Balcani

  • Stato di polizia come una vissuta realtà

    Quando la verità non è più libera, la libertà non è più reale.
    Le verità della polizia sono le verità di oggi.

    Jacques Prévert

    Sì, purtroppo la costituzione dello Stato di polizia in Albania è ormai una vissuta realtà. Anche ufficialmente. Proprio di uno Stato di polizia si tratta, riferendosi purtroppo alla negativa connotazione, secondo la quale si prevede l’uso massiccio e continuo delle forze di polizia per mettere in atto le decisioni di chi detiene il potere, spesso a scapito dei cittadini. Lo ha annunciato il 31 gennaio scorso la ministra della giustizia, subito dopo che il Consiglio dei ministri aveva approvato un Atto normativo. Con quell’Atto si prevedono massimi poteri decisionali e/o operazionali per il ministro degli Interni e/o per i rappresentanti della polizia di Stato. Diritti che urtano e violano palesemente quanto prevede la Costituzione della Repubblica d’Albania. Non solo, ma con quell’approvazione governativa, la Costituzione è stata violata anche e soprattutto, nelle sue definizioni riguardanti un Atto normativo. Perché un Atto normativo, con il potere della legge, viene approvato solo e soltanto nelle condizioni di “necessità e di urgenza”. Cioè solo e soltanto in quei limitati casi in cui la soluzione della problematica, tramite la procedura normale dell’approvazione della legge, non può garantire la dovuta celerità e l’efficacia necessaria. Non solo ma, vista la particolarità, comunque la Costituzione prevede e sancisce che per il controllo della costituzionalità dei casi in cui si approva un Atto normativo con il potere della legge è sempre la Corte Costituzionale, dietro richiesta, che dovrà fare una approfondita verifica e decidere, caso per caso, se ci siano state delle violazioni della Costituzione stessa. Ma, guarda caso, in Albania la Corte Costituzionale non è funzionante da più di due anni! Il che significa che nessuno può impedire l’attuazione dell’Atto normativo approvato in fretta, il 31 gennaio scorso, dal Consiglio dei ministri.

    La reazione è stata immediata e trasversale. Sia da parte dei costituzionalisti, degli specialisti della giurisprudenza, degli opinionisti e gli analisti, che dai rappresentanti dei partiti politici in opposizione con l’attuale maggioranza governativa. Ha reagito deciso anche il Presidente della Repubblica. Del caso si sono occupati, reagendo, anche i media internazionali. L’opinione pubblica è stata giustamente molto preoccupata, considerando e interpretando l’approvazione dell’Atto normativo come un’ulteriore prova e testimonianza del consolidamento di una nuova dittatura in Albania. Lì, dove la situazione sta diventando sempre più allarmante e grave. L’autore di queste righe da tempo lo sta ribadendo e denunciando questa realtà. Il nostro lettore è stato sempre informato di tutto ciò, con tante testimonianze e dimostrazioni, nonché con le analisi che hanno confermato quanto sta accadendo in Albania.

    L’Atto normativo in questione prevede la confisca dei patrimoni e delle proprietà illecitamente accumulate da parte dei condannati per delle attività criminali, per aver partecipato ad attività terroristiche, a traffici illeciti e altri crimini gravi. Fin qui niente di male, anzi! Ma in Albania esistono ormai diverse leggi appositamente approvate negli anni passati per combattere tutte le attività criminali previste nel sopracitato Atto normativo. Non solo, ma esiste, e dovrebbe essere attuata in tutti i casi che si presentano, anche la legge “anti-mafia”. Legge approvata già dal 2009 e che prevede, tra l’altro, anche la confisca dei patrimoni e delle proprietà illecitamente accumulate dei criminali, giudicate come tali. Allora è inevitabile e viene naturale la domanda: perché l’approvazione di quest’Atto normativo? Perché tutta questa grande fretta, violando la Costituzione della Repubblica? La risposta è legata alla grave situazione in cui si trova il primo ministro albanese, responsabile istituzionalmente, ma anche personalmente, della profonda ed allarmante crisi multidimensionale, in cui versa, da alcuni anni l’Albania. Per intimidire e mettere sotto pressione anche quei pochi procuratori e/o giudici “non controllati e ubbidienti”, il primo ministro, e/o chi per lui, ideò una “crociata punitiva e purificante”. Guai a quei procuratori e/o giudici che, messi alle strette dalla [fallita] riforma del sistema di giustizia, secondo lui, pensavano e agivano con il moto “Acchiappa quello che si può acchiappare”. Il diritto d’autore di questa denominazione, però, spetta esclusivamente al primo ministro. Ma si sa, il sistema della giustizia, dati e fatti alla mano, è sempre più controllato da lui personalmente. Ed era proprio lui, facendo finta di niente, come sempre, che durante la seduta plenaria del Parlamento, il 10 ottobre 2019, rese pubblica la sua “crociata punitiva e purificante”. Ma allora parlava di una legge e non di un Atto normativo. Parlava di procuratori e giudici corrotti e non soltanto di criminali. Chissà perché ha cambiato la “strategia d’approccio”?! Ed aveva tutto il tempo necessario per avviare le procedure parlamentari necessarie per approvare la legge di cui parlava il 10 ottobre 2019. Ma non lo ha fatto. E invece di una legge ha approvato un Atto normativo con il potere della legge che urta e viola palesemente con la Costituzione. Ne avrà avuto le sue buone ragioni!

    Ormai tutti sono convinti che si tratta di un Atto che ignora quanto prevede e sancisce la Costituzione. Si tratta di un Atto che passa al ministro degli Interni e alla polizia di Stato delle competenze legali che hanno, esclusivamente e come prevedono le leggi in vigore, i tribunali e le procure. Si tratta di un Atto che mette sotto il controllo del ministro degli Interni sia il procuratore generale della Repubblica che i dirigenti di altre strutture del sistema di giustizia. Si tratta di un Atto che mette, perciò, tutto e tutti sotto il diretto controllo del ministro degli Interni, cioè del primo ministro. Si tratta di un Atto che però mette a nudo tutta la propaganda del primo ministro e dei suoi, sui “successi” del “riformato” sistema di giustizia e della polizia di Stato nella lotta contro la criminalità organizzata. Si tratta di un Atto che mira anche ad “ingannare” le cancellerie europee e le istituzioni internazionali, quando verrà il momento di decidere sul percorso europeo dell’Albania. Forse tra qualche mese. Ma si tratta di un Atto che testimonia la costituzione di uno Stato di polizia. Dovrebbe diventare una forte e seria ammonizione per tutti la convinzione del noto scrittore e saggista cinese Lin Yutang, vissuto negli Stati Uniti durante il secolo passato. E cioè che “Dove ci sono troppi poliziotti non c’è libertà”!

    Chi scrive queste righe considera allarmante quanto sta accadendo adesso in Albania. Considera l’approvazione del sopracitato Atto normativo come un’ulteriore espressione di totalitarismo ed un’altra [provocatoria] mossa per consolidare la dittatura in Albania. Egli è convinto che è un dovere civico e patriottico di ogni singolo, responsabile e ancora non indifferente cittadino albanese, di agire attivamente, per impedire l’attuazione delle diaboliche e pericolose “strategie” del primo ministro. Nonostante considera l’Atto come l’ennesima buffonata propagandistica, ideata e diretta da lui per “guadagnare altro tempo prezioso”, egli valuta seriamente e condanna la spregiudicatezza delle sue decisioni e delle sue azioni concrete, nonché la pericolosità della sua concezione sullo Stato e sulla Costituzione. L’Atto normativo ha soltanto messo in evidenza tutto ciò. Ed ha dimostrato che, purtroppo, lo Stato di polizia è una vissuta realtà in Albania. Per impedire che le verità della polizia diventino le verità dominanti, bisogna che tutti gli albanesi responsabili agiscano determinati e senza indugi contro lo Stato di polizia e contro la restaurata dittatura. Chi scrive queste righe non smetterà mai di ricordare e ripetere, a se stesso e agli altri, l’insegnamento di Benjamin Franklin: “Ribellarsi ai tiranni significa obbedire a Dio”!

  • Accordo ingannevole e pericoloso

    L’uomo troppo compiacente che accorda tutto

    per tutto avere, è ruinato dalla propria facilità.

    Confucio

    Durante gli ultimi mesi dell’anno appena passato si sono pubblicamente incontrati per tre volte il presidente della Serbia, il primo ministro della Macedonia del Nord ed il primo ministro dell’Albania. La prima volta il 10 ottobre in Serbia, a Novi Sad. La seconda il 10 novembre ad Ohrid e la terza volta il 21 dicembre a Tirana. La ragione, almeno quella resa nota ufficialmente, è stata la presentazione di una nuova iniziativa per costituire “L’area economica comune dei Balcani occidentali”. Lo hanno denominato l’accordo del “Mini-Schengen balcanico”. E non a caso hanno evocato sia l’Accordo (14 giugno 1985) che la Convezione (19 giugno 1990) di Schengen, essendo degli Atti con i quali si sanciva l’eliminazione dei controlli alle frontiere interne tra i Paesi firmatari e l’introduzione della libertà di circolazione per tutti i cittadini degli stessi Paesi. Ma, a differenza dell’Accordo e della Convenzione di Schengen, i cui contenuti sono stati resi noti nei minimi dettagli, del “Mini-Schengen balcanico”, promosso pubblicamente durante gli ultimi mesi dell’anno appena passato, si sa poco o nulla. Ragion per cui, conoscendo anche i promotori dell’iniziativa, almeno alcuni di loro, si dovrebbe essere molto attenti e guardinghi. Perché si sa, non tutto quello che luccica è oro, anzi!

    Per capire meglio i [presunti] veri obiettivi strategici della proposta bisogna riferirsi alla storia, che sempre ci insegna. Subito dopo la Prima Guerra Mondiale, la costituzione di nuovi Stati nei Balcani e la definizione delle frontiere tra di loro sono stati oggetto di lunghe e spesso molto dibattute discussioni internazionali. Comprese anche le intricate trattative che si svolgevano in quel periodo a Versailles. In quel periodo, dopo il dissolvimento dell’Impero Austro-Ungarico, cominciò il processo della costituzione del Regno della Jugoslavia. È stato un lungo processo, che cominciò nel 1918 e finì nel 1929. Il regno ebbe però una breve vita, fino al 1941. Ma la storia ci insegna che i serbi non hanno mai smesso di pensare, progettare e volere di nuovo una simile struttura statale. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, nel 1945, si costituì la Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia. Comprendeva la Serbia, la Slovenia, la Croazia, la Macedonia, il Montenegro e la Bosnia ed Erzegovina. Quella repubblica si disintegrò poi, dal 1992. Ma subito dopo la Seconda Guerra Mondiale, Tito, con il compiacimento dei vertici del partito comunista albanese, stava attuando l’inserimento anche dell’Albania come settima repubblica della federazione Jugoslava. Anche in quel periodo tra i due paesi ci sono stati degli accordi comuni, compresi quegli per eliminare le barriere doganali e per unificare la moneta. Tutto fallì nel 1948, quando l’Albania entrò pienamente sotto il controllo dell’Unione Sovietica.

    Adesso il presidente della Serbia sta promuovendo di nuovo un accordo: quello sopracitato del “Mini-Schengen balcanico”. Bisogna sottolineare di nuovo che, ad oggi, non è stato reso noto il vero contenuto dell’accordo. Si parla però di libera circolazione dei cittadini e delle merci, del capitale e altro. Da sottolineare anche che attualmente sono in vigore diversi accordi bilaterali tra i paesi balcanici, tranne in certi casi con la Serbia, come quello che permette il libero passaggio di frontiera, con soltanto la carta d’identità. Volutamente si rendono noti soltanto questi diritti, simili a quelli previsti anche dall’Accordo e dalla Convenzione di Schengen, adottati in seguito dall’Unione europea. Secondo molti noti analisti e opinionisti si tratta soltanto di una copertura propagandistica. Perché in realtà tutto fa pensare ad altro. Ed il tempo, noto per essere gentiluomo, prima o poi lo dimostrerà.

    Il presidente serbo, che è stato ministro dell’Informazione di Slobodan Milošević, non è la prima volta che presenta questa iniziativa. Lo ha fatto da primo ministro a Parigi nel 2016, presentando ufficialmente il suo progetto, che prevedeva la costituzione di “un’area economica comune dei Balcani occidentali”. In quell’occasione l’attuale presidente serbo legava quel progetto con la possibilità di distaccare i paesi balcanici dalla sfera d’influenza dell’Unione europea. Lui dichiarava allora che “L’Unione europea non è l’unico fattore coesivo che possa unire i Balcani. Noi (gli Stati dei Balcani occidentali; n.d.a.) lo dobbiamo fare da soli. Abbiamo bisogno di prenderci cura di noi stessi. Ecco perché ho fatto appello ai dirigenti dei paesi della regione di focalizzarsi su noi stessi”! Per rendere meglio l’idea bisogna sottolineare che il concetto dei “Balcani occidentali” è stato proposto per la prima volta agli inizi degli anni 2000, da alcuni alti rappresentanti della diplomazia francese in sede dell’Unione europea. Secondo quel concetto, l’area comprende geograficamente la Serbia, la Macedonia del Nord, il Montenegro, la Bosnia ed Erzegovina, il Kosovo e l’Albania. Quando è stato presentato comprendeva anche la Croazia che, dal 2013, ha pienamente aderito nell’Unione europea.

    Il vero significato del progetto della Serbia, nonché il suo obiettivo strategico, presentato come “l’Accordo di mini-Schengen“, si capisce meglio se si fa riferimento ad un’altra dichiarazione pubblica fatta dall’attuale presidente della Serbia. Questa volta durante un’intervista rilasciata ad un noto media statunitense, il 6 aprile 2018, proprio quattro giorni dopo essere diventato, il 2 aprile 2018, da primo ministro, il presidente della Serbia. Il giornalista gli domandava se con il suo piano per un mercato comune balcanico egli stesse cercando di ricostituire la Jugoslavia. Lui gli rispondeva, senza batter ciglio, che [infatti] “È la vecchia Jugoslavia più l’Albania”! Ed era più di un anno prima della promozione pubblica del sopracitato accordo! Da parte delle istituzioni albanesi nessuna reazione ufficiale. Né politica e neanche diplomatica. Come mai?!

    Tornando ai sopracitati tre vertici per promuovere l’iniziativa serba del “Mini-Schengen balcanico”, bisogna sottolineare che l’iniziativa ha soltanto il supporto della Serbia, dell’Albania e della Macedonia del Nord. Gli altri paesi lo hanno contestato come programma. Soprattutto in Kosovo e per ben noti motivi. Per quanto riguarda l’Albania, risulterebbe che, ad oggi, nessuna consultazione istituzionale sull’argomento sia stata fatta. Tutto è stato gestito personalmente dal primo ministro, senza la ben che minima trasparenza. Non solo, ma lui ha avuto due palesemente opposti atteggiamenti e comportamenti, riguardo alla non partecipazione dei rappresentanti del Kosovo. Durante il vertice di Novi Sad, il primo ministro albanese dichiarava che non avrebbe partecipato ai seguenti vertici se non fossero presenti anche i rappresentanti del Kosovo. Mentre appena due mesi dopo, durante il vertice di Tirana, ha tuonato contro la non presenza di quei rappresentanti, offendendoli e ingiuriandoli con un volgare linguaggio. Chissà perché?!

    Chi scrive queste righe, se lo spazio glielo avesse permesso, avrebbe avuto molti altri argomenti da trattare e commentare su questo Accordo, che lo considera ingannevole e molto pericoloso. Soprattutto se si tiene presente quanto sta accadendo negli ultimi tempi nel mondo. Egli crede, tra l’altro, che il progetto del ritorno alla ex Jugoslavia, oltre alla Serbia, possa interessare molto alla Russia, ma anche ad altri paesi orientali. Chi scrive queste righe considera grave l’idea di abbandonare i processi europei in corso per i paesi balcanici, nonostante quei processi siano stati volutamente bloccati da certi corrotti e irresponsabili politici balcanici. Quelli che, comunque, saranno ruinati dalla propria facilità di accordare tutto, come pensava Confucio.

     

  • Piroette geopolitiche e alleanze instabili

    Attenzione a scegliere e dichiarare alleanze e alleati!
    Perché un giorno possono diventare i tuoi avversari.

    Da diversi mesi prima della riunione del Consiglio europeo del 17 e 18 ottobre scorso, essendo certo della  decisione negativa, il primo ministro albanese “minacciava” l’Unione europea e/o i singoli paesi dell’Unione con l’imminente pericolo proveniente da “certe influenze di paesi terzi, pronti a intervenire nella regione balcanica”. E non si faceva fatica a capire che quei “paesi terzi”, ai quali faceva lui riferimento, erano la Russia, la Cina, la Turchia e altri ancora. Ma le ‘minacce’ del primo ministro albanese non hanno influenzato la decisione dei capi di stato e di governo degli Stati membri dell’Unione. Il 18 ottobre scorso il Consiglio europeo ha chiuso in faccia la “porta europea” al primo ministro albanese. Con quella chiusura si sono sgretolate anche tutte le montature propagandistiche, sue e dei suoi. Per spostare l’attenzione dell’opinone pubblica da quella clamorosa sconfitta, il primo ministro e la propaganda governativa hanno subito accusato il presidente francese Macron come “l’unico nemico”. Accuse immediatamente smentite dal diretto interessato, accusando e schiaffeggiando, a sua volta, la misera propaganda del primo ministro e dei suoi, rendendo anche pubblico, quanto era accaduto realmente durante la riunione del Consiglio europeo, mentre si discuteva e si decideva sull’Albania. Il primo ministro albanese però ha fatto, come suo solito, orecchie da mercante e, con i suoi, ha pensato alla prossima mossa diversiva. Perché lui da tempo non governa più il paese, ma i suoi fallimenti e gli scandali continui, che coinvolgono lui e i suoi, cercando disperatamente di inventare l’ennesima diversione propagandistica per deviare l’attenzione pubblica.

    Questa volta al primo ministro albanese l’occasione è stata offerta da una conferenza sulla politica statunitense nei Balcani occidentali (US Policy in the Western Balkans), svoltasi a Tirana il 28 ottobre scorso. Ma questa volta la “scelta” non passa tramite il suo “amico e alleato strategico”, il presidente turco Erdogan. Il primo ministro albanese questa volta ha dichiarato “amore eterno” agli Stati Uniti d’America e ha fatte sue le scelte geopolitiche del presidente Trump nei Balcani occidentali. Proprio lui che, mentre la campagna elettorale negli Stati Uniti del 2016 era in pieno svolgimento, dichiarava più che convinto di non avere “nessun problema a ripetere, sia in albanese che in inglese, che Donald Trump è una minaccia per l’America e che non si discute che è una minaccia anche per i rapporti tra l’Albania e gli Stati Uniti”. E pregava Dio che Trump non fosse eletto presidente. Ma dopo che le sue preghiere non sono state ascoltate e Trump fu eletto, il primo ministro albanese dichiarava che le sue opinioni espresse precedentemente erano non per il presidente Trump, ma per il “candidato Trump”! Senza batter ciglio e come se nulla fosse, il primo ministro albanese si “giustificava” per le sue precedenti parole, dichiarando che lui era diventato, dopo pochi mesi, convintamente contrario a quello che aveva detto prima e che “desiderava il successo del nuovo presidente degli Stati Uniti” (Sic!). La famosissima favola di Esopo, La volpe e l’uva, insegna sempre certi cambiamenti di atteggiamento.

    Durante la sopracitata conferenza sulla politica degli Stati Uniti nei Balcani occidentali, la rappresentante dell’ambasciata statunitense, riferendosi alla regione, dichiarava che la Russia “insiste nell’esportare nient’altro che il caos”. Lei ha parlato anche di un concreto pericolo per la regione, proveniente anche da altri paesi. E il primo ministro albanese ha fatto subito suo quanto è stato detto durante quella conferenza. Come se niente fosse lui ha trovato un nuovo “nemico pericoloso”; la Russia. Il gruppo parlamentare del suo partito ha subito presentato in Parlamento due giorni dopo, e cioè il 30 ottobre scorso, la bozza di una Risoluzione riguardante l’ingerenza russa in Albania, nella quale si elencano i tanti pericoli che possano seriamente danneggiare nel futuro l’Albania, le sue istituzioni e altro ancora.

    Ovviamente non poteva mancare l’immediata e dura reazione da parte dell’ambasciata della Federazione Russa a Tirana. Nella sua dichiarazione ufficiale si scriveva, tra l’altro, che “…ogni volta che siamo stati accusati di ingerenze negli affari interni di Tirana, noi abbiamo aspettato con impazienza almeno anche una prova di ciò. Ma i nostri amici albanesi non hanno potuto presentare neanche una prova.”. E in quella dichiarazione non poteva mancare neanche una “freccia avvelenata” indirizzata agli Stati Uniti. “È increscioso che tutto ciò stia palesemente accadendo in seguito ad un tacito accordo con l’ambasciata statunitense (ah sì, questa non si può chiamare ingerenza negli affari interni)….” si leggeva in quella reazione ufficiale dell’Ambasciata della Federazione Russa a Tirana.

    Quest’ultima “scelta di alleati e avversari” del primo ministro albanese urta clamorosamente con quell’altra, fatta circa due anni fa. Allora il primo ministro aveva scelto di appoggiare altri. Una scelta pubblicamente espressa il 21 dicembre 2017, mentre all’ONU il rappresentante della delegazione albanese ha votato contro la decisione degli Stati Uniti d’America, di riconoscere ufficialmente Gerusalemme come capitale d’Israele. Era una decisione personale del primo ministro, non consultata con nessun’altro, presidente della Repubblica compreso. Anzi, quest’ultimo ha immediatamente scritto una lettera al suo omologo statunitense, per esprimergli il suo profondo rammarico riguardo a quel voto dell’Albania all’ONU. La reazione scatenata in quel periodo in Albania era stata trasversale e tutta contro la “scelta” del primo ministro. Una scelta considerata come inopportuna, completamente sbagliata, che non analizzava e valutava la reale importanza degli alleati e delle alleanze a lungo termine. Una “scelta” personale, che non prendeva in considerazione neanche gli attuali e/o possibili sviluppi geopolitici e il loro impatto nella regione balcanica e altrove. Comprese anche tutte le inevitabili conseguenze di una simile scelta. Una “scelta” però quella del primo ministro albanese che, in quel periodo, accontentava il suo amico e alleato, il presidente turco Erdogan. Chissà cosa ha avuto in cambio? La cattive lingue ne hanno parlato tanto in quell’occasione. In realtà, riferendosi a diverse e tante fonti mediatiche, sia albanesi che straniere, risulterebbe che per delle ragioni del tutto non istituzionali e occulte, il primo ministro albanese, o chi per lui, da alcuni anni stia “tramando” con gruppi e rappresentanti imprenditoriali e/o singoli individui di nazionalità turche, russe, cinesi ecc.. Come sempre le cattive lingue ne dicono tante cose, ne dicono di cotte e di crude. Hanno parlato e lo stanno facendo tuttora. Parlano di concessioni aeroportuali, nel campo del petrolio, delle infrastrutture, dell’edilizia, del turismo e altro. Chissà se hanno avuto ragione anche questa volta?!

    Chi scrive queste righe è convinto che, come è stato espresso anche durante la sopracitata conferenza sulla politica statunitense nei Balcani occidentali, gli Stati Uniti sono attenti a quanto stia accadendo nei Balcani. Ma oltre agli Stati Uniti, oltre all’Unione europea e alcuni singoli paesi dell’Unione, anche la Russia, la Turchia, la Cina ecc., hanno degli interessi geopolitici nei Balcani. Dipende però dai paesi balcanici con chi allearsi e perché. L’autore di queste righe pensa però che bisogna essere molto attenti a scegliere e dichiarare alleanze e alleati. Perché un giorno possono diventare i tuoi avversari. Con tutte le derivanti conseguenze. Perché le piroette geopolitiche e le alleanze instabili chiederanno sempre un prezzo da pagare.

  • Il vertice di Berlino

    Tre cose non si possono nascondere troppo a lungo: il sole, la luna e la verità.

    Umberto Eco; “Il nome della rosa”

    Il 29 aprile scorso a Berlino si è svolto il vertice sui Balcani occidentali. Presidenti e capi dei governi, insieme con le rispettive delegazioni sono stati gli invitati della cancelliera Merkel e del presidente Macron. Oltre ai massimi rappresentanti dei sei paesi della regione, c’erano anche quelli della Slovenia e della Croazia. Doveva essere presente, come ospite, anche il presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, ma in sua vece era arrivata l’Alto rappresentante dell’Unione per gli Affari Esteri e la Politica di Sicurezza, Federica Mogherini. Gli organizzatori hanno ritenuto doveroso sottolineare il carattere informale del vertice. Nonostante ciò, tutti erano a Berlino per discutere di alcuni seri e spinosi problemi, che potrebbero avere preoccupanti ripercussioni non solo per la regione balcanica. Uno tra i tanti era però il vero problema: quello dei confini tra il Kosovo e la Serbia. L’aveva già anticipato anche la portavoce del governo tedesco il 26 aprile scorso. Lo hanno confermato poi il 29 aprile nelle loro dichiarazioni prima di iniziare il vertice, sia la cancelliera Merkel che il presidente Macron. La cancelliera tedesca ha ribadito che la soluzione finale dei contenziosi tra il Kosovo e la Serbia “non si dovrebbe fare ai danni degli altri paesi della regione”. Il presidente francese ha aggiunto anche che per risolvere i problemi tra il Kosovo e la Serbia bisognava verificare e trattare “tutte le possibilità”. Ma bisognava “evitare le eventuali tensioni nella regione” che ne potrebbero derivare a causa delle scelte fatte. E sia per la Merkel, che da tempo è stata chiara e perentoria, sia adesso anche per Macron, la ridefinizione dei confini sarebbe una scelta non solo sbagliata, ma anche pericolosa. Perciò una scelta da evitare definitivamente. Un messaggio chiaro per tutti coloro che la soluzione per sbloccare i difficili negoziati tra il Kosovo e la Serbia la trovavano in uno scambio di territori tra i due paesi. Un messaggio chiaro anche per loro, per gli ideatori, i sostenitori e gli attuatori di questo progetto pericoloso. Progetto che avrebbe portato, con molta probabilità, ad una allarmante recrudescenza degli scontri etnici nei Balcani e sarebbe servito anche come pretesto e riferimento in altri casi simili in altri paesi.

    Si sapevano già i nomi dei sostenitori più motivati di questo progetto, ognuno per le sue ragioni, ma in questi ultimi giorni tutto è diventato chiaro. I “tre moschettieri del re” erano il presidente del Kosovo, il quale ha reso pubblico per primo il progetto l’agosto scorso, il presidente della Serbia e il primo ministro albanese. Tutti e tre, con dietro una schiera di strateghi, consiglieri e opinionisti, hanno cercato di convincere l’opinione pubblica dei rispettivi paesi sulla “bontà” del progetto. Progetto di cui loro erano soltanto i sostenitori e gli attuatori. Perché da molte fonti mediatiche, e non solo, risulterebbe che “il re”, l’ideatore, un noto multimiliardario speculatore di borsa, seguiva tutto dall’altra parte dell’Atlantico. Essendo ormai una persona di una veneranda età, lui ha preferito essere rappresentato dal suo erede biologico e negli affari. Quest’ultimo è stato molto attivo e presente dall’agosto 2018 in poi, sia in Serbia che in Kosovo e in Albania. Le cattive lingue, riferendosi alla sua presenza nella regione, parlano di grandi interessi speculativi a medio e lungo termine che sarebbero stati avviati se il progetto di una nuova delimitazione dei confini tra il Kosovo e la Serbia avrebbe avuto successo.

    In tutto questo periodo si è parlato tanto di questo progetto. Ma erano in pochi quelli che sapevano dei dettagli e, men che meno, il vero contenuto del progetto. Un progetto che, comunque, doveva interessare molto alla Serbia, che ne usciva vincente a scapito del Kosovo. Ragion per cui, appena il presidente del Kosovo, all’inizio dell’agosto 2018, ha parlato per la prima volta pubblicamente del progetto, la reazione è stata immediata e aspramente contraria. Sia in Kosovo che in Albania. In Kosovo il presidente si è trovato subito isolato in questa iniziativa e contestato sia da tutti gli altri rappresentanti politici, in modo trasversale, che dai media e dalla popolazione. Anche in Albania il progetto è stato contestato fortemente, sia dagli analisti e dagli opinionisti, che dai rappresentanti della politica, tranne quelli del partito del primo ministro. Hanno “sostenuto” il progetto anche alcuni opinionisti che si sono messi al servizio e alla mercé del primo ministro. Il quale all’inizio ha taciuto, cercando di “nascondersi”, come fa sempre in casi simili. Ma come sempre, quando si trova in serie difficoltà e semplicemente per delle “convenienze del momento”, il primo ministro albanese, in cambio di qualche “favore e supporto internazionale”, in seguito ha “cambiato opinione” riguardo al sopracitato progetto, come il camaleonte cambia il colore. All’inizio si è guardato bene dall’esprimere una sua opinione e ha negato il suo diretto coinvolgimento nell’attuazione del progetto. Poi, sempre negando il suo coinvolgimento, si è schierato apertamente a fianco del presidente del Kosovo, considerando come “somari” tutti quelli che erano contro il progetto (Patto Sociale n.329; 335; 339; 345 ecc.). Ultimamente sono diverse le dichiarazioni pubbliche di persone ben informate, secondo le quali il primo ministro albanese sapeva e appoggiava il progetto già da più di due anni fa! Si parla anche di almeno due incontri suoi con il presidente serbo, durante i quali, secondo le stesse dichiarazioni, avrebbero parlato del progetto e come farlo attuare. Nonostante ciò nessuna reazione pubblica da parte del primo ministro e/o da chi per lui, per negare esplicitamente quanto sopracitato. Nel frattempo il presidente serbo, a lavori finiti del vertice di Berlino, ha dichiarato pubblicamente, riferendosi al menzionato progetto: “La mia idea è fallita. Questo [fatto] costerà alla nostra nazione per i venti o i trenta anni a venire”.

    Tornando al vertice di Berlino del 29 aprile scorso, per fortuna, non solo il progetto dei confini tra il Kosovo e la Serbia non ha trovato appoggio, ma è stato fortemente contrariato e “seppellito per sempre”. Perciò, se in quel vertice sia stato raggiunto anche un solo obiettivo, questo senz’altro è stato l’annientamento di quel progetto. Ma dal vertice di Berlino è stato “lasciato intendere” anche il fallimento delle politiche della Commissione europea per la soluzione dei contenziosi e le discordie tra il Kosovo e la Serbia. Da “indiscrezioni” trapelate dall’interno del vertice risulterebbe anche una presa di posizione nei confronti dell’operato e del ruolo quasi personale e personalizzato dell’Alto rappresentante dell’Unione per gli Affari Esteri e la Politica di Sicurezza, Federica Mogherini. Il solo fatto della necessità di convocare il vertice di Berlino dietro l’iniziativa e il patronato della cancelliera Merkel e del presidente Macron, lasciando “in secondo piano” la Commissione europea, è molto significativo. Un altro merito di questo vertice è che ha smascherato pubblicamente alcune bugie e inganni. Chissà come si è sentito qualcuno dei partecipanti, smentito, smascherato e trascurato?!

    Chi scrive queste righe condivide pienamente quanto scriveva Umberto Eco. E cioè che tre cose non si possono nascondere troppo a lungo: il sole, la luna e la verità.

     

  • Confini balcanici

    Nulla è più complicato della sincerità.

    Luigi Pirandello

    Durante l’udienza con il Corpo Diplomatico del 7 gennaio scorso, Papa Francesco, tra l’altro, ha messo in evidenza che nel periodo tra le due guerre mondiali “le propensioni populistiche e nazionalistiche prevalsero sull’azione della Società delle Nazioni”. Papa Francesco, in seguito, riferendosi al suo “Messaggio per la Giornata Mondiale per la Pace”, ha ribadito che “il buon politico non deve occupare spazi, ma avviare processi. Egli è chiamato a far prevalere l’unità sul conflitto”. E il presidente Sergio Mattarella, nel suo messaggio inviato a Papa Francesco, in occasione della Giornata Mondiale della Pace che si è celebrata il 1° gennaio scorso, ha scritto che “Per rendere più giusta e sostenibile la stagione che si è chiamati a governare, una politica responsabile e lungimirante non alimenta le paure, non lascia spazio alla logica del nazionalismo, della xenophobia, della guerra fratricida”.

    Nazionalismi che si stanno risvegliando minacciosi ultimamente anche nei Balcani. Attualmente lì si sta evidenziando una ripresa di azioni e di dichiarazioni che spingono verso un nazionalismo pericoloso. Soprattutto in un contesto geopolitico molto incandescente. Proprio in quei Balcani dove ancora sono fresche le piaghe causate dalla disintegrazione dell’ex Repubblica Socialista Federale della Jugoslavia.

    La regione balcanica è stata definita come la polveriera dell’Europa. Per capire meglio la fragile e preoccupante realtà balcanica, bisogna ricordare anche la presenza delle missioni militari di pace, come in Bosnia ed Erzegovina e in Kosovo. Ma nel sud del Kosovo, dal 1999, sono presenti anche militari statunitensi, in una loro propria base. Dall’altra parte, sono pubblicamente noti i buoni rapporti multidimensionali tra la Serbia e la Russia. Rimanendo nell’ambito di possibili alleanze militari, nel giugno scorso, riferendosi all’agenzia russa delle notizie TASS, si sono svolte nel sud della Russia (regione di Krasnodar) le esercitazioni tattiche congiunte chiamate “Fratellanza slava 2018”. Già il nome è un programma. Hanno partecipato la Russia, la Bielorussia e la Serbia, con delle truppe scelte di paracadutisti. La loro missione era quella di contrastare una presa del potere simulato, o un’insurrezione in uno Stato fittizio dell’Europa orientale. Queste manovre sono state svolte mentre la NATO effettuava una sua importante esercitazione navale.

    Un altro fatto merita di essere evidenziato, sempre nell’ambito delle mire geopolitiche delle grandi potenze nei Balcani. Nella primavera del 2018 si sono riattivati gli attriti tra la Serbia e il Kosovo, dopo gli episodi di violenza avvenuti a Mitrovica, nel nord del Kosovo. All’inizio di aprile del 2018, secondo credibili fonti mediatiche russe, c’è stata una telefonata tra il presidente russo Putin e quello della Serbia, Aleksandar Vučić. Sempre da quelle fonti mediatiche risulterebbe che Putin abbia rassicurato Vučić di non dubitare perché avrebbe inviato forze immediate se necessario. “Non lascerò senza difesa il mio partner e alleato più importante in Europa (la Serbia; n.d.a.)”! Mentre, riferendosi ai media serbi, risulterebbe che durante il colloquio telefonico, Putin abbia detto al suo omologo serbo che “Nell’eventuale tentativo, da parte delle forze speciali albanesi, di occupare la parte settentrionale del Kosovo, o di un nuovo pogrom contro i serbi, la Russia invierà immediatamente un significativo contingente militare”. Secondo gli analisti geopolitici specializzati, questo involverebbe l’invio di una brigata aerotrasportata russa con tutti i mezzi. Gli analisti ribadiscono che tutto ciò potrebbe essere possible, perché secondo la risoluzione ONU 1244, la Russia è una parte garante della “sicurezza” dell’ex provincia jugoslava (il Kosovo; n.d.a.). Ragion per cui Putin rassicurava il presidente serbo che “La Federazione Russa è pienamente impegnata nei confronti dei serbi del Kosovo, con tutti i mezzi, per difenderli da un possibile attacco”.

    Questo accadeva nell’aprile 2018. Mentre il 7 gennaio scorso, per testimoniare la solida alleanza tra la Russia e la Serbia, nonché la stima per il presidente serbo Aleksandar Vučić, Putin ha conferito a quest’ultimo il prestigioso premio “Alexander Nevsky”. Premio che testimonia anche i legami stretti tra i due paesi. Premio che, secondo gli osservatori, è stato conferito ad alcuni massimi dirigenti di paesi, dove non si rispettono i valori democratici. Perciò, il conferimento di questo premio prestigioso della Federazione Russa, allinea Vučić a fianco dei dirigenti di Turkmenistan, Tagikistan, Kirgizstan, Kazakistan e Bielorussia.

    In una simile realtà molto delicata geopolitica nei Balcani, dall’agosto scorso, una irresponsabile dichiarazione del presidente del Kosovo, sta agitanto molto le acque. Dichiarazione “strana e inaspettata” che riapre pericolosamente il capitolo di una nuova delimitazione dei confini tra il Kosovo e la Serbia, fatta su basi etniche. Dichiarazione che ha trovato subito vaste e trasversali forti reazioni contrarie, sia in Kosovo che in Albania. La maggior parte dei politici e degli opinionisti, in tutti e due i paesi, sono seriamente preoccupati di un simile inatteso sviluppo. Sviluppo considerato come pericoloso anche da molti noti media e opinionisti internazionali (Patto Sociale n.329).

    Mentre, durante una congiunta riunione dei governi dell’Albania e del Kosovo, il 26 novembre scorso a Peja (Kosovo), il primo ministro albanese è ritornato alle sue “minacce nazionalistiche”. Minacce che fa sempre quando si trova in difficoltà per via degli innumerevoli scandali. In quell’occasione lui ha espresso la sua convinzione sull’unione “del Kosovo con l’Albania nel 2025, con o senza l’Unione europea” (Patto Sociale n.335). Non solo, ma durante una conferenza stampa, lui ha considerato “somari” tutti coloro, in Kosovo e in Albania, che erano contro l’iniziativa [sopracitata] del presidente del Kosovo! Così facendo lui è uscito, per la prima volta, allo scoperto, in difesa della nuova delimitazione dei confini tra il Kosovo e la Serbia.

    Ma il 26 novembre scorso a Peja, il primo ministro albanese parlò, per la prima volta, anche di un inspiegabile rapporto strategico dell’Albania con la Serbia! Alcuni anni fa, appena diventato primo ministro, lui aveva dichiarato di considerare la Turchia come un alleato strategico, con tutte le seguenti conseguenze, ormai note a tutti. Il primo ministro albanese, senza batter ciglio, dichiarò che “il nostro rapporto con la Serbia è strategico e a lungo termine. L’Albania è determinata a costruire un’alleanza strategica con la Serbia”! Chissà se hanno ragione le cattive lingue, secondo le quali dietro tutto ciò c’è lo zampino di George Soros…

    Chi scrive queste righe valuta sia utile ricordare quanto ha detto il presidente francese François Mitterrand, durante il suo ultimo discorso, pronunciato al Parlamento di Strasburgo il 17 gennaio 1995. Egli disse, tra l’altro, che “era nato durante la prima guerra mondiale, aveva fatto la seconda guerra, per poi essere giunto alla conclusione, basandosi nella sua lunga esperienza di vita, che il nazionalismo è la guerra”. Allo stesso tempo, chi scrive queste righe condivide la convinzione di Luigi Pirandello, che in questi tempi nulla è più complicato della sincerità. Aggiungendo che nulla può essere più pericoloso dell’irresponsabilità di quelli che governano. Nei Balcani e altrove.

  • Che possano servire di lezione

    La coerenza è comportarsi come si è e non come si è deciso di essere.

    Sandro Pertini

    Un furbo derviscio era riuscito a convincere il sultano di sapere, in ogni momento, cosa faceva Dio. Il sultano, a sua volta, faceva quello che secondo il furbo derviscio facesse Dio. E ne andava fiero il sultano di quello che faceva. Un giorno chiese al patriarca di Costantinopoli se lui avesse qualcuno che sapeva cosa facesse Dio in ogni momento. E se no, allora il patriarca sarebbe stato decapitato. Disperato il patriarca ritornò nella sua dimora. Un diacono, vedendolo così disperato, gli chiese cosa aveva. Dopo aver saputo, il diacono lo tranquillizzò e gli chiese soltanto di portarlo con se presso il sultano. E così fu. Il sultano chiese al diacono se lui sapeva cosa faceva Dio in qualsiasi momento. Sì, rispose il diacono. Ma prima, siccome sono stanco e affamato, posso avere qualcosa da mangiare insieme con il derviscio? I servi portarono subito una grande tazza con latte e un pezzo di pane. Il diacono e il derviscio cominciarono a spezzettare il pane e mescolare i pezzi nel latte e si misero a mangiare. Subito il diacono diede una cucchiaiata sul naso al derviscio. Il sultano arrabbiato lo sgridò. Allora il diacono gli rispose: ma come mai, lui che sa in qualsiasi momento cosa fa Dio, non sa riconoscere i suoi bocconi dai miei? Il sultano, svergognato e umiliato, non poteva dire niente. Ordinò di uccidere il furbo derviscio e lasciò tranquillo il patriarca e il diacono. Questo racconta una vecchia fiaba con intelligente ironia. E dalle fiabe c’è sempre da imparare.

    La metafora di questa fiaba è sempre attuale. Purtroppo, e non di rado, anche le istituzioni dei singoli paesi e quelle internazionali sono soggette e patiscono dalle premeditate e spesso anche profumatamente “sponsorizzate” fandonie e bugie Non fanno eccezione nemmeno le istituzioni dell’Unione europea. Quanto sta succedendo, soprattutto negli ultimi anni, ne è una testimonianza. L’operato dei rappresentanti delle istituzioni europee, per la maggior parte nominati e non eletti, non sempre ha giustificato e onorato la fiducia data. Non a caso determinate decisioni delle istituzioni hanno provocato e continuano a provocare malcontenti e disappunti. Non a caso in diversi paesi dell’Unione sono nati e stanno avanzando i movimenti e/o i partiti politici euroscettici. E non a caso anche i tradizionali partiti, in diversi paesi europei, hanno perso e stanno perdendo consenso. Lo dimostrano chiaramente i risultati elettorali degli ultimi anni. Quanto sta succedendo dovrebbe essere un campanello d’allarme per tutti. Per i partiti e per le istituzioni locali e/o internazionali, ma soprattutto per i cittadini responsabili. Per quei cittadini che, con i loro voto, eleggono i propri rappresentanti, sia nazionali che nel Parlamento europeo. Rappresentanti che, a loro volta, scelgono e nominano i funzionari di tutti i livelli delle istituzioni dell’Unione europea. Compresi, anche e soprattutto, quelli della Commissione europea, le cui decisioni hanno un diretto impatto non solo nei singoli stati membri, ma anche oltre.

    Ragion per cui, le prossime elezioni per il Parlamento europeo rappresentano un avvenimento molto importante, visti anche gli sviluppi in altri singoli paesi e quegli geopolitici a scala mondiale, con tutte le loro conseguenze. Il Consiglio dell’Unione europea ha deciso, in maniera unanime, che le prossime elezioni si svolgeranno dal 23 al 26 maggio 2019. Si voterà in tutti i 27 stati membri dell’Unione per eleggere i rappresentanti del Parlamento europeo. Per la prima volta, dal 1979, non si voterà nel Regno Unito, dopo il referendum del 23 giugno 2016, per rimanere o uscire dall’Unione europea.

    Proprio domenica scorsa, dopo un vertice straordinario, il Consiglio europeo ha approvato all’unanimità l’accordo dell’uscita e delle relazioni future tra il Regno Unito e l’Unione europea. E tutto ciò è dovuto anche ad alcune determinate scelte e decisioni delle istituzioni europee nel corso degli anni che hanno scatenato il malcontento e la reazione dei cittadini del Regno. Una separazione che non è stata e non sarà facile. La frase del presidente Juncker, il quale riferendosi al sopracitato accordo, ha detto che “è un giorno triste. Non un momento di gioia ma una tragedia, perché un grande Paese lascia l’Unione europea”, rappresenta lo stato d’animo e la realtà attuale e futura. Realtà che metterà a dura prova anche la premier Theresa May e il suo governo. Nel frattempo rimane in bilico l’esito della votazione del Parlamento britannico sull’accordo raggiunto domenica scorsa a Bruxelles, visto che la May non ha la maggioranza per farlo approvare.

    Ma non è soltanto quanto è successo tra l’Unione europea e il Regno Unito, quello che dovrebbe far riflettere seriamente e con la massima responsabilità tutti, sia i rappresentanti politici e istituzionali, che i cittadini. Basta pensare ai risultati elettorali nei diversi singoli paesi dell’Unione. L’avanzata dei partiti e dei movimenti euroscettici e populisti è un segnale da prendere seriamente in considerazione. E non soltanto con delle “belle parole”, bensì con delle scelte responsabili, anche se difficili. Scelte che dovrebbero mirare quanto avevano ideato con chiarezza e lungimiranza i Padri Fondatori circa settant’anni fa. Scelte che dovrebbero far diventare l’Unione europea, tra l’altro, anche portatrice dei valori fondamentali dell’umanità. Scelte che dovrebbero far pensare due volte, prima di agire, determinati alti rappresentanti delle istituzioni europee. Scelte che dovrebbero ostacolare e condannare comportamenti irresponsabili e, peggio ancora, comportamenti “profumatamente sponsorizzati” da interventi occulti e contro gli interessi dei singoli paesi. Sia di quelli membri dell’Unione che di quelli che ambiscono a diventare tali.

    Il caso dei paesi balcanici ne è un eloquente e significativo esempio. Come lo sono, fatti alla mano, alcuni determinati comportamenti di certi alti rappresentanti delle istituzioni europee, la Commissione in primis. Con il loro operato, hanno clamorosamente fallito in Macedonia, anche ultimamente con il referendum per il nome. Hanno fallito con le trattative tra la Serbia e il Kosovo, soprattutto appoggiando il progetto della revisione delle frontiere tra i due paesi. Ma hanno fallito vistosamente e altrettanto clamorosamente in Albania, chiudendo gli occhi e permettendo la diffusa cannabizzazione del paese, la galoppante corruzione e tanto altro. Lo hanno fatto ripetutamente con le loro irresponsabili e sponsorizzate dichiarazioni sia Federica Mogherini, l’Alto rappresentante dell’Unione per gli Affari Esteri e la Politica di Sicurezza, che Johannes Hahn, Commissario per la Politica di Vicinato e i Negoziati per l’Allargamento. E lo hanno fatto, mentre i rapporti ufficiali delle istituzioni specializzate, comprese anche quelle della Commissione europea, affermavano l’opposto contrario (Patto Sociale n.292; 304; 318;321 ecc.).

    Chi scrive queste righe auspica che quanto sia successo ultimamente in diversi paesi dell’Europa possa e debba servire di lezione. Egli, altresì, avrebbe veramente preferito che l’inqualificabile comportamento di alcuni alti rappresentanti dell’Unione fosse dovuto semplicemente alla leggerezza di credere ai loro consiglieri. Perché, per lo meno, non si sarebbero trovati, in seguito, nelle pietose condizioni del sultano mentito dal suo furbo derviscio.

  • Despoti che scappano

    E sai perché non trovi sollievo nella fuga?
    Perché mentre fuggi ti porti sempre dietro te stesso.

    Lucio Anneo Seneca

    Dopo aver governato per dieci anni con il pugno di ferro la Macedonia (27 agosto 2006 – 18 gennaio 2016), dall’8 novembre scorso l’ex primo ministro è in fuga. Tutto ciò accadeva  soltanto poco prima d’essere stato accompagnato in carcere, dalla sua abitazione in Scopie. Abitazione di fronte alla quale c’erano sempre agenti delle truppe speciali, sue guardie del corpo e sua scorta. Ma nessuno ha visto e/o sentito niente. Condannato a due anni per corruzione e abuso di potere, e in attesa di altri probabili processi giudiziari, Nikola Gruevski, con il passaporto ormai confiscato, è riuscito comunque a scappare. Non si sa se di nascosto oppure con qualche “copertura occulta”. Da sottolineare che il mandato di cattura internazionale per Gruevski è stato rilasciato soltanto il 13 novembre scorso dalle autorità macedoni, mentre da cinque giorni risultava irreperibile. Sono tante le riflessioni che si possano fare, riferendosi al mancato controllo e alla fuga. Una, per esempio, potrebbe essere: a chi gioverebbe la fuga di Gruevski? Non è che forse, con Gruevski non più in Macedonia, si eliminerebbe una seria e presente preoccupazione per l’attuale primo ministro macedone e per altri politici locali?! Forse.

    Nella sua ben organizzata fuga, prima è entrato in Albania, ma non si sa dove e quando questo sia avvenuto. Perché non risulta registrato in nessuno dei punti di controllo di frontiera tra l’Albania e la Macedonia. Si sa però che è uscito dall’Albania, viaggiando con una macchina di proprietà dell’ambasciata ungherese a Tirana e usando una carta d’identità. Da un comunicato stampa della polizia albanese, risulta che Gruevski ha lasciato il territorio albanese per entrare in quello del Montenegro, l’11 novembre 2018 alle ore 19.11. In più si sa anche la targa della macchina diplomatica con la quale viaggiava. La fuga dell’ex primo ministro macedone è continuata poi nel territorio montenegrino, dal quale risulta essere uscito lo stesso giorno. Ma anche in questo caso, da notizie e indiscrezioni mediatiche, risulterebbero alcuni elementi, tipici dei film polizieschi e di spionaggio.

    La meta prestabilita, almeno per il momento, della fuga di Gruevski sembra essere l’Ungheria. E non a caso. Si sa pubblicamente che tra lui e il presidente Orban ci siano da tempo buoni rapporti di amicizia e di sostegno reciproco. Lo scorso 13 novembre sembra che Gruevski abbia postato un messaggio su Facebook, dichiarando che si trovava a Budapest, in attesa dell’asilo politico. La sua presenza in Ungheria la conferma una dichiarazione di un alto rappresentante del governo ungherese. Dalla dichiarazione risulta che le autorità ungheresi “hanno permesso a Gruevski di consegnare ufficialmente la richiesta di asilo e hanno sentito il suo ragionamento presso gli uffici per la Migrazione e Asilo a Budapest”. In più, nella dichiarazione si conferma che le autorità ungheresi tratteranno la richiesta e che la valuteranno “in accordo con le leggi ungheresi e quelle internazionali”. Sempre nella sopracitata dichiarazione si sottolinea che le autorità ungheresi non interverranno nelle questioni interne dei paesi sovrani, considerando perciò che “la valutazione della richiesta d’asilo per l’ex primo ministro (Gruevski; n.d.a.) sarà trattata soltanto per l’aspetto giuridico”. Nel frattempo, i rappresentanti dell’ambasciata ungherese in Albania non hanno accettato di commentare il perché dell’accompagnamento di Gruevski al passaggio di frontiera con il Montenegro, con una macchina diplomatica, insieme con uno o due impiegati dell’ambasciata.

    Una storia di fuga quella, che ha avuto l’attenzione mediatica internazionale in questi ultimi giorni. Ovviamente, come accade in simili casi, non mancano neanche le speculazioni e le false notizie. Ma comunque sia, si sa con certezza ormai che Gruevski è fuggito dalla Macedonia, dove doveva scontare una condanna di due anni di carcere per corruzione e abuso di potere legata all’acquisto di una macchina per circa 600.000 Euro. Si sa anche che su di lui gravano pure altre accuse di corruzione, di malgoverno ecc., e che la giustizia doveva determinare la veridicità. Accuse che si basano su fatti evidenziati e documentati. Scappando, lui, in qualche modo, ha ammesso la sua colpevolezza. Da indiscrezioni mediatiche risulterebbe anche che, da settembre scorso, Gruevski abbia provveduto a ritirare tutta la liquidità dai sui depositi bancari.

    L’ex primo ministro in fuga ha dominato la scena politica macedone in questi ultimi dodici anni. Ma la sua carriera politica comincia nel 1996, come consigliere locale a Scopie, per poi diventare ministro del Commercio nel 1998 e, un anno dopo, ministro delle Finanze. All’inizio della sua attività politica e governativa non era lo stesso che diventò in seguito. O, perlomeno, così appariva. È stato lui che ha avviato la riforma della deregolamentazione dell’economia, chiedendo anche la tassa sul valore aggiunto, la tassa piatta e la restituzione delle proprietà sequestrate durante il periodo del comunismo. All’inizio ha avuto un vasto consenso elettorale, non solo dai macedoni, ma anche dagli albanesi in Macedonia, che rappresentano circa il 25% della popolazione. Poi, nel 2015, ha cominciato il suo inarrestabile declino. Tutto dovuto alla pubblicazione di migliaia di intercettazioni telefoniche, da parte del suo avversario, l’attuale primo ministro macedone. Intercettazioni che testimoniavano degli abusi clamorosi del potere, delle diffusa corruzione, delle continue manipolazioni delle elezioni ecc. (Patto Sociale n.257).

    Il caso Gruevski però rappresenta più che un caso personale. Rappresenta un fenomeno, almeno regionale. Politici ai vertici del potere, onnipotenti, autocrati, spesso arroganti, ma comunque corrotti e coinvolti in chissà quanti scandali, si trovano attualmente anche in altri paesi della regione balcanica, come in Kosovo e in Serbia, ma soprattutto come in Albania.

    La continua e consapevole violazione della Costituzione e delle leggi sono purtroppo, fatti alla mano, una costante del modo di pensare e di agire del primo ministro albanese. La corruzione radicata e diffusa, la connivenza con la criminalità organizzata e l’uso di quest’ultima per garantire il condizionamento e la manipolazione del risultato elettorale, sono soltanto alcune delle gravi e allarmanti realtà vissute quotidianamente in Albania.

    Chi scrive queste righe è convinto che, in confronto a Gruevski, il primo ministro albanese ha molte più colpe e perciò, anche molte più ragioni per fuggire. E forse verrà, auguratamente, un giorno che lo faccia. Ma se ancora non lo ha fatto è perché il sistema della giustizia, tutto il sistema, è ormai da circa un anno, totalmente controllato da lui. Perciò il primo ministro non può indagare e condannare se stesso. Soltanto la rivolta popolare può salvare l’Albania e gli albanesi da un despota peggio di Gruevski. Ma prima però, bisogna costituire una vera, consapevole, determinata e attiva opposizione. Non come quella attuale, semplicemente di facciata, incapace e che facilita le malefatte del primo ministro. Un’opposizione che fa ridere anche i polli.

  • Accordi peccaminosi

    Non vendere il sole per acquistare una candela.
    Proverbio ebraico

    La questione dei confini tra l’Albania e la Grecia è stata trattata, all’inizio, dalla Conferenza degli Ambasciatori a Londra del 30 maggio 1913 e successivamente dal Trattato di Bucarest del 13 agosto 1913. L’autorità internazionale dell’Albania in quel periodo era quella di un paese che aveva proclamato la sua indipendenza dall’Impero Ottomano soltanto il 28 novembre 1912.
    Da quegli accordi il territorio dove vivevano storicamente gli albanesi è stato diviso ingiustamente a favore della Serbia e della Grecia. Una situazione questa contestata dai rappresentanti albanesi nelle capitali europee. Ad onor del vero, in quel periodo il nascente Stato albanese, tra l’altro, continuava ad essere succube anche dei contrasti e degli scontri interni tra i diversi capi clan che controllavano il territorio. Il che ha indebolito molto la voce delle delegazioni albanesi nelle sedi internazionali. Anche il Trattato di Versailles, sottoscritto il 28 giugno 1919 ed entrato in vigore il 10 gennaio 1920, non ha reso giustizia alla separazione di molti territori albanesi da quello della madre patria, per “ragioni geopolitiche”.
    Nel periodo tra le due guerre mondiali i confini tra l’Albania e la Grecia sono stati oggetto di dibattiti e trattative a livello internazionale. La decisione definitiva per la delimitazione dei confini tra i due paesi ha trovato espressione nel Protocollo di Firenze delle grandi potenze del 27 gennaio 1925. In seguito, il 30 luglio 1926 a Parigi, la Conferenza degli Ambasciatori delle grandi potenze ha sancito definitivamente e unanimemente tutti i confini tra l’Albania e la Grecia. La decisione presa dalla Conferenza degli Ambasciatori era obbligatoria per le parti. Nonostante i rappresentanti dei due paesi avessero delle obiezioni per la delimitazione dei confini, l’Accordo di Parigi è stato firmato e, in seguito, rispettato sia dall’Albania che dalla Grecia. Gli Atti Ufficiali che delineavano i confini tra i due paesi, una volta firmati, sono diventati incontestabili e obbligatori. Quegli Atti sono stati depositati, all’inizio, presso la Lega delle Nazioni e dal 1945, presso l’Organizzazione delle Nazioni Unite. Quanto previsto e definito in quegli Atti è stato rispettato dalle parti e non sono state mai espresse ufficialmente e in sede internazionale rivendicazioni territoriali dai diretti interessati. Questo fino ai primi anni 2000.
    Era proprio il periodo in cui sono state effettuate perforazioni sulle piattaforme marine per cercare probabili giacimenti petroliferi e definire le loro potenzialità. Dallo studio dei dati elaborati, risulterebbe che sotto la piattaforma marina albanese, al confine con quella greca, potrebbero esserci buone probabilità di trovare ricchi giacimenti di petrolio e/o di gas. Ragion per cui la diplomazia greca si mise subito in moto per trovare dei motivi e aprire un “Caso marino bilaterale” tra la Grecia e l’Albania. Un compito non difficile, visto anche che non sempre la controparte albanese era allo stesso livello come esperienza, professionalità e altro. Il che ha facilitato l’abile diplomazia greca a trovare, tecnicamente, un modus vivendi e portare le trattative per i contenziosi relativi alla delimitazione dei confini marini, dalla sede legale internazionale, come prevedevano gli Atti Ufficiali sanciti dalla Conferenza degli Ambasciatori delle grandi potenze il 30 luglio 1926 a Parigi, ad una sede bilaterale tra i due paesi. La parte albanese ha acconsentito. Musica per le orecchie dei greci.
    Nell’arco di pochissimi anni le delegazioni dei due paesi hanno negoziato insieme un accordo bilaterale sulla delimitazione del confine marino. Il 27 aprile 2009 a Tirana è stato firmato l’Accordo tra la Repubblica d’Albania e la Repubblica di Grecia per la “Delimitazione delle loro rispettive zone della piattaforma continentale sottomarina e delle altre zone marine, che a loro appartengono in base al diritto internazionale”. Quell’Accordo è stato contestato fortemente allora in Albania dall’opposizione, capeggiata dall’attuale primo ministro. La questione arrivò alla Corte Costituzionale, la quale il 15 aprile 2010 decretò l’anticostituzionalità dell’Accordo e proclamò la sua nullità. Nonostante ciò, la diplomazia greca ha continuato a fare pressione perché la parte albanese continuasse a rispettare il sopracitato Accordo, tenendo sempre aperto il “Caso marino” tra i due paesi. Trattative che sono state riprese, in modo del tutto non trasparente e in palese violazione della sopracitata decisione della Corte Costituzionale, e sono state molto attive da un anno a questa parte. Le cattive lingue dicono che tutto era dovuto alla disperata situazione in cui si trovava il primo ministro albanese. Lui cercava di trovare, a tutti i costi, l’apertura dei negoziati, come paese candidato, per l’adesione dell’Albania all’Unione europea. La Grecia poteva mettere il veto contro. Come da anni sta facendo con la Macedonia. La grande fretta per concludere il “Caso marino” potrebbe dare ragione alle cattive lingue. Anche perché simili contenziosi tra paesi sui confini non mancano. Neanche nei Balcani. Sono almeno tre e tutti e tre durano da almeno una ventina d’anni. Mentre il caso tra l’Albania e la Grecia è stato “risolto” in quattro e quattr’otto! Basta riferirsi al caso tra la Slovenia e la Croazia e quello tra la Romania e la Bulgaria. Quest’ultimo per una piccola area di mare, con sotto il petrolio. Molto aspro è anche il contenzioso tra la Turchia e la Grecia, sempre per alcune aree marine sul mar Egeo. Anche in questo caso, la presenza dei giacimenti petroliferi sottomarini sembra sia la vera ragione dei disaccordi.
    Le inattese dimissioni del ministro degli Esteri greco hanno riportato a galla non poche gravi problematiche. Compresa anche quella del “Caso marino” e il rispettivo accordo tra l’Albania e la Grecia. Alcuni giorni dopo le sue dimissioni, l’ex ministro degli Esteri greco si vantava che dopo 75 anni, in pieno accordo con l’attuale ministro albanese degli Esteri, hanno “allargato il confine [marino] della Grecia”. Senza più vincoli istituzionali, il ministro dimissionario greco ha cominciato a dire delle verità tenute segrete fino ad ora. Chissà perché! Forse per mettere in imbarazzo anche il suo “amico” primo ministro Tzipras.
    Immediate sono state le reazioni in Albania. Ma anche e soprattutto in Turchia. Il 23 ottobre scorso il ministro turco degli Esteri dichiarava che ogni tentativo della Grecia “per allargare la sua linea marina, nello Ionio o nell’Egeo, rappresenterà [per la Turchia; n.d.a.] un Casus belli”. È bastata questa dichiarazione e la reazione statunitense, per costringere Tzipras, subito dopo, a ritirarsi, per il momento, dalle sue pretese. Il che riguarda anche il “Caso marino” con l’Albania. Tutto è da vedere!
    Nel frattempo un’altra e inattesa dimissione, questa volta in Albania, ha suscitato molte reazioni. Sabato scorso si è dimesso il ministro degli Interni. Un nuovo caso che produrrà, forse, altri inattesi sviluppi.
    Chi scrive queste righe tratterà il caso la prossima settimana. Egli però è convinto che colui che si dovrebbe dimettere è proprio il primo ministro. Lo doveva fare da tempo, ma probabilmente non lo farà neanche adesso. Le cattive lingue dicono che non glielo permette la criminalità organizzata. Lo doveva sapere. Il peso degli accordi peccaminosi spesso ti schiaccia!

  • Un buffone non può diventare re

    Chi si aspetta che nel mondo i diavoli vadano in giro con le corna e
    i buffoni coi sonagli, sarà sempre loro preda e il loro zimbello.

    Arthur Schopenhauer

    Il 6 luglio 2018 a Londra, durante la riunione del consiglio dei ministri, la premier britannica Theresa May ha presentato il suo programma della “Linea morbida sulla Brexit”. Programma che era stato pubblicato un giorno prima come “Libro Bianco” (White Paper). Un programma che non poteva essere condiviso e approvato da alcuni importanti membri del suo governo, ben noti come euroscettici.

    Il 9 luglio scorso le agenzie britanniche dell’informazione, e poi tutte le altre, diffondevano due notizie importanti. Di mattina presto veniva pubblicamente confermato che il ministro per la Brexit David Davis aveva rassegnato le sue dimissioni. Nel primo pomeriggio è arrivata l’altra notizia importante, quella delle dimissioni del ministro degli Esteri Boris Johnson. Tutti e due, da tempo, non condividevano il modo con il quale la premier Theresa May voleva trattare i futuri rapporti tra la Gran Bretagna e l’Unione europea.

    Un giorno dopo, e cioè il 10 luglio e sempre a Londra, in una simile scombussolata situazione politica britannica, si è svolto il vertice, ad alto livello, dei rappresentanti delle istituzioni dell’Unione europea e di alcuni Stati dell’Unione, con i rappresentanti dei sei paesi dei Balcani occidentali. Un vertice, nell’ambito di quello che ormai è ufficialmente noto come il Processo di Berlino, per l’allargamento dell’Unione europea con i paesi balcanici. Il momento però, non è stato per niente appropriato. Anche per il semplice fatto che colui il quale doveva dare formalmente il benvenuto agli ospiti, cioè il ministro Johnson, un giorno prima aveva rassegnato le dimissioni. Un fatto, di per se, molto significativo. Sembrava quasi surreale e grottesco parlare di allargamento a Londra. Proprio lì, dove un giorno prima due importanti ministri avevano rassegnato le loro dimissioni perché non credevano più nella bontà dell’Unione europea, nonché nelle sue istituzioni e politiche. Mettendo così in primo piano l’eurosetticismo e offuscando il vero obiettivo del vertice. Il caso ha voluto che si doveva parlare d’allargamento, nell’ambito del Processo di Berlino, proprio nella capitale di uno Stato il quale, a fine marzo 2019, non farà più parte dell’Unione europea, in seguito al referendum del 23 giugno 2016 sulla Brexit. Perché, comunque sia, non si può non pensare ormai che la Gran Bretagna rappresenti più un paese che possa credibilmente sostenere la causa dei Padri Fondatori dell’Unione europea. Sono stati questi significanti simbolismi, che non potevano ispirare per niente ottimismo. Ragion per cui non dovrebbe essere stata sentita bene neanche la premier May, durante il sopracitato vertice, quando dichiarava che “La Gran Bretagna si sta allontanando dall’Unione europea” ma che comunque rispetterà “le responsabilità che ha per i paesi balcanici”.

    Il 13 luglio scorso a Londra è arrivato il presidente statunitense Donald Trump, una visita che non è stata per niente facile e, men che meno, amichevole. Visita durante la quale non sono mancati gli incontri imbarazzanti e le dichiarazioni provocatorie. In un’intervista rilasciata al noto quotidiano britannico “The Sun”, il presidente Trump apprezzava il dimissionario ministro degli Esteri Boris Johnson, convinto che lui “sarebbe un ottimo primo ministro”. Una sfida aperta alla premier May, con la quale si è incontrato in seguito. Ma anche la May non è rimasta a bocca chiusa. Dopo l’incontro con il presidente statunitense, lei, “maliziosamente”, ha rivelato alla BBC: “Mi ha detto che dovrei citare in giudizio l’Unione europea, non negoziare con loro, [ma] denunciarli”.

    Il presidente Trump era arrivato a Londra da Bruxelles, dopo il vertice NATO (11 – 12 luglio). Anche in quel vertice non sono mancate le minacce, le provocazioni e le dichiarazioni “forti”. Alcune delle quali “aggiustate” e “convenzionalmente ammorbidite” in seguito. Come quella del presidente Trump “di uscire dalla NATO” se gli alleati non dovessero rispettare le spese militari richieste dagli Stati Uniti. Secondo l’agenzia Associated Press, Trump avrebbe detto però, in un altro momento, che “gli Alleati della NATO abbiano deciso di aumentare le spese per la difesa oltre i precedenti obiettivi”. Affermazione contraddetta subito dal presidente francese Macron, secondo il quale non c’è stato “nessun accordo sull’aumento delle spese militari”. Per poi arrivare alle posizioni finali degli alleati. Queste sono state soltanto alcune discrepanze e contrarietà verificate e rese pubbliche mentre si svolgeva il vertice NATO a Bruxelles.

    Nello stesso periodo anche il primo ministro albanese, nelle sue vesti istituzionali, era presente in due dei sopracitati vertici. Era presente al vertice di Londra, nell’ambito del Processo di Berlino per l’allargamento dell’Unione europea con i paesi balcanici. Era presente anche al vertice NATO a Bruxelles. Considerando sia il clima in cui sono stati svolti questi vertici, che l’importanza e l’impatto reale sui futuri sviluppi politici e geopolitici nei singoli paesi e a livello internazionale, allora si potrebbe facilmente immaginare la posizione ed il “ruolo” del primo ministro albanese in simili avvenimenti. Sia per il peso dell’Albania nella movimentata schacchiera internazionale, sia per altri, ormai pubblicamente noti motivi, anche a livello internazionale e per niente positivi. Per queste ovvie e comprensibili ragioni il primo ministro albanese si è trovato completamente trascurato da tutti, sia a Londra, che a Bruxelles. Il che per lui rappresenta un’enorme sofferenza. Perché, discreditato ormai in patria, cerca disperatamente “sostegni” internazionali. Non importa come e a quale prezzo. Anche perché le scelte si riducono sempre di più. Mentre la realtà politica e sociale albanese si aggrava ogni giorno che passa, riconoscendo in lui il principale responsabile, con tutte le probabili conseguenze.

    A fatti compiuti, risulterebbe, con ogni probabilità, che l’unico obiettivo della presenza del primo ministro albanese, sia a Londra che a Bruxelles, è stato quello di “strappare” almeno un sorriso e/o, magari, una stretta di mano di quelche “pezzo grosso” internazionale e fissare tutto in qualche fotografia. Poco importava se, così facendo, poteva diventare lo zimbello di tutti. Non a caso, commentando la fotografia ufficiale del sopracitato vertice di Londra, la BBC, con la solita ironia britannica, annotava che “qualcuno aveva dimenticato le scarpe”. Si riferiva alle scarpe da tennis bianche che portava il primo ministro albanese. Poco importava per lui, se per realizzare il suo unico obiettivo, poteva sembrare un mendicante che elemosinava un sorriso, una stretta di mano di passaggio, da immortalare subito in una fotografia. Buffonate del genere si fanno soltanto quando uno si trova in serie difficoltà di sopravvivenza.

    Chi scrive queste righe è convinto che il primo ministro albanese, dopo aver causato tanto male in patria, sta cercando disperatamente di fare il buffone all’estero, per ottenere qualsiasi supporto propagandistico. Egli, condividendo la saggezza popolare, secondo la quale un asino resta sempre un asino anche se lo ricopri d’oro, rimane altresì convinto che un buffone non può diventare re.

  • Spudorate menzogne sparse come verità

    Un bugiardo è sempre prodigo di giuramenti

    Pierre Corneille

    Se bisogna usare una sola parola per caratterizzare il modo di governare in Albania dal 2013 in poi, quella parola è la menzogna. Mentire in continuazione è stata una scelta obbligata, nell’incapacità di fare altrimenti. Hanno cominciato con le promesse elettorali più di cinque anni fa, per poi proseguire senza sosta. Sempre consapevoli di quello che facevano. Hanno però trascurato un semplice ma fondamentale fatto, come l’esperienza secolare ci insegna. E cioè che se tutto si fonda sulla bugia, sulle false apparenze, allora si devono inventare sempre delle nuove bugie, per giustificare le precedenti. Così facendo si entra in un circolo vizioso, dal quale non se ne può più uscire. Quello che è successo in Albania durante questi ultimi cinque anni ne è un’eloquente conferma. L’ultima testimonianza, quella di questi giorni, riguarda proprio quanto sta accadendo dopo la decisione dei ministri degli Esteri dell’Unione europea, il 26 giugno scorso a Lussemburgo.

    Oltre alle serie preoccupazioni legate allo spinoso problema dei profughi, i ministri dovevano decidere anche sull’allargamento dell’Unione europea con i paesi balcanici. Nel caso dell’Albania era da decidere se aprire o meno i negoziati, come paese candidato, per l’adesione all’Unione. Una decisione che doveva rispettare le posizioni dei singoli paesi, nonché la vissuta realtà albanese. Posizioni che erano divise e rappresentavano due gruppi diversi. L’Olanda, la Danimarca e la Francia erano convintamente contrari all’apertura dei negoziati. Mentre altri paesi ritenevano che aprendo i negoziati, si poteva controllare meglio la situazione, aiutando a risolvere i problemi. La decisione finale sembra sia stata “un compromesso doloroso e sofferto”, tenendo presenti anche altri problemi intrinseci attuali dell’Unione e dei singoli paesi membri. Germania compresa.

    Ma nonostante le divergenze, i ministri degli Esteri dell’Unione sembra siano stati concordi sul fatto che l’Albania non abbia esaudito ancora le condizioni preposte dalle istituzioni europee. Alla fine, la decisione per l’Albania non è stata quella tanto ambita e sbandierata dal primo ministro albanese, e cioè non è stata decisa l’apertura immediata e senza condizioni dei negoziati. Non è stata prestabilita neanche una data concreta. E comunque non si deciderà prima del Consiglio europeo del dicembre 2019 e soltanto dopo attente verifiche dell’adempimento di tutte le condizioni poste. Ma adesso le condizioni non sono più cinque come prima, ma bensì tredici! Anche questo fatto è, di per se, molto significativo. Con un primo comunicato ufficiale via Twitter è stato reso noto che l’Albania “ha bisogno di ulteriore progresso con la riforma della giustizia, la lotta contro la corruzione, [e] la criminalità organizzata” (Albania: Further progress on judicial reform, fight against corruption, organized crime needed.#EUenlargement #Enlargement).

    Chissà come si sono sentiti anche alcuni alti rappresentanti della Commissione europea. Proprio quelli che, non avendo constatato quanto sopra, gioivano il 17 aprile scorso, insieme con il primo ministro albanese. Perché avevano raccomandato al Consiglio europeo “l’apertura immediata e senza condizioni” dei negoziati con l’Albania!

    Nel documento ufficiale reso pubblico dopo la riunione del 26 giugno scorso dei ministri degli Esteri dell’Unione, i paragrafi 45–54 riguardavano l’Albania. Oltre a quanto sopracitato, è stato stabilito anche che “La decisione per l’apertura dei negoziati con l’Albania verrà sottoposta [anche] alle procedure parlamentarie nazionali”. Cioè alla votazione nei parlamenti dei singoli paesi dell’Unione. Una novità questa, mai adottata prima, come espressione della gravità della situazione. Soltanto dopo il parere positivo dei parlamenti nazionali e dopo l’approvazione del Consiglio europeo, secondo il sopracitato documento ufficiale “si proseguirà con una prima conferenza intergovernativa, a seconda dei progressi attuati”. Progressi che riguarderanno, d’ora in poi, l’adempimento di tredici condizioni, invece di cinque. Sono delle condizioni dettagliate, che riguardano la lotta contro la corruzione, la criminalità organizzata, la coltivazione e il traffico illecito delle droghe. Ci sono addirittura sette condizioni sulla riforma della giustizia, nonché condizioni sullo Stato del diritto e sulla riforma elettorale.

    In realtà, durante il vertice del Consiglio europeo a Bruxelles (28–29 giungo scorso), non è stato discusso l’allargamento dell’Unione, come lo dimostrava anche l’agenda pubblicata sul sito ufficiale. Perciò, in questo caso, sono state semplicemente adottate le decisioni prese dai ministri degli Esteri dell’Unione a Lussemburgo, il 26 giugno 2018.

    Decisioni che hanno messo in grande imbarazzo il primo ministro albanese. Proprio lui che aveva considerato l’apertura immediata e senza nessuna condizione dei negoziati una cosa fatta. E come suo solito, anche in questo caso, ha scelto di mentire, di manipolare la verità. Lui e la sua ben organizzata propaganda, arrampicandosi sugli specchi, hanno cercato, e lo stanno facendo tuttora, di “ammorbidire” l’effetto della decisione presa il 26 giugno scorso a Lussemburgo. Il primo ministro e i suoi stanno tentando adesso di far passare come un successo proprio il contrario di quello che sostenevano fortemente fino ad alcuni giorni fa. Bel coraggio e bella faccia tosta! Aveva ragione Corneille: un bugiardo è sempre prodigo di giuramenti.

    Adesso stanno cercando di manipolare la verità, seguendo due line propagandistiche parallele. La prima, leggendo e commentando diversamente quanto è stato scritto nel sopracitato documento ufficiale. La seconda, cercando di dare la colpa agli altri, “nemici interni e stranieri”, per aver condizionato la decisione presa. E cioè la decisione contraria a quella ambita e desiderata fortemente dal primo ministro albanese. Ma sono talmente disorientati e in difficoltà che non si preoccupano, o non riescono a capire la palese contraddizione logica tra le loro dichiarazioni. Perché o la decisione dei ministri degli Esteri dell’Unione “è stata un successo”, come sostiene il primo ministro, oppure quella decisione “è un fallimento per il governo albanese”, causata da “interventi minatori”. O l’una o l’altra. Ma non tutte e due insieme. Nel frattempo non hanno smentito le aspettative neanche le dichiarazioni di certi ambasciatori in Albania, da tempo sostenitori, e spesso anche portavoce, del primo ministro. La saggezza umana ci insegna però, che è molto difficile per un colpevole ammettere la sua colpa.

    Chi scrive queste righe è stato sempre convinto che non si potevano e, soprattutto, non si dovevano aprire adesso, in queste condizioni, i negoziati per l’Albania come paese candidato all’adesione nell’Unione europea. Il lettore de “Il Patto Sociale” ne è testimone. Egli è altresì convinto che l’attuale governo albanese non potrà mai esaudire le nuove, aumentate e molto severe condizioni poste il 26 giugno scorso a Lussemburgo dai ministri degli Esteri dell’Unione europea. L’adesione, quando sarà, dovrà essere soltanto per meriti e per nient’altro! Non si potrà mai aderire nell’Unione con delle spudorate menzogne sparse come verità.

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