…Questa questione della Bulgaria è una vergogna. Un Paese della NATO (North Atlantic Treaty Organization – L’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord; n.d.a.) che prende in ostaggio due altri paesi della NATO (Albania e Macedonia del Nord; n.d.a.), mentre nel cortile dell’Europa c’è una guerra sotto gli occhi dei 26 [altri] Paesi che sono totalmente impotenti insieme”. Per poi aggiungere, in modo da rendere tutto “in accordo” anche con la preoccupazione generale, che “l’aggressione russa contro l’Ucraina sta avendo così un aiuto molto generoso e non richiesto da un Paese della NATO, la Bulgaria, per destabilizzare un altro Paese della NATO, la Macedonia del Nord”. Ovviamente, dopo simili dichiarazioni, non potevano non reagire ufficialmente le istituzioni bulgare. Il ministero degli Esteri della Bulgaria, in una sua dichiarazione ufficiale, ha specificato che “…Attendiamo che il primo ministro albanese adatti i suoi mezzi espressivi con una lingua che sia più propria ad un politico di un Paese candidato all’adesione nell’Unione europea.”. Aggiungendo anche che “I politici vanno via, le nazioni restano”. Nella dichiarazione ufficiale del ministero degli Esteri bulgaro, riferendosi al primo ministro albanese, si ribadisce che “…non è la prima volta che ascoltiamo [simili] aspre ed offensive qualifiche, non provocate, da un capo di governo. I “calcoli biliari”, in un così basso registro verbale, non si possono più giustificare dalla natura e dalle capacità europee della comunicazione”. Con le sue dichiarazioni arroganti, con una inaudita ed eclatante volgarità verbale, il primo ministro albanese durante la sopracitata conferenza stampa, ha però e soprattutto voluto alzare consapevolmente il “polverone” del “blocco dei negoziati per colpa del veto bulgaro”, per coprire la vera e vissuta realtà albanese. Una realtà quella che riconosce come diretto e principale responsabile, almeno istituzionalmente e da quasi nove anni ormai, proprio il primo ministro del Paese. L’autore di queste righe scriveva la scorsa settimana per il nostro lettore che “…Nel frattempo, per quanto riguarda l’Albania, bisogna porsi alcune dirette e semplicissime domande. Ha esaudito l’Albania tutte le 15 condizioni sine qua non poste dal Consiglio europeo il 25 marzo 2020? Ha rispettato, come obbligatorio, quanto prevede l’Accordo di Associazione e Stabilizzazione con l’Unione europea, firmato dall’Albania il 12 giungo 2006 in Lussemburgo? Ha rispettato l’Albania i Criteri di Copenaghen? Ebbene, dati e fatti accaduti, documentati e ufficialmente rapportati dalle istituzioni specializzate internazionali, comprese anche quelle dell’Unione europea alla mano, la risposta è netta ed una sola. No!” (Volgari arroganze verbali balcaniche e verità che accusano; 28 giugno 2022).

    Durante quella conferenza con i rappresentanti dei media nel pomeriggio del 23 giungo scorso, il primo ministro albanese si è offerto ed ha fatto “l’avvocato” della Serbia e del suo presidente. E lo ha fatto proprio negli ambienti del Consiglio europeo, dove erano ancora riuniti tutti i capi di Stato e di governo dei Paesi membri dell’Unione. Una sfida diretta per tutti loro, visto che si stava trattando non solo il caso dell’Ucraina e della Moldavia, che quel giorno sono stati dichiarati “Paesi candidati” all’adesione nell’Unione europea. Ma si stava soprattutto discutendo sulle ulteriori misure e sulle decisioni da prendere nell’ambito della guerra in Ucraina. Il primo ministro albanese ha cercato di giustificare e di difendere l’ambiguo atteggiamento e i “tentennamenti” della Serbia nei confronti della Russia. Nel pomeriggio del 23 giugno scorso, durante quella conferenza con i rappresentanti dei media, ha fatto “l’avvocato” del suo “carissimo amico”, il presidente serbo, il quale si trovava in condizioni non molto “adatte” nei confronti degli anfitrioni europei. Si perché si trattava di una difficile ed imbarazzante, ma ormai difficilmente evitabile posizione, come quella del presidente serbo, dovuta ai “tentennamenti” della Serbia nei confronti della Russia, dopo la crudele aggressione in Ucraina. Con quelle dichiarazioni arroganti, aggressive e del tutto improprie, il primo ministro albanese, molto probabilmente, ha cercato di dare però delle ulteriori prove e garanzie di “amicizia e fedeltà” non solo al presidente serbo. Ha voluto dare chiari messaggi di “profonda devozione e sentito riconoscimento” anche a delle “persone molto potenti” oltreoceano che stanno dietro loro due. Anche di questo fatto il nostro lettore è stato informato a tempo debito. Soprattutto quando ha trattato l’iniziativa Open Balkans (Accordo ingannevole e pericoloso, 13 gennaio 2020; Bugie scandalose elevate a livello statale; 24 febbraio 2020; Preoccupanti avvisaglie dai Balcani, 8 novembre 2021; Importanti decisioni, vergognose manipolazioni e una protesta, 20 dicembre 2021; Un’ingannevole ed occulta iniziativa regionale, 31 maggio 2022; Smascheramento in corso di un’accordo regionale occulto, 13 giugno 2022 ecc…).

    Durante quella conferenza stampa nel pomeriggio del 23 giungo scorso, il primo ministro albanese è diventato un “agguerrito avvocato” della Serbia e del suo presidente. Ben consapevole del suo “arduo impegno”, vista l’ambiguità dei rapporti delle Serbia con la Russia e con l’Unione europea, lui ha cercato di giustificare la “posizione difficile” della Serbia. Perché, secondo il primo ministro albanese “…la Serbia si trova in una realtà completamente diversa”. Aggiungendo che aveva cercato di spiegare ai capi di Stato e di governo il 23 giungo scorso, nella sessione per i Balcani occidentali durante il vertice del Consiglio europeo, che “…si tratta di un Paese (la Serbia; n.d.a.) dove la popolarità di Vladimir Putin è di 80% e di un Paese dove l’opinione pubblica non è così orientata a correre dietro Bruxelles”. Per poi ribadire che “…la Serbia semplicemente non è nella posizione di realizzare così tanto e così presto e che portarla ai limiti produrrebbe l’effetto contrario”. Per poi concludere con una “minaccia” per i capi di Stato e di governo dei Paesi membri dell’Unione europea, presenti nel vertice di Bruxelles del Consiglio europeo, il 23 giungo scorso. Il primo ministro albanese ha ribadito che “…noi (Serbia, Albania e Macedonia del Nord; n.d.a.) non vogliamo una guerra, noi non abbiamo bisogno di un conflitto, di uno spargimento di sangue e di tensioni nella nostra regione. Perciò vogliamo camminare avanti nella direzione che abbiamo scelto […]. Ci sono molti colpi con i quali loro (i massimi dirigenti europei; n.d.a.) si devono confrontare, così che non devono provocare un altro colpo.”!

    Nel frattempo, durante questi ultimi giorni ci sono altri sviluppi che potrebbero determinare nel futuro il percorso europeo dei Paesi dei Balcani occidentali. Dopo il diretto coinvolgimento del presidente francese, la Bulgaria ha tolto il veto alla Macedonia del Nord. Adesso spetta ai massimi rappresentanti politici macedoni di decidere sulla proposta bulgara per il veto. Ieri il presidente della Macedonia del Nord, riferendosi alla revoca del veto da parte della Bulgaria, ha dichiarato che “non è né un trionfo storico e neanche un fallimento.”. Mentre l’opposizione macedone si oppone fortemente al testo della proposta bulgara della scorsa settimana. Tutto rimane da vedere.

    Chi scrive queste righe informerà il nostro lettore di tutti gli sviluppi che riguardano i Balcani occidentali. Così come farà anche per gli ultimi comportamenti di quel voltagabbana in difficoltà, quale è il primo ministro albanese, e legati al rapporto con i giornalisti e la libertà di espressione. Perché lui vuol avere sempre ragione. Ma il bisogno di avere ragione è segno di una mente volgare.

  • Volgari arroganze verbali balcaniche e verità che accusano

    Con la faccia tosta si va a cavallo e in carrozza.

    Proverbio

    “Si dicono menzogne l’uno all’altro, labbra bugiarde parlano con cuore doppio. Recida il Signore le labbra bugiarde, la lingua che dice parole arroganti”.  Queste parole del terzo e quarto versetto del Salmo 12 dell’Antico Testamento vengono comunemente attribuite al re Davide. Parole che non hanno mai perso il loro valore. Parole che potevano descrivere benissimo anche la falsità e l’arroganza delle dichiarazioni fatte nel pomeriggio del 23 giungo scorso, negli ambienti del Consiglio europeo a Bruxelles, durante la conferenza stampa del presidente serbo, del primo ministro albanese e quello macedone. Una conferenza svoltasi dopo la discussione e le decisioni prese dal Consiglio europeo sui Paesi dei Balcani occidentali, alla quale non hanno partecipato, come previsto, i rappresentanti dell’Unione europea. Parole quelle del Salmo 12/3-4, che potevano descrivere anche una naturale reazione di tutti coloro che conoscono la realtà balcanica e, soprattutto, conoscono chi sono e cosa rappresentano i tre partecipanti alla conferenza stampa. Soprattutto colui che in più era “arrogante verbalmente” e che, in qualche modo, ha rappresentato anche i due altri: il primo ministro albanese. Proprio colui per il quale mentire, ingannare, fare l’arrogante con i deboli e il leccapiedi con persone importanti è un vizio innato.

    Il 23 giungo scorso, a Bruxelles si è svolto il vertice del Consiglio europeo. Durante questo vertice, tra l’altro, si è discusso anche del percorso europeo dei Paesi dei Balcani occidentali. Di nuovo i capi di Stato e di governo dei 27 Paesi membri dell’Unione europea hanno deciso di non avanzare i processi dei negoziati con la Serbia, l’Albania e la Macedonia del Nord. Il Consiglio ha deciso di rinviare di nuovo la convocazione della prima conferenza intergovernativa sia per l’Albania che per la Macedonia del Nord. La convocazione di quella conferenza rappresenta il primo atto, dopo il quale il Paese interessato può considerarsi, a tutti gli effetti, come “Stato candidato”. Mentre per la Serbia il Consiglio europeo ha riconosciuto ufficialmente lo stato del “Paese candidato” già il 1o marzo 2012. Dopo il vertice, come sopracitato, alla conferenza stampa del presidente serbo, del primo ministro albanese e di quello macedone non erano presenti, come previsto, i rappresentanti delle istituzioni dell’Unione europea. Chissà se si è trattato di un “messaggio in codice” per i tre partecipanti balcanici. Si è “ufficialmente chiarito” però, che la non presenza dei rappresentanti dell’Unione europea a quella conferenza stampa è stata “per mancanza di tempo”, dovendo loro, in seguito, partecipare alle successive discussioni del Consiglio europeo sulla dichiarazione come “Paesi candidati” dell’Ucraina e della Moldavia. Durante quella conferenza stampa i dirigenti balcanici, sentiti “offesi”, hanno “tuonato” come mai prima contro le decisioni prese dal Consiglio europeo, contro la stessa Unione europea e determinati singoli Stati membri dell’Unione. Il più “agguerrito” è stato il primo ministro albanese che, con le sue arroganze verbali, ha fatto anche “l’avvocato” della Serbia, nonostante il presidente serbo non avesse risparmiato le sue critiche verso i rappresentanti dell’Unione europea. Il più “moderato” di tutti e tre è stato il primo ministro macedone.

    Le ragioni, almeno quelle formali, che hanno motivato i membri del Consiglio europeo a decidere per il non avanzamento dei percorsi europei della Serbia sono diverse da quelle per l’Albania e la Macedonia del Nord. La Serbia, nonostante abbia aderito alle risoluzioni dell’Organizzazione delle Nazioni Unite che condannano l’attuale aggressione della Russia contro l’Ucraina, non ha però aderito alle sanzioni imposte alla Russia dall’Unione europea. Un obbligo per la Serbia, che non è stato rispettato. Il che ha causato una espressa reazione da parte dell’Unione europea contro la Serbia. E siccome la situazione causata dalla guerra in Ucraina, iniziata con l’aggressione russa il 24 febbraio scorso, ha da mesi preso tutta l’attenzione delle istituzioni dell’Unione europea e dei singoli Stati membri, l’atteggiamento istituzionale dell’Unione nei confronti della Serbia non poteva non riflettere anche questo inaccettabile e molto criticato “tentennamento” della Serbia ad aderire alle sanzioni poste alla Russia. Lo stesso presidente del Consiglio europeo aveva già evidenziato che il vertice della settimana scorsa del Consiglio non poteva non tenere presente sia l’attuale situazione creatasi per la guerra in Ucraina, sia le sanzioni contro la Russia. Il che ha messo il presidente serbo un po’ in difficoltà e lo ha costretto a non essere molto critico nei confronti delle istituzioni dell’Unione europea durante la sopracitata conferenza stampa, dopo il vertice del Consiglio europeo, nel pomeriggio del 23 giugno scorso. Ma quello che non ha però potuto fare il presidente serbo, lo ha fatto il suo “amico e avvocato”, il primo ministro albanese. Anche perché ormai ci sono tante ragioni e cause comuni tra loro due, come sono non poche anche le “somiglianze caratteriali” e quelle delle realtà politiche e delle “alleanze e connivenze occulte” nei due rispettivi Paesi. Poi, dal 2019 loro due, il presidente serbo e il primo ministro albanese, sono i sostenitori convinti dell’iniziativa Open Balcans. Iniziativa della quale il nostro lettore è stato dettagliatamente informato, anche in queste ultime settimane.

    Invece la ragione che ha causato il rifiuto, da parte del Consiglio europeo del 23 giungo scorso, dei processi europei per l’Albania e la Macedonia del Nord, almeno la ragione formalmente articolata, è stato il veto posto dalla Bulgaria alla Macedonia del Nord. E siccome il Consiglio europeo ha deciso precedentemente di trattare insieme, in modo accoppiato i percorsi europei dell’Albania e della Macedonia del Nord, allora quel veto involve direttamente anche l’Albania. Lo ha confermato, il 23 giugno scorso, il Vicepresidente della Commissione europea e l’Alto rappresentante dell’Unione per gli Affari esteri e la Politica di sicurezza. Dopo la decisione presa dal Consiglio europeo, lui non ha nascosto il suo rammarico per la mancata apertura dei negoziati per l’Albania e la Macedonia del Nord. Tutto dovuto al veto posto della Bulgaria. Alla domanda posta a se stesso “se ci sono delle speranze?”, l’Alto rappresentante dell’Unione per gli Affari esteri e la Politica di sicurezza ha risposto: “Non so cosa può fare il parlamento in Bulgaria. Ma sembra che non stia andando bene”. Il veto bulgaro riguarda, in principio, le appartenenze nazionali, le lingue e la storia dei due Paesi. Facendo riferimento alla storia, si tratta di due nazioni che prima di diventare parte dell’Impero ottomano, già dal settimo secolo d.C. erano parti integranti dell’Impero bulgaro. La divisione tra i due popoli è avvenuta dopo la seconda guerra balcanica (giugno – luglio 1913; n.d.a.). Poi, dopo la sconfitta del regno della Bulgaria da parte del regno della Serbia, quest’ultimo, in seguito al Trattato di Bucarest (agosto 1913; n.d.a.), si impadronì di quasi tutti i territori che costituiscono l’attuale Macedonia del Nord. L’autore di queste righe ha trattato precedentemente per il nostro lettore le ragioni del veto posto dalla Bulgaria alla Macedonia del Nord. In un articolo proprio di un anno fa, egli scriveva per il nostro lettore che “…La Bulgaria è convinta però della nazionalità bulgara dei macedoni. Tra i due Paesi c’è anche il contenzioso che riguarda alcuni eroi storici della guerra contro l’Impero ottomano. In più la Bulgaria ha ufficialmente chiesto alla Macedonia del Nord di non fare riferimento alla “lingua macedone” ma alla “lingua ufficiale della Repubblica della Macedonia del Nord”. Un’altra richiesta è quella di ottenere garanzie che la Macedonia del Nord non rivendichi più delle proprie minoranze sul territorio bulgaro. Sono queste le condizioni poste dalla Bulgaria alla Macedonia del Nord. Soltanto dopo l’adempimento di tutte queste richieste la Bulgaria toglierà il veto che blocca il percorso europeo della Macedonia del Nord”. Aggiungendo che “…La ragione del veto bulgaro è la richiesta fatta dalla Bulgaria alla Macedonia del Nord di concordare ed accettare ufficialmente che la lingua macedone sia soltanto un dialetto della lingua bulgara e che in Bulgaria non esiste una minoranza macedone”. (Predicano i principi della democrazia ma poi…; 28 giugno 2021).

    Dopo la decisione presa sull’Albania e la Macedonia del Nord il 23 giugno scorso dai capi di Stato e di governo di tutti i Paesi membri dell’Unione, nell’ambito del Consiglio europeo, proprio due giorni dopo, il 24 giugno il parlamento bulgaro, con 170 voti favorevoli, 37 contrari e 21 astensioni ha approvato la revoca del veto che bloccava l’avvio dei negoziati di adesione della Macedonia del Nord all’Unione europea. Ma nonostante ciò, sembrerebbe che adesso sia la Macedonia del Nord a non essere d’accordo con il testo approvato dal parlamento bulgaro. Rimane perciò da seguire come evolverà questo contenzioso tra i due Paesi. Nel frattempo, per quanto riguarda l’Albania, bisogna porsi alcune dirette e semplicissime domande. Ha esaudito l’Albania tutte le 15 condizioni sine qua non poste dal Consiglio europeo il 25 marzo 2020? Ha rispettato, come obbligatorio, quanto prevede l’Accordo di Associazione e Stabilizzazione con l’Unione europea, firmato dall’Albania il 12 giungo 2006 in Lussemburgo? Ha rispettato l’Albania i Criteri di Copenaghen? Ebbene, dati e fatti accaduti, documentati e ufficialmente rapportati dalle istituzioni specializzate internazionali, comprese anche quelle dell’Unione europea alla mano, la risposta è netta ed una sola. No! Il nostro lettore spesso, da anni ormai, è stato informato con la massima oggettività richiesta dall’autore di queste righe di tutto ciò. Cosa che egli continuerà a farlo.

    Non si sa però perché, dopo il vertice del Consiglio europeo del 23 giugno scorso, quasi tutti, quando parlano, scrivano, commentano e analizzano la decisione presa dal Consiglio europeo per l’Albania, fanno riferimento soltanto al veto bulgaro sulla Macedonia. Ma in realtà, anche se quel veto non ci fosse stato, almeno per quanto riguarda l’Albania non si potevano mai aprire i negoziati come “Paese candidato”. Si, perché l’Albania non ha esaudito le 15 condizioni sine qua non poste dal Consiglio europeo il 25 marzo 2020! Anzi, la realtà albanese, quella vera, vissuta e sofferta, sta peggiorando di giorno in giorno. E guarda caso, “stranamente” il primo ministro albanese ha sempre negato l’esistenza di quelle 15 condizioni! In più occasioni non sono stati rispettati gli obblighi previsti dall’Accordo di Associazione e Stabilizzazione con l’Unione europea. Il caso del porto di Durazzo, del quale il nostro lettore è stato informato a tempo debito, ne è una molto significativa dimostrazione (Clamoroso abuso miliardario in corso; 21 febbraio 2022). Così come l’Albania non ha rispettato quanto previsto dai Criteri di Copenaghen. La vera ragione per la quale all’Albania non si aprono e non si devono aprire i negoziati è la restaurazione ed il consolidamento nel Paese di un nuovo regime totalitario, di una nuova dittatura sui generis, camuffata da un pluripartitismo di facciata. Una realtà questa, della quale il nostro lettore, da anni ormai, e stato informato molto spesso. E nonostante ciò, durante la sopracitata conferenza stampa nel pomeriggio del 23 giugno scorso, il primo ministro albanese, con la sua ben nota arroganza verbale ha attaccato ed aggredito le istituzioni dell’Unione europea. Ma ha anche espresso il “suo profondo rammarico per l’Unione europea”. Aggiungendo che gli “dispiace per loro e spero che potremmo aiutarli” (Sic!). Una ben scelta “strategia”, quella sua, per cercare di coprire tutte quelle drammatiche e allarmanti verità che lo accusano in prima persona, almeno istituzionalmente.

    Chi scrive queste righe promette al nostro lettore di trattare questo argomento nel prossimo futuro.

    Condivide però, nel frattempo, la saggezza popolare secondo la quale con la faccia tosta si va a cavallo e in carrozza. Ed è proprio il caso del primo ministro albanese. Chi scrive queste righe condivide anche la preghiera espressa nel Salmo 12, versetto 4 dell’Antico Testamento; “Recida il Signore le labbra bugiarde, la lingua che dice parole arroganti”. Chissà però se il primo ministro albanese conosce questo versetto? E se si, chissà come si sente?!

  • Smascheramento in corso di un’accordo regionale occulto

    La verità trionfa da sola, la menzogna ha sempre bisogno di complici.

    Epitteto

    Il 5 giugno scorso tre Paesi balcanici hanno chiuso i rispettivi spazi aerei ad un aereo russo, a bordo del quale si trovava il ministro degli Esteri russo e una delegazione da lui guidata. Il volo era diretto a Belgrado, capitale della Serbia, dove il ministro russo, l’indomani, doveva incontrare il presidente, il ministro degli Interni ed altri alti funzionari serbi. Una programmata visita ufficiale durante la quale si doveva concludere l’accordo tra i due Paesi per il rinnovo, per altri tre anni, del contratto sulla fornitura alla Serbia del gas russo a condizioni molto vantaggiose. Tutto dopo che precedentemente i termini dell’accordo sono stati resi pubblicamente noti, dopo un colloquio telefonico, avvenuto il 29 maggio scorso, tra il presidente russo e quello serbo. I Paesi che hanno impedito il volo dell’aereo sul quale viaggiava il ministro russo con la sua delegazione erano la Bulgaria, la Macedonia del Nord ed il Montenegro. Tutti e tre sono Paesi che, insieme a quelli dell’Unione europea e ai tanti altri, hanno aderito alle sanzioni restrittive contro la Russia, dopo l’invasione del territorio ucraino il 24 febbraio scorso. Parte di quelle restrizioni riguardano anche il presidente russo ed il ministro degli Esteri. Loro due, insieme con tanti altri, dal 25 febbraio, un giorno dopo l’inizio della guerra in Ucraina, che il presidente russo considera cinicamente come “un’operazione militare speciale”, sono stati inseriti nella lista delle persone colpite dalle sanzioni. Una di quelle sanzioni è anche “il divieto di viaggio che impedisce l’ingresso o il transito attraverso il territorio dei Paesi membri e dei partner allineati”. Da sottolineare che la Serbia è uno dei Paesi dei Balcani occidentali che ha avviato la procedura di adesione all’Unione europea dal 2008, con la firma dell’Accordo di Stabilizzazione e Associazione. Mentre il 1o marzo 2012 il Consiglio europeo ha riconosciuto alla Serbia lo stato del Paese candidato all’adesione nell’Unione. La Serbia è anche uno dei 141 Paesi che, il 2 marzo scorso, hanno votato la risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite con la quale si condanna l’invasione russa dell’Ucraina. Ebbene, nonostante ciò, la Serbia non ha aderito però alle sanzioni restrittive contro la Russia. Una scelta quella della Serbia che è stata criticata e contestata dai massimi rappresentanti dell’Unione europea e di alcuni singoli Stati membri, soprattutto la Germania. Il ministro tedesco degli Esteri dichiarava a metà aprile scorso che “…Se la Serbia vuole aderire all’Unione europea, deve sostenere la politica estera degli altri membri dell’Unione […] e quindi imporre alla Russia le sanzioni necessarie”. Il 16 maggio scorso, si è svolta una riunione dei 27 ministri degli Esteri dell’Unione europea. In una loro comune dichiarazione ufficiale pubblicata dopo la riunione, riferendosi alle sanzioni restrittive contro la Russia, i ministri dell’Unione hanno ribadito che “…Chi non l’ha fatto, come la Serbia, dovrà adeguarsi il prima possibile alle sanzioni”. Un simile e determinato appello è stato fatto, il 10 giugno scorso, anche dal cancelliere tedesco, in visita ufficiale a Belgrado. Lo ha confermato, durante la conferenza stampa dopo l’incontro, lo stesso presidente serbo. Secondo lui “In maniera decisa e tagliente, il cancelliere [tedesco] ha chiesto alla Serbia di aderire alle sanzioni contro la Federazione Russa, cioè di sostenere le misure restrittive che l’Unione europea ha già adottato nei loro confronti”.

    Il 6 giugno scorso, dopo l’impedimento di arrivare a Belgrado, il ministro degli Esteri russo durante una conferenza online con i media da Mosca ha considerato come inimmaginabile la chiusura degli spazi aerei, il 5 giugno scorso, da parte dei tre sopracitati Paesi balcanici che hanno impedito a lui e alla sua delegazione di arrivare a Belgrado. “È accaduto qualcosa di inimmaginabile. Ad uno Stato sovrano è stato negato il diritto di seguire la [sua] politica estera”. Aggiungendo che “Le attività internazionali della Serbia verso la Russia sono bloccate”. Ma ha espresso anche la sua ferma convinzione che “La cosa più importante è che nessuno potrà distruggere il nostri legami con la Serbia”. Durante quella conferenza il ministro russo degli Esteri ha attaccato l’Unione europea e, più in generale, quello che ha chiamato “l’Occidente”.  Lui ha dichiarato convinto che “Se la visita del ministro degli Esteri russo in Serbia è percepita in Occidente come una minaccia su scala globale, allora, chiaramente, le cose in Occidente vanno piuttosto male”. Dopo l’impedimento al ministro russo di arrivare a Belgrado hanno subito reagito anche il presidente serbo ed il ministro degli Interni. Il presidente serbo, tramite un comunicato stampa ufficiale, pubblicato soltanto in lingua serba, ha espresso la “sua insoddisfazione” per l’impedimento della programmata visita del ministro russo e della sua delegazione. Ma ha ribadito la sua determinazione a mantenere “l’indipendenza e l’autonomia nel processo decisionale politico” da parte della Serbia, nonostante i negoziati d’adesione del suo Paese nell’Unione europea. Mentre il ministro serbo degli Interni, sempre riferendosi alla mancata visita della delegazione russa a Belgrado, ha detto che “Il mondo in cui i diplomatici non possono attuare la pace, è un mondo in cui non c’è la pace”. E poi ha aggiunto di essere rimasto “profondamente dispiaciuto per l’ostruzione alla visita di un grande e comprovato amico della Serbia”. Il ministro degli Interni serbo ha ribadito perentorio che “…Chi ha impedito l’arrivo di Lavrov non vuole la pace, sogna di sconfiggere la Russia e la Serbia è orgogliosa di non far parte dell’isteria anti-russa”. Più chiaro di così non lo poteva dire un ministro serbo!

    Due settimane fa l’autore di queste righe, informava il nostro lettore su un’iniziativa regionale occulta; quella che ormai è nota come Open Balcan (facendo riferimento alla denominazione ufficiale e all’ortografia usata dai promotori; per essere corretti però, visto che si usa la lingua inglese, si dovrebbe, invece, scrivere Open Balcans – Balcani aperti; n.d.a.). Egli ha trattato questo tema, a tempo debito, anche in precedenza. In quell’articolo l’autore di queste righe evidenziava, tra l’altro, che “…L’iniziativa regionale, nota ormai come Open Balcan, è stata presentata ufficialmente il 10 ottobre 2019 in Serbia, a Novi Sad. Allora è stata considerata come una nuova iniziativa per costituire ‘L’area economica comune dei Balcani occidentali’. Ma allora l’iniziativa regionale era stata denominata il Mini-Schengen balcanico. Solo in seguito, il 29 luglio 2021, il presidente serbo, il primo ministro albanese ed il primo ministro macedone, durante il vertice di Skopje, lo hanno ribattezzata come l’iniziativa Open Balcan”. In seguito egli specificava che “…A onor del vero però, le tesi dell’iniziativa, sono state rese note in un articolo pubblicato nel 1999. L’autore era George Soros, un multimiliardario speculatore di borsa statunitense. Invece adesso, dopo più di venti anni, i firmatari si mostrano come gli ideatori dell’iniziativa, presentandola come una novità!”. A proposito, l’autore di queste righe informava il nostro lettore che il giovane figlio del multimiliardario speculatore di borsa statunitense “è presente sempre in tutte le occasioni dove si tratta e si promuove l’iniziativa Open Balcan”. E di fronte a quel “giovane rampollo ereditario” i firmatari dell’iniziativa, i tre “amici” di suo padre, stanno ‘sull’attenti’. Chissà perché?! L’autore di queste righe due settimane fa informava altresì il nostro lettore, riferendosi all’iniziativa occulta Open Balcan, che si trattava di “un’iniziativa quella ideata per garantire e rafforzare la supremazia serba nei Balcani. Una supremazia che non interessa però solo alla Serbia, ma, tramite la Serbia, ne approfittano anche altri Paesi, Russia e Cina compresi.” (Un’ingannevole ed occulta iniziativa regionale; 31 maggio 2022).

    Ebbene, il 6 giugno scorso, durante la sua conferenza online con i media da Mosca, il ministro russo degli Esteri non ha parlato, con toni offensivi, soltanto dell’Unione europea e, più in generale, di quello che ha chiamato “l’Occidente”. Il ministro russo degli Esteri ha ribadito che alla Serbia e al suo presidente non mancherà l’appoggio della Russia. Lui, guarda caso, ha parlato anche dell’iniziativa Open Balcan e della paternità di quell’iniziativa. E così facendo lui ha contribuito, nolens volens, proprio ad un ulteriore smascheramento di un accordo regionale occulto. Bisogna sottolineare che, dal 2014 ad oggi, i massimi rappresentanti dell’Unione europea e di singoli Stati membri hanno sempre appoggiato istituzionalmente quello che è noto come il Processo di Berlino. Mentre i tre “promotori” dell’iniziativa occulta Open Balcan e cioè il presidente serbo, il primo ministro albanese e il primo ministro macedone, hanno continuamente e consapevolmente mentito, dichiarando e “giurando” che Open Balcan ha tutto l’appoggio dell’Unione europea! Il nostro lettore è stato informato di tutto ciò (Accordo ingannevole e pericoloso, 13 gennaio 2020; Bugie scandalose elevate a livello statale; 24 febbraio 2020; Preoccupanti avvisaglie dai Balcani, 8 novembre 2021; Importanti decisioni, vergognose manipolazioni e una protesta, 20 dicembre 2021; Un’ingannevole ed occulta iniziativa regionale, 31 maggio 2022 ecc…)

    Riferendosi però all’iniziativa Open Balcan e alludendo anche alla visita impedita, il ministro russo degli Esteri ha dichiarato il 6 giugno scorso che “Quegli che stanno tirando i fili a Bruxelles non hanno voluto questo, non hanno voluto che noi esprimessimo il nostro appoggio a Belgrado”. E subito dopo ha smascherato anche la vera paternità dell’iniziativa Open Balcan.  Il ministro degli Esteri russo ha confermato pubblicamente quello che si sapeva già. Sempre riferendosi all’Unione europea lui ha detto: “Loro non volevano che noi esprimessimo il nostro appoggio all’iniziativa di Belgrado per realizzare il progetto Open Balcan all’interesse di un rapporto più solido e più sano tra i Paesi della regione [balcanica]”. Sì, ha confermato proprio l’appoggio russo “all’iniziativa di Belgrado per realizzare il progetto Open Balcan”. Dichiarando così che l’iniziativa occulta è stata promossa dalla Serbia, avendo anche l’appoggio della Russia. Così facendo, il ministro russo degli Esteri il 6 giugno scorso ha smascherato, una vota per sempre, tutte le ingannevoli dichiarazioni pronunciate dal 2019 ad oggi, dai “tre amici” del multimiliardario speculatore di borsa statunitense. Che poi è il vero ideatore del progetto per i Balcani Aperti. Proprio lui, il fondatore delle Fondazioni della Società Aperta che sono attive, dagli inizi degli anni ’90, anche nei Paesi balcanici. Serbia, Albania e Macedonia del Nord compresi. E non a caso è stato usato anche lo stesso aggettivo, ‘aperto’, come testimonianza e firma dell’autore! Il ministro russo degli Esteri ha dichiarato il 6 giugno scorso, durante la sua conferenza online con i media da Mosca, che “…Ormai è chiaro per tutti che Bruxelles, la NATO e l’Unione europea vogliono convertire il progetto Open Balcan in un loro progetto, chiamato Close Balcans (Balcani chiusi; n.d.a.)!

    La scorsa settimana, il 7 e l’8 giugno, a Ohrid (Macedonia del Nord) si è svolto il vertice di turno dell’iniziativa Open Balcan. E nonostante quanto ha dichiarato il ministro russo degli Esteri il 6 giugno scorso, i tre “promotori” dell’iniziativa occulta Open Balcan hanno continuato le loro messinscene, le loro bugie e i loro inganni pubblici. Con un “piccolo cambiamento di programma” però. Hanno cercato di far “combaciare” Open Balcan con il Processo di Berlino. Anzi, per il primo ministro albanese Open Balcan è “un’unità del Processo di Berlino”! I bugiardi, gli ingannatori, gli ipocriti senza scrupoli non smettono mai di essere “innovativi”. Nel frattempo però e proprio il 10 giugno scorso, dal Kosovo, il cancelliere tedesco, ha dichiarato senza equivoci che “In quanto al Open Balcan, voglio chiaramente dire che noi diamo grande priorità al Mercato Comune Regionale (parte integrante del Processo di Berlino; n.d.a.), che crediamo debba progredire”.

    Chi scrive queste righe avrebbe avuto bisogno, anche in questo caso, di molto più spazio per trattare, con la dovuta oggettività, questo argomento per il nostro lettore. Ma egli è convinto che non mancheranno altre occasioni. Per il momento però condivide il pensiero di Epitteto che la verità trionfa da sola, la menzogna ha sempre bisogno di complici.

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