Banche

  • Asia meridionale, grave crisi

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi apparso su ‘ItaliaOggi’ il 24 giugno 2023

    Quasi tutti i paesi vicini all’India (Pakistan, Sri Lanka, Bangladesh e Nepal) stanno affrontando problemi delle loro bilance dei pagamenti. Il Bangladesh fatica a pagare le sue importazioni di carburante, a causa della carenza di dollari Usa. Lo Sri Lanka è già venuto meno ai suoi impegni internazionali e il Pakistan è sull’orlo dell’inadempienza. Oltre allo shock dei prezzi delle materie prime, causato solo in parte dalla guerra in Ucraina, il vero fattore scatenante è dovuto alle politiche sui tassi di cambio, sia a seguito delle decisioni monetarie della Federal Reserve, sia per quelle prese dai paesi in questione. Com’è noto, un aumento dei tassi d’interesse in Usa ha come effetto la svalutazione delle monete dei paesi emergenti e induce alla fuga dei capitali.

    I tassi di cambio della rupia pakistana, della rupia dello Sri Lanka (Slr) e del taka bengalese sono stati mantenuti a lungo fissi rispetto al dollaro. Tutti e tre i paesi importano carburante, cibo e fertilizzanti e, resistendo alla svalutazione e mantenendo un tasso di cambio “forte”, hanno tenuto bassi anche i prezzi delle merci importate. Contemporaneamente, però, un tasso di cambio artificialmente forte rende le esportazioni non competitive e non è sostenibile nel tempo.

    Questi paesi hanno un’altra esportazione: il lavoro umano. L’Asia meridionale (inclusa l’India) è una delle principali fonti di migrazione di manodopera (circa 43 dei 164 milioni di migranti a livello globale) e, di conseguenza, destinataria di rimesse. E’ una questione che interessa anche l’Italia, poiché circa 800 mila lavoratori immigrati provengono da queste regioni. La Banca Mondiale stima che nel 2023 il 20% degli 815 miliardi di dollari di rimesse globali proverrà da cittadini asiatici (Cina esclusa) che lavorano all’estero. Si rileva che nel 2021 le rimesse, pari a 157 miliardi di dollari, erano tre volte gli investimenti esteri diretti in quella regione asiatica.

    Le rimesse in entrata hanno permesso ai paesi dell’Asia meridionale di mantenere tassi di cambio “forti”, contro le realtà del mercato. Di fatto essi hanno due tassi di cambio: uno “ufficiale” e uno “di mercato” che riflette la svalutazione. I lavoratori che inviano denaro tramite canali bancari devono utilizzare il tasso ufficiale. Quando la divergenza tra i due tassi diventa troppo ampia, com’è accaduto negli ultimi due anni, le rimesse iniziano a diminuire. Un divario ampio e prolungato tra il tasso di cambio ufficiale e quello di mercato porta all’uso di altri canali informali per il trasferimento di soldi da parte dei lavoratori.

    Il caso dello Sri Lanka è emblematico. Nella seconda metà del 2021 le rimesse in entrata sono state di 2,1 miliardi di dollari, in calo di quasi il 50% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Lo Sri Lanka ha un’emigrazione di oltre 1 milione di lavoratori, molti dei quali hanno smesso di utilizzare i canali ufficiali, rendendo il default più probabile. All’inizio del 2022, il tasso di cambio ufficiale era di circa 200 Slr per un dollaro, mentre il tasso di mercato era superiore di oltre il 20%. Alla fine, dopo il default, ci vogliono 360 rupie per un dollaro.

    La rupia pakistana, che è scesa di oltre il 40% rispetto al dollaro Usa nel 2022, è ancora scambiata sul mercato aperto con uno sconto rilevante rispetto al tasso di cambio ufficiale. Per preservare le sue magre riserve valutarie, il Pakistan ha ridotto le importazioni, costringendo alcune industrie a chiudere con un danno per la sua economia. Le esportazioni pakistane sono diminuite del 19% durante il trimestre gennaio-marzo 2023. Anche le rimesse in entrata verso il Pakistan hanno subito un duro colpo. Durante i primi 10 mesi dell’anno scorso, le rimesse sono diminuite del 13%. Le riserve valutarie sono al lumicino e il default è ormai una questione di tempo.

    Il Bangladesh ha intrapreso un’azione correttiva poiché le sue riserve monetarie hanno iniziato a precipitare già nel 2022, ma erano ancora a un livello decente di 35 miliardi di dollari. Ha contrattato con il Fmi un pacchetto di salvataggio recentemente approvato. Il Bangladesh ha dovuto svalutare la sua valuta di quasi il 25%. Uno dei fattori che ha spinto il governo ad agire è stato proprio il calo delle rimesse del 16%.

    In tutti questi casi, i governi sono stati in grado di mantenere un tasso di cambio artificialmente forte grazie ai flussi di denaro provenienti dai milioni di lavoratori emigrati. Questa politica è insostenibile a lungo termine. Anche l’India è uno dei principali destinatari delle rimesse – 89 miliardi di dollari l’anno – ma si tratta di una frazione rispetto al totale delle sue esportazioni. L’India ha abbandonato i tassi di cambio fissi nel 1992 e ha permesso alla sua valuta di trovare il suo equilibrio. Per i suoi vicini dell’Asia meridionale è molto più difficile e sono di fronte a tumulti monetari e a nuove svalutazioni. E’ una ragione di più per accelerare un assetto mondiale multilaterale più giusto anche dal punto di vista economico e sociale.

    *già sottosegretario all’Economia **economista

  • Le colpe delle banche centrali

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi apparso si ‘ItaliaOggi’ il 21 giugno 2023

    È molto severo il giudizio di Jacques de Larosière sulla gestione della politica monetaria delle banche centrali. L’ex direttore del Fondo monetario internazionale, del Tesoro francese e della Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo, ha plasticamente spiegato le loro errate decisioni ricordando «il racconto di Goethe dell’apprendista stregone il cui goffo uso dei poteri magici produce una scia incontrollabile di disastri». Niente di più vero.

    De Larosière non è stato un santo nella sua lunga carriera di alto dirigente delle politiche monetarie francesi e internazionali. I Paesi in via di sviluppo non hanno un buon ricordo dell’austerità e delle dure condizioni imposte dal Fmi. Fa, però, piacere, oggi che non è più costretto da responsabilità, sentirlo esprimere liberamente giudizi tranchant sulla politica monetaria dominante.

    In un suo recente scritto ha affermato: «Le banche centrali di tutto il mondo hanno acquistato enormi quantità di titoli di stato ad alto prezzo, il cui valore, come risultato delle loro azioni di inasprimento degli interessi, è successivamente crollato precipitosamente. Sfortunatamente, hanno incoraggiato le istituzioni finanziarie private a seguirne l’esempio, con conseguenze nefaste. Lungi dal promuovere la stabilità, le banche centrali hanno tenuto una lezione magistrale su come organizzare una crisi finanziaria».

    In questo modo esse hanno indebolito i propri bilanci e la propria reputazione. Com’è noto, con i quantitative easing i loro bilanci sono cresciuti a dismisura, pieni di asset backed security, titoli di dubbio valore, e di titoli pubblici acquistati dalle grande banche internazionali. Questi ultimi, ritenuti “sicuri” e “protetti” all’inizio, adesso, grazie all’aumento dei tassi d’interesse, sono in perdita.

    Le banche centrali, quindi, sono nei guai. In verità lo sono molto di più le banche commerciali private perché esse devono valutare le partecipazioni obbligazionarie in rapporto al loro valore di mercato, rendendole vulnerabili alla fuga dei depositanti. Le banche centrali non devono affrontare questo pericolo poiché le loro partecipazioni obbligazionarie non sono valutate in rapporto al mercato ma in base alla convenzione contabile secondo cui esse sono detenute al valore nominale fino alla loro scadenza.

    De Larosière aggiunge: «Riducendo i tassi di interesse quasi a zero e continuando il QE per un periodo irragionevolmente lungo, le banche centrali hanno aumentato il credito e la domanda nell’economia, il che probabilmente avrebbe portato sia all’inflazione sia agli investimenti speculativi, che alla fine sarebbero andati male quando i tassi di interesse sarebbero aumentati». Il risultato alla fine è stato il contagio tra le banche centrali e quelle commerciali, soprattutto se queste ultime operano in un ambiente mal regolamentato e se sono mal gestite.

    Negli Usa la Federal Deposit Insurance Corporation (Fdic), l’agenzia federale che garantisce i depositi fino a 250 mila dollari, già a marzo stimava che le banche americane erano sedute su perdite non riconosciute di circa 600 miliardi di dollari sui loro titoli in portafoglio – una cifra che saliva ben oltre mille miliardi se si includono le perdite sui prestiti a basso rendimento. Inoltre, molte di queste banche hanno anche livelli rilevanti di depositi non coperti dalla Fdic.

    In generale, le banche private, se non funzionano, sono a rischio di bancarotta, come abbiamo visto nelle settimane passate. Questo non vale per le banche centrali che in caso di bisogno potrebbero chiedere una ricapitalizzazione, anche se non facile e a condizioni pessime. È vero che le banche centrali sono indipendenti ma, di fatto, sono fortemente coinvolte in questioni fiscali e dipendenti dai mercati finanziari. De Larosière teme che il risultato più probabile possa essere la stagflazione, che produrrebbe una serie di tensioni politiche ed economiche. E aggiunge: «Con la loro gestione della politica monetaria, le banche centrali hanno contribuito all’inflazione e a indebolire il sistema finanziario». Sono conclusioni molto pesanti.

    *già sottosegretario all’Economia **economista

  • Più rischi per i derivati otc

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Poalo Raimondi apparso su ItaliaOggi l’8 giugno 2023

    L’ultimo bollettino della Bri, Banca dei regolamenti internazionali di Basilea, con i dati del secondo semestre del 2022 proietta ombre oscure sull’andamento dei derivati finanziari otc. Com’è noto, oltre a essere non regolamentati e tenuti fuori bilancio, essi segnano la febbre e i rischi per le banche too big to fail, troppo grosse per essere lasciate fallire.

    Questa volta è il gross market value (valore lordo di mercato) degli otc a rivelare il problema. Nel semestre analizzato, è cresciuto del 13% toccando i 20.700 miliardi di dollari. Un livello mai visto nei sei anni precedenti.

    Nelle poco comprensibili parole dei banchieri, questa enorme cifra sta indicare «la somma di tutti i contratti derivati otc in essere, con valori di sostituzione positivi e negativi valutati ai prezzi di mercato prevalenti alla data di riferimento». In altre parole, se al 31 dicembre 2022 tutti i contratti otc fossero stati chiusi, quella sarebbe stata la somma necessaria per saldare le differenze.

    L’enorme crescita è dovuta ai derivati stipulati sull’andamento dei tassi d’interesse (ird, interest rate derivatives) e riflette la grande incertezza provocata dall’inflazione e dagli aumenti dei tassi da parte della Fed e della Bce. È la stesa Bri a evidenziare il problema quando, spiegando il significato del gross market value, afferma che «i valori lordi di mercato forniscono informazioni sull’entità potenziale del rischio di mercato nelle transazioni in derivati e sul relativo trasferimento del rischio finanziario in atto”.

    Il gross market value degli ird denominati in euro è aumentato del 23% nella seconda metà del 2022, dopo un aumento del 37% nella prima metà.

    Quello degli ird in dollari è aumentato rispettivamente del 40% e del 30%. Poiché i tassi fissati oggi dalle banche centrali sono saliti sopra quelli prevalenti al momento della stipulazione dei contratti, il loro valore lordo di mercato è, quindi, aumentato.

    Ciò vuol dire che servono molti più soldi per coprire i contratti in scadenza o in difficoltà. Chi si trova in una simile situazione avrà bisogno di maggiore liquidità, per cui cercherà di far cassa vendendo degli asset in suo possesso, oppure pagherà con soldi presi in prestito a tassi molto salati. Tali comportamenti, ovviamente, influenzano negativamente i mercati.

    Questo è il secondo effetto destabilizzante provocato dalla politica yo yo delle banche centrali: prima tasso zero e tanta liquidità inflattiva e poi, con l’aumento dei tassi, la repentina e continuata chiusura delle bombole di ossigeno. Il primo effetto è stato la mina posta sotto i titoli, soprattutto quelli pubblici, venduti in passato a tassi bassi e oggi, dopo il rialzo dei tassi, non più rimunerativi.

    Nel secondo semestre 2022 il valore nozionale di tutti gli otc è, invece, rimasto quasi invariato, 618.000 miliardi di dollari, con un aumento di soli(!) 14 mila miliardi. Il valore nozionale è l’ammontare di tutti i derivati sottoscritti, una cifra enorme, quasi impensabile, che indica la dimensione della bolla in caso di collasso sistemico. I fautori della bontà dei derivati hanno sempre contrapposto il gross market value a quello nozionale, sostenendo che il secondo non rifletterebbe il vero rischio sottostante. Adesso, però, devono fare i conti con l’impennata del primo!

    Recentemente, sull’argomento l’Isda, International swaps and derivatives association di New York ha tenuto una conferenza a Chicago. L’Isda è l’associazione che raccoglie tutti i partecipanti nel mercato dei derivati otc. Il resoconto ufficiale riporta che sono stati gli stessi operatori dei mercati sui derivati a dire che ci si dovrebbe preparare a nuovi eventi di stress per la mancanza di liquidità, com’era avvenuto nel marzo del 2020 e con i fallimenti bancari delle settimane passate. «Sta per succedere qualcosa: il fattore scatenante potrebbe essere diverso, ma accadrà», ha affermato un dirigente della Bank of New York Mellon. Un’analisi condivisa da molti partecipanti al convegno di Chicago. Si aspettano anche che il deflusso dei depositi dalle banche regionali statunitensi potrebbe continuare, poiché i clienti cercano rendimenti più elevati.

    È sconcertante il fatto che siano proprio gli operatori dei mercati a essere preoccupati sugli andamenti futuri. Purtroppo, le agenzie di controllo e le banche centrali sembrano essere rimasti sui libri di testo di economia del diciottesimo secolo! Oppure sono ammaliati dal feticcio del 2% d’inflazione annua.

    *già sottosegretario all’Economia *economista

  • USA. Il caso della First Republic Bank

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi apparso su www.notiziegeopolitiche.net il 6 maggio 2023 

    La First Republic Bank di San Francisco (Frb), la quattordicesima banca americana, ha chiuso i battenti. E’ il secondo fallimento più grande della storia dopo quello della Washington Mutual nel 2008. Per evitare che potesse provocare una slavina finanziaria e per tranquillizzare, almeno momentaneamente, i mercati è stata organizzata una “special operation” pubblica – privata.
    La Federal Deposit Insurance Corporation (Fdic), l’agenzia di regolamentazione bancaria, in qualità di curatore fallimentare ha preso possesso della banca e contemporaneamente l’ha venduta alla JPMorgan Chase di New York, la più grande banca americana e indiscussa regina dei derivati finanziari speculativi. Quest’ultima prenderà il controllo dei 103,9 miliardi di dollari di depositi e dei 229,1 miliardi di attività della First Republic, 173 dei quali in prestiti e 30 in titoli.
    Per l’acquisto la JPMorgan ha pagato 10,6 miliardi. Il fondo di garanzia della Fdic dovrebbe intervenire con 13 miliardi per coprire le perdite subite dai correntisti della banca. La Fdic, infatti, garantisce i depositi fino a 250.000 dollari. Essa dovrebbe anche aggiungere 50 miliardi di finanziamenti, di crediti. In altre parole, il grosso del salvataggio è sulle spalle pubbliche.
    Si tenga presente che nei depositi citati vi sarebbero 92 miliardi di precedenti aiuti, 30 dei quali nella forma di crediti concessi dalle 11 maggiori banche statunitensi e il resto dalla Federal Reserve e da altre entità pubbliche. Sono serviti solo per guadagnare un po’ di tempo ed evitare il tracollo immediato.
    Il crollo della Frb è da manuale. All’inizio di marzo, quando si annunciava il percorso di fallimento della Silicon Valley Bank, le azioni della First Republic valevano ancora 115 miliardi. Oggi pressoché niente. Già nei primi tre mesi dell’anno, ben 102 miliardi di depositi erano “scappati” dalla banca. Infatti, come le altre due banche fallite, la Silicon Valley e la Signature, la Frb è crollata sotto il peso di prestiti e investimenti in obbligazioni che hanno perso miliardi di dollari di valore a seguito della politica della Fed di alzare i tassi d’interesse per combattere l’inflazione. Di conseguenza, molti clienti, soprattutto quelli facoltosi, hanno iniziato a ritirare i loro soldi e gli investitori hanno scaricato le sue azioni, innescando anche una crisi di liquidità.
    L’amministratore delegato della JPMorgan, Jamie Dillon, si augura che questa fase di alta instabilità finanziaria si possa calmare, anche se “potrebbe esserci un altro caso più piccolo”. Ma, aggiunge, gli investitori sono ancora esposti ai rischi creati dagli aumenti dei tassi d’interesse della Fed e dal loro impatto sugli asset, compresi gli immobili.
    Nonostante le tante assicurazioni, si teme che le crisi bancarie da “acute” possano diventare “croniche”. Gli effetti macroeconomici dello stress bancario potrebbero essere solo nella fase iniziale.
    Negli Usa vi è la convinzione che la Fed ha gestito male la politica sui tassi d’interesse, con rialzi prima tardivi e poi troppo concentrati. Infatti, in dodici messi il tasso è aumentato del 5%, uno choc secondo solo a quello degli anni ottanta. Inoltre, come ha ammesso anche il vice presidente della banca centrale Michael Barr davanti al Congresso, la Fed è mancata nella supervisione e nella regolamentazione bancaria.
    I fallimenti hanno dimostrato che circa un quarto del cosiddetto portfolio bancario è fatto di titoli in perdita rispetto agli attuali tassi di’interesse. Di fatto il rischio di una fuga generalizzata di depositi dalle banche regionali verso quelle più grandi e verso i fondi del cosiddetto sistema bancario ombra resta rilevante. Ciò comporterebbe anche una riduzione dei crediti verso l’economia. Si toccano con mano gli effetti indesiderati della liquidità creata a piene mani e a basso costo. Oggi la Fed rischia di fare lo stesso errore: sottovalutare le conseguenze sistemiche delle sue attuali politiche.
    Naturalmente le banche too big to fail stanno approfittando della politica della Fed. Lo dimostra un dato sorprendente: nel primo trimestre del 2023 la JPMorgan Chase ha fatto ben 21 miliardi di profitti sui tassi di interesse, più del 50% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Poiché i tassi sui depositi dei clienti erano e restano bassi, la banca si è subito adeguata al rialzo dei tassi nelle concessioni di prestiti e negli investimenti.
    I non pochi interventi di salvataggio evidenziano alcune criticità che si faranno presto sentire. Prima di tutto acuiscono la concentrazione bancaria, le grandi banche diventano più grandi e too big to manage. In secondo luogo si sta minando la fiducia nei confronti della Fdic e della sua capacità futura di essere garante di tutti i depositi. Il che è molto preoccupante.

    Mario Lettieri, già deputato e sottosegretario all’Economia; Paolo Raimondi, economista

  • Agenzie di rating Usa farlocche

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi apparso su ‘ItaliaOggi’ il 28 marzo 2023

    Serve chiarezza. Dietro le recenti bancarotte negli Usa ci sono altri motivi di preoccupazione. In primo luogo il fallimento delle autorità di sorveglianza, a cominciare dalla Federal Reserve: il loro mancato intervento è dovuto al fatto che esse erano pienamente consapevoli che le loro politiche monetarie altalenanti, interessi zero prima e aumento dei tassi poi, avrebbero messo sottosopra il sistema bancario. Hanno ritenuto, erroneamente, che astenersi fosse la seconda tra le peggiori possibilità. La prima sarebbe stata continuare con le politiche di poderose iniezioni di liquidità fino a far esplodere la bolla.

    Il governo e le autorità bancarie, quindi, non sono stati colti di sorpresa. Erano pronti a nuovi interventi di salvataggio dell’intero sistema. Meglio intervenire dopo il fallimento di una banca regionale che di una too big to fail (troppo grande per fallire).

    C’è stato, infatti, un barrage di interventi. Si è creata una Bank Bailout Facility attraverso la quale il governo concede dei prestiti alle banche. La Fed ha annunciato un “discount window”, uno sportello, dove attingere a prestiti di emergenza a basso costo. Sotto la guida della Fed e del Tesoro, sei grandi banche, JP Morgan, Wells, Citi, Bank of America, Goldman Sachs e Morgan Stanley, si sono accordate per mettere a disposizione 30 miliardi di dollari per la First Republic Bank. Non sono bastati, però, a fermare il crollo. Anche la Federal Deposit Insurance Corporation, l’agenzia di protezione finanziaria, è entrata in campo per garantire i depositi fino a 250 mila dollari. Si tenga presente, però, che il suo fondo coprirebbe soltanto il 2% dei 9.600 miliardi di dollari di depositi assicurati.

    È in atto anche una narrazione che cerca di distogliere l’attenzione dalle banche too big. Si parla insistentemente dei rischi di insolvenza delle banche regionali e delle cosiddette saving and loans banks, quelle che raccolgono i risparmi e poi concedono prestiti alle imprese locali e alle famiglie.

    Indubbiamente non si possono negare le loro difficoltà attuali, create proprio dagli andamenti dei tassi d’interesse. Si ricorderà che una crisi simile, ma in una situazione di differente gravità sistemica, era avvenuta già negli anni Ottanta, sempre per effetto della crescita vertiginosa dei tassi d’interesse da parte della Fed.

    È comunque da ingenui ritenere che le banche regionali siano delle entità totalmente indipendenti rispetto alle 20 maggiori banche Usa, cosiddette, sistemiche. Secondo JP Morgan nell’ultimo anno le banche più piccole avrebbero perso 1.100 miliardi di dollari in depositi che sono stati trasferiti in quelle più grandi.

    C’è anche un’altra narrazione che vorrebbe le banche europee, e non quelle americane, essere nell’occhio del ciclone.

    Certamente, dopo la crisi del Credit Suisse e le gravi fibrillazioni della Deutsche Bank (DB), non si può negare che il sistema bancario europeo sia in crescente difficoltà.

    Noi non ci siamo mai stancati di denunciare i comportamenti rischiosi di DB, superstar dei derivati otc. Ma non si può nemmeno dimenticare che il sistema bancario europeo sia entrato in acque agitate proprio per aver copiato i metodi speculativi di quello americano e della City inglese.

    E’ doveroso anche notare il macroscopico errore delle agenzie di rating, le note imprese americane private. Fino al giorno prima del fallimento della Silicon Valley Bank, Moody’s le garantiva il voto di A3 e Standard & Poor’s (S&P) le dava un rating un po’ inferiore di Bbb. Certamente erano lontani dalle triple A elargite a piene mani prima della bancarotta della Lehman Brothers. I titoli della Svb, però, erano considerati “investment grade”, cioè degni di investimento e perciò non speculativi.

    Si noti che, anche rispetto al fallimento della First Republic Bank, le agenzie di rating S&P e Fitch hanno inserito la banca tra le imprese “junk”, spazzatura, solo dopo gli interventi di salvataggio. Nelle prospettive bancarie globali per il 2023, la S&P afferma che il settore bancario statunitense è in buona salute e che il rischio è in calo. Per la Moody’s le prospettive sarebbero stabili, sebbene avvertisse venti contrari in un’economia in rallentamento.

    Si tratta di gravi sottovalutazioni, a discapito dei risparmiatori e degli onesti investitori. Si persegue un comportamento, a dir poco incompetente e inadeguato, già emerso prepotentemente nel 2001 alla vigilia del fallimento della Enron, il gigante americano dell’energia, e poi nella Grande Crisi del 2008. Dal 2001 il Congresso americano ha portato avanti varie iniziative di riforma che, però, non hanno indotto le agenzie di rating a un comportamento più corretto.

    Si dovrebbe tenerlo presente quando esse pontificheranno sulla situazione economica e finanziaria dell’Italia. In passato, purtroppo, si è sempre tenuto un atteggiamento troppo supino.

    *già sottosegretario all’Economia **economista

  • La finestra svizzera

    Voltaire una volta scrisse: “Se vedi un banchiere svizzero saltare dalla finestra salta dopo di lui perché c’è sicuramente qualcosa da guadagnare”. Una frase che esplicita quale potesse essere una volta la percezione della affidabilità dei banchieri svizzeri unita alla sicurezza ed alla professionalità espressa nella gestione degli istituti di credito svizzeri.

    Da Voltaire ad oggi molte cose sono cambiate, non sempre nella direzione auspicabile, e soprattutto l’ultima vicenda legata alla crisi di Credit Suisse ha dimostrato come le peculiarità del “Sistema Svizzero”, e quindi comprensivo delle azioni del management, risultino diluite all’interno del mondo della finanza globale.

    Negli ultimi due anni l’istituto di Zurigo ha subito sanzioni per oltre 12 miliardi in relazione ad operazioni fraudolente come quella dei titoli venduti alla clientela privi di assicurazione, senza dimenticare lo scandalo del Mozambico.

    In questo contesto gestionale opaco si inseriscono la vicenda del Ceo pedinato dall’istituto e il patteggiamento a Milano per 110 milioni di evasione fiscale.

    Tuttavia il quadro reputazionale della banca toccò il minimo storico con la sentenza del 27 giugno 2022 nella quale il tribunale di Bellinzona, in Canton Ticino, riconobbe colpevole l’istituto di credito di Zurigo di riciclaggio a favore di un narcotrafficante bulgaro.

    Decisamente una sentenza storica nell’ambito del sistema bancario svizzero che compromise inevitabilmente la ieratica immagine dell’Istituto stesso ma anche dei Banchieri svizzeri in generale.

    Del resto non va dimenticato come lo stesso salvataggio di Credit Suisse vede protagonista UBS, la quale aveva ottenuto una ricapitalizzazione con le finanze pubbliche della Confederazione durante la crisi finanziaria del 2008.

    All’interno di un mondo finanziario assolutamente globale e digitale, specialmente nell’ultimo decennio, gli istituti bancari svizzeri si trovano stretti in un angolo dalla concorrenza dei fondi privati nella creazione di nuove ricchezze e conseguenti dividendi.

    Contemporaneamente hanno perso la propria posizione monopolista, diventata nei tempi passati quasi ormai una rendita di posizione, nella gestione dei grandi patrimoni.

    In questo contesto contemporaneo in continua evoluzione la priorità dell’intero sistema bancario elvetico dovrebbe focalizzarsi nel raggiungimento di una nuova credibilità da ottenere anche attraverso la elaborazione di un nuovo protocollo simile nei contenuti e nella forma a quello entrato in vigore per la tutela della produzione industriale: lo Swiss Made.

    Nello specifico questo dovrebbe rappresentare una sicurezza aggiuntiva per la clientela internazionale rispetto alle rinnovate competenze, espressione anche di un codice etico Suisse Made, applicato anche al management esattamente come lo Swiss made assicura la filiera industriale ed alimentare.

    Da Voltaire ad oggi molti lustri sono passati e le vicende relative a troppi istituti bancari elvetici ne hanno minato il patrimonio reputazionale.

    In attesa di una rinnovata credibilità espressa dalla classe politica e dirigente svizzera attraverso una nuova tutela normativa, nel caso in cui si dovesse assistere ad un banchiere che si gettasse dalla finestra sarebbe indicato neppure affacciarsi a quella finestra.

  • Il Bail-in Swiss Made

    Il Bail-in, che in Europa interviene per i depositi superiori ai 100 mila euro mentre negli Stati Uniti il limite è fissato a 250.000 dollari, rappresenta una forzatura del contratto di sottoscrizione dei servizi del depositante presso l’istituto bancario. In caso di difficoltà dell’istituto bancario con questa normativa vengono chiamati a concorrere con le proprie risorse anche i semplici titolari di conti correnti dopo gli azionisti e gli obbligazionisti.

    In altre parole, si è imposta una metamorfosi contrattuale, proprio attraverso l’introduzione del bail-in, sostenuta dagli organi istituzionali e dagli Istituti bancari, attraverso la trasformazione di un contratto di servizio in una vera e propria sottoscrizione di rischi molto simile ad un investimento azionario, escludendo però contemporaneamente il correntista da ogni possibilità di intervento nella strategia gestionale dell’istituto. Una normativa chiaramente a favore di una più ampia sostenibilità finanziaria, introdotta con questa norma, e per gli equilibri patrimoniali di ogni Istituto bancario.

    Il parziale salvataggio di Credit Suisse, tuttavia, propone un ulteriore passo verso l’obiettivo della assoluta irresponsabilità degli istituti bancari e del loro management. All’interno della operazione, infatti, emerge come mentre le azioni del Credit Suisse, titoli di rischio, vengano acquistate da UBS ad un valore inferiore del -68% rispetto all’ultima quotazione, le obbligazioni AT1 (*), cioè i certificati di credito emessi dalla banca stessa ai risparmiatori, vengono invece azzerate per un valore complessivo di oltre diciassette (17) miliardi.

    Si assiste in questo modo al sovvertimento totale del principio dell’investimento di rischio il quale nello specifico risulta interamente a carico dei creditori, cioè gli obbligazionisti ma salvando i correntisti, mentre, anche se solo in parte, viene addirittura indennizzato il settore delle azionisti i quali rappresentano il capitale di rischio e quindi soggetto ai rischi gestionali e operativi dell’Istituto di credito.

    Al di là delle soluzioni tecniche che verranno adottate per ricreare e soprattutto mantenere un colosso bancario elvetico nato dalla fusione dei due principali istituti bancari, l’effetto di questa strategia risulterà dirompente in relazione al rapporto fiduciario con il mondo del risparmio, tradito ancora una volta.

    Privilegiare il titolo di rischio ed azzerare un titolo di credito rappresenta l’annullamento di un qualsiasi rapporto fiduciario tra imprese ed risparmiatori, la cui responsabilità andrà interamente a carico delle istituzioni statali quanto delle banche.

    In altri contesti molto spesso si parla della certezza del diritto come uno dei fattori fondamentali come deterrente della criminalità. Questa strategia adottata per il salvataggio di Credit Suisse rappresenta l’annullamento di ogni certezza e un insulto nei confronti dei risparmiatori. Un’operazione che crea una voragine normativa nel diritto bancario senza precedenti e con conseguenze incalcolabili in termini di rapporto fiduciario con il mondo del risparmio.

    (*) I titolari obbligazioni AT1 partecipano agli squilibri gestionali finanziari dell’istituto di credito ma sempre successivamente agli azionisti

  • Usa, debito pubblico eccessivo

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi apparso su ‘ItaliaOggi’ l’11 marzo 2023

    Il debito federale americano di 31.381 miliardi di dollari è il limite posto nel bilancio dello Stato per l’anno fiscale che va da ottobre 2022 a settembre 2023. Il tetto è stato già raggiunto il 19 gennaio scorso. Vi saranno problemi per coprire le spese dei prossimi mesi.

    Janet Yellen, segretario del Tesoro, in merito ha annunciato «manovre tecniche» per posporre il default, che «produrrebbe una catastrofe economica e finanziaria». Per evitare la sospensione delle attività e dei pagamenti da parte di vari organismi pubblici si dovrà per forza sfondare il tetto del debito. Non sarà facile, data la composizione del Congresso, con la Camera dei deputati a maggioranza repubblicana.

    In tre anni il debito federale succitato è aumentato di ben 8.500 miliardi! Dal 2009 è quasi triplicato! Il Congress Budget Office, l’agenzia bipartisan che analizza gli andamenti di bilancio, stima che il deficit sarà almeno di 400 miliardi superiore del previsto. Essa aveva anche calcolato interessi sul debito pari a 282 miliardi.

    Nel frattempo, però, l’inasprimento della politica monetaria della Federal Reserve e gli aumenti del tasso d’interesse fanno stimare che il servizio sul debito raggiungerebbe i 400 miliardi di dollari. Se il tasso di sconto della Fed dovesse essere del 5%, com’era nel 2007, gli interessi sul debito potrebbero salire a 1.000 miliardi! Un aumento da non escludere, visto che lo considerano possibile la Fed di San Francisco e anche JP Morgan, la più grande banca americana.

    Alla fine, pensiamo che, come in passato, si troverà un compromesso tra maggioranza e opposizione. Ne va dell’affidabilità internazionale degli Stati Uniti. L’alternativa è dichiarare bancarotta. D’altra parte è difficile immaginare che i ministeri sospendano a lungo le attività, mettendo gli impiegati in cassa integrazione, o che in numerose città e Stati dell’Unione i vigili del fuoco o la polizia possano essere bloccati per mancanza di fondi.

    Si stanno considerando anche nuove e inedite iniziative. C’è chi propone di ripianare il deficit di bilancio coniando monete sonanti fino a un valore di mille miliardi di dollari. L’idea fu già discussa durante la presidenza di Obama. Sarebbe consentito dal 14° emendamento, Sez. 4, della Costituzione che sancisce: «Non potrà essere posta in questione la validità del debito pubblico degli Stati Uniti, autorizzato con legge».

    Chi propone tale soluzione sostiene che non sarebbe inflattiva. Portano l’esempio del presidente Abramo Lincoln che, nel mezzo della guerra civile, fece una simile iniziativa. Allora, dicono, i nuovi soldi andarono a finanziare un periodo di espansione economica senza precedenti, soprattutto nella siderurgia, nelle infrastrutture ferroviarie e nella meccanizzazione dell’agricoltura, con una notevole crescita della produttività. Oggi, invece, ci sembra che ogni nuova liquidità scompaia nel “buco nero” della finanza speculativa.

    C’è anche chi vorrebbe trasferire dalla Fed al Tesoro i titoli federali, circa 6.000 miliardi di dollari, a suo tempo acquistati attraverso i «quantitative easing». Il Tesoro potrebbe, quindi, annullare questa parte del debito. Sarebbe una possibilità legale che richiederebbe ovviamente il consenso del Congresso e della Fed, ma lascerebbe la banca centrale con una voragine nei conti. Oggi, infatti, essa giustifica i passivi di bilancio inserendo detti titoli negli attivi.

    Altra idea è di coniare “monete di platino” per un grande valore, sulla base dell’Articolo 1, Sez. 8, della Costituzione che afferma: «Il Congresso ha il potere… di coniare moneta e regolarne il valore».

    In passato il Congresso ha cercato di limitare questa generale possibilità ma ha lasciato un’eccezione, la moneta di platino, che una disposizione speciale permette di essere coniata in qualsiasi importo per scopi commemorativi. Le monete di platino furono proposte al Congresso già nel 2013 ma senza successo. Tali soluzioni straordinarie appaiono molto fantasiose. Alla fine, la decisione sarà quella molto più semplice di aumentare il debito pubblico. Cosa che, però, ingigantisce la bolla e i rischi connessi.

    Per noi europei è opportuno riflettere sul fatto che negli Usa si discuta su come affrontare le emergenze finanziarie e il problema del debito pubblico. Se si pensa bene, anche i quantitative easing sono stati degli interventi straordinari per evitare il crollo del sistema bancario e finanziario. Hanno, però, stravolto i meccanismi monetari centrali. Tutto “legalmente”!

    *già sottosegretario all’Economia **economista

  • Un euro sempre meno utilizzato

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi apparso su ItaliaOggi il 31 gennaio 2023.

    Il mercato dei cambi valutari, il cosiddetto foreign exchange FX, una parte importante della bolla finanziaria e dei derivati, vive una crescente fibrillazione. Il rischio di una grave crisi è grande. A dirlo è la Banca dei Regolamenti Internazionale di Basilea nella sua recente «Triennual Survey».

    Il turnover nei mercati FX è in forte rialzo a livello globale. Nell’aprile 2022 il fatturato è stato pari a 7.500 miliardi di dollari al giorno, un volume 30 volte superiore al pil globale giornaliero. Il 14% in più rispetto al 2019. Circa il 90% delle operazioni è fatto con la valuta americana. L’euro ha una quota del 31%, in forte calo rispetto al 39% del 2010. La valuta cinese è passata da meno dell’1% di venti anni fa a oltre il 7% di oggi.

    Secondo la Bri, a rendere più difficile la gestione è la maggiore frammentazione del trading sui cambi perché si è passati a forme bilaterali di negoziazione elettronica. La Bri parla di uno spostamento da forme visibili ad altre più opache. Una delle principali fonti di vulnerabilità è l’indebitamento in dollari insito nei mercati valutari. A differenza della maggior parte dei derivati, quelli sulle valute comportano lo scambio di capitale e quindi danno luogo a obblighi di pagamento (debiti) pari all’intero importo del contratto.

    A metà del 2022 questo indebitamento in dollari ammontava globalmente a 85 mila miliardi. Se si aggiungono tutte le monete, i debiti arrivano a 97.000 miliardi di dollari, cioè pari al pil globale del 2021 e tre volte il commercio mondiale.

    Per i soggetti non bancari fuori degli Usa, per esempio i fondi d’investimento, si stimano 26 mila miliardi di obblighi di pagamento tenuti fuori bilancio, il doppio del loro debito in dollari registrato in bilancio. Nel 2016 erano 17.000 miliardi. Le banche non statunitensi hanno circa 39.000 miliardi di tali obblighi fuori bilancio rispetto a quelli registrati nei bilanci pari a 15.000. Sono più di 10 volte il loro capitale.

    Le operazioni sulle valute, quindi, creano debiti in dollari in gran parte a brevissimo termine che non compaiono nei bilanci e mancano nelle statistiche sul debito. Lontano dagli occhi, afferma la Bri, non dovrebbe tuttavia significare lontano dalla mente. In passato ci sono stati persino casi di fallimento di alcuni attori coinvolti.

    La Bri sottolinea che ogni giorno dello scorso aprile un terzo del fatturato FX, circa 2.200 miliardi di dollari, era a rischio. Un aumento del 16% in tre anni. In definitiva la Bri invita le banche centrali e i governi ad approntare con urgenza regole stringenti. Evidentemente ritiene che le parole e le danze degli sciamani della finanza non bastino.

    *già sottosegretario all’Economia **economista

  • Le società di carte di credito si impegnano a impedire abbonamenti online nascosti

    A seguito di un dialogo con la rete di cooperazione per la tutela dei consumatori (CPC), coordinato dalla Commissione europea e guidato dal mediatore danese dei consumatori, Mastercard, VISA e American Express hanno convenuto di introdurre modifiche per garantire il rispetto delle norme dell’UE a tutela dei consumatori.

    Gli impegni mirano a garantire che gli esercenti forniscano informazioni chiare sui pagamenti ricorrenti ai consumatori prima che questi ultimi si impegnino a sottoscrivere un abbonamento.

    Da un’indagine sulle truffe e sulle frodi a danno dei consumatori pubblicata nel 2020 è emerso che in passato quasi il 10% dei consumatori dell’UE aveva sottoscritto inavvertitamente un abbonamento. Le pratiche di MasterCard, VISA e American Express sono state esaminate dalle autorità della rete di cooperazione per la tutela dei consumatori, in particolare per quanto riguarda le modalità di autorizzazione delle operazioni tramite carta attraverso le loro reti di pagamento. Le autorità hanno constatato che le regole di queste società non garantivano che le operazioni mediante carta fossero correttamente autorizzate quando includevano pagamenti regolari successivi, ad esempio obbligando gli operatori a specificare, in fasi specifiche, che accettando una prova gratuita il consumatore avrebbe sottoscritto un abbonamento.

    Nell’ambito di tale azione, American Express ha introdotto regole più rigorose per gli operatori commerciali, compreso l’obbligo di inviare una notifica del primo abbonamento. MasterCard e VISA si sono spinte oltre, imponendo agli operatori di visualizzare le spese di abbonamento applicabili nella finestra di pagamento in cui i consumatori inseriscono i dati della carta di credito per il primo acquisto o la prima prova che comportino un abbonamento.

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