Banche

  • Le banche centrali

    Entrambi i presidenti della statunitense Fed, Powell, e della Bce, Laguarde, avevano affermato solo pochi mesi fa che il fenomeno inflattivo avrebbe avuto un breve orizzonte temporale. I dirigenti della Bce addirittura ammisero, ma solo successivamente, l’errore ma imputandolo ad un mal funzionamento dell’algoritmo  il quale evidentemente è l’artefice unico delle strategie monetarie della Bce.

    Tuttavia, gli ultimi dati relativi all’inflazione degli Stati Uniti dimostrano come gli effetti della politica monetaria  della Fed e delle altre  banche centrali abbiano sostanzialmente una scarsissima valenza nel fronteggiare la spirale inflattiva nell’immediato, tanto da mettere in dubbio la loro stessa esistenza o quantomeno centralità.

    In altre parole, le banche centrali, le quali hanno mantenuto la medesima presunzione di importanza anche se ora come tutti gli operatori economici si trovano all’interno di un mercato globale, hanno perso proprio la loro centralità e soprattutto  la forza e la capacità di incidere con gli effetti delle loro politiche monetarie. Prova ne è il fatto che all’interno di una fase fortemente inflattiva le loro azioni non ottengo nessun effetto sul fenomeno inflattivo stesso, come i dati statunitensi confermano.

    Al contrario, però, le politiche monetarie si ripercuotono semplicemente in qualità di costi aggiuntivi per le imprese e per i cittadini attraverso l’aumento dei tassi. Un fenomeno molto chiaro, anche se in condizioni opposte, analizzando le politiche delle banche centrali precedentemente la pandemia.

    Andrebbe, infatti, rilevato come, nonostante le politiche monetarie espansive, varate a sostegno di una ripresa economica insufficiente, si fosse registrata per tutti i sistemi economici una sostanziale assenza di quella inflazione, invece attesa, e legata all’aumento della base monetaria.

    All’interno di una economia reale la semplice possibilità di una crescita dell’inflazione veniva assolutamente annullata dal mercato globale il quale per sua stessa definizione offriva la possibilità di acquisire un bene oppure un servizio a prezzi sempre inferiori. Una tendenza dei consumatori evidenziata anche dalla crescita dei depositi nei conti correnti.

    In altre parole la sempre crescente offerta di bene e servizi provenienti anche da aree geografiche a bassissimo costo del lavoro annullava di fatto i presunti effetti inflattivi attesi dalle accademiche scuole di pensiero.

    Tant’è vero che, nonostante questo flusso infinito finanziario come quello europeo legato al Quantitave Easing, tutte le economie occidentali cominciarono a soffrire degli effetti di una possibile deflazione e contemporaneamente avevano conosciuto per la prima volta dal dopoguerra le inaspettate conseguenze dei tassi negativi.

    Questa situazione avrebbe dovuto avviare un processo di revisione e rilettura relative all’importanza ma soprattutto alla centralità delle banche centrali intesa come la capacità di modificare attraverso le proprie scelte relative alla politica monetaria gli andamenti economici.

    Anche in considerazione del fatto che gli effetti delle politiche monetarie si rendono manifesti tra i dodici/diciotto mesi mentre l’economia finanziaria ma anche quella del reale vivono i tempi della digitalizzazione cioè dell’immediatezza.

    Giustamente spesso si parla di una sostanziale inadeguatezza delle classi politiche relativamente alla capacità di affrontare un mercato in un’economia globale. Considerazioni corrette ma che dovrebbero essere allargate anche alle istituzioni finanziarie e monetarie internazionali.

  • Il clima colpisce anche le banche: sale il rischio di insolvenze

    Il clima estremo colpisce anche le banche, e il rischio climatico si trasforma in rischio fisico e in potenziali perdite. E’ uno studio di Bankitalia a far emergere i primi dati che dimostrano come gli effetti di alluvioni, frane e ondate di calore si faranno sentire anche sulle attività delle banche, che concedono prestiti sempre più rischiosi ad aziende in aree vulnerabili. Non solo: la maggior parte di questi finanziamenti è coperta da garanzie fisiche, ad esempio edifici, che si trovano nelle stesse zone a rischio, azzerando il valore del collaterale e facendo salire il rischio default.

    I prestiti sono la principale fonte di esposizione al rischio di credito per le banche italiane, e rappresentano il 43% del totale delle attività a fine 2020 (il 55% circa sono prestiti a società non finanziarie). Secondo gli economisti di Bankitalia, anche se la presenza di garanzie, o collaterali, potrebbe mitigare l’impatto sulle perdite dei rischi legati al clima, i danni alle garanzie stesse costituiscono “un ulteriore canale di impatto del rischio fisico legato ai cambiamenti climatici”. I dati presi in esame danno la dimensione di tali rischi: nelle aree dove i danni del clima hanno un “elevato impatto”, l’83% dei prestiti è sostenuto da garanzie che si trovano nella stessa zona, e quindi sottostanno allo stesso identico rischio. E’ per questo che, spiega lo studio, il rischio climatico può aumentare la probabilità di default delle aziende e di conseguenza colpire i bilanci delle banche.

    Le parti d’Italia più vulnerabili sono state individuate seguendo la classificazione del Piano nazionale per l’adattamento al cambiamento climatico, che non tiene solo conto del rischio idrogeologico ma anche della capacità di adattamento delle varie province e comuni. Ad esempio, le zone messe peggio, cioè con rischio alto e scarsissima adattabilità, sono Cosenza, Reggio Calabria, Salerno e Potenza. In queste città è molto alta la probabilità che le aziende non riescano a ripagare il loro prestito alla banca qualora si materializzassero eventi meteo estremi. In Italia sono le alluvioni il pericolo maggiore, segnala lo studio.

    Il rischio di danni climatici scende leggermente (ma non la capacità di risposta del territorio) per Catania, Palermo, Catanzaro, Messina, Foggia e Caserta. Rischio medio e scarsa risposta a Rieti, Frosinone, Cagliari, Sassari, Viterbo, Avellino, Imperia e Nuoro. In città come Roma, Firenze e Bologna il rischio è molto alto ma la presenza di infrastrutture e risorse economiche agisce da fattore mitigante.

    L’analisi dimostra comunque che l’esposizione delle banche italiane al rischio fisico è in generale contenuta. Solo pochi intermediari sembrano affrontare “una grande esposizione potenziale”, ovvero solo il 4% del credito complessivo. I prestiti alle imprese, secondo i dati di AnaCredit, ammontano a circa 600 miliardi di euro. Il 28% (168 miliardi) si trova in province con ‘rischio fisico’ elevato o molto elevato, e se si guarda all’adattabilità, il 15% (90 miliardi) è nelle province dove è scarsa o molto scarsa. In entrambi i casi, lo studio ha rilevato che la garanzia fisica si trova nello stesso luogo del debitore, riducendo il potenziale mitigante del collaterale. Il rischio climatico, conclude lo studio, si traduce in un aumento del rischio fisico, ovvero maggiori perdite economiche e finanziarie potenziali: i danni causati dal clima estremo possono distruggere il capitale fisico, o interrompere la produzione e quindi le catene di approvvigionamento.

  • La Commissione approva gli impegni riveduti presentati dall’Italia per Banca Monte dei Paschi di Siena

    La Commissione europea ha approvato, ai sensi delle norme dell’UE in materia di aiuti di Stato, una serie di impegni riveduti presentati dall’Italia che vanno a sostituirsi agli impegni iniziali in base ai quali era stata approvata la ricapitalizzazione precauzionale di Banca Monte dei Paschi di Siena (MPS).

    Nel luglio 2017 la Commissione aveva approvato il piano italiano a sostegno di una ricapitalizzazione precauzionale di MPS, basandosi su una serie di impegni presentati dall’Italia che prevedevano l’attuazione da parte della banca di misure specifiche per ripristinare la sua redditività a lungo termine, ridurre al minimo le distorsioni della concorrenza e garantire un contributo proprio sufficiente a coprire le perdite e i costi di ristrutturazione. Questi impegni sono stati modificati per la prima volta nel settembre 2019. Inoltre l’Italia era tenuta a vendere la sua partecipazione in MPS entro una certa data.

    Alcuni degli impegni originariamente assunti sono stati assolti nei tempi stabiliti: in particolare, MPS ha ridotto crediti deteriorati e costi di esercizio, migliorato le politiche di gestione dei rischi e rispettato varie limitazioni del suo modello operativo. Ciononostante nel luglio 2022 l’Italia ha chiesto una proroga dei termini per soddisfare altri impegni, nella fattispecie per vendere la partecipazione statale in MPS e consentire alla banca di realizzare determinati disinvestimenti e proseguire la ristrutturazione attraverso un’ulteriore riduzione del personale e dei costi di esercizio rispetto ai ricavi. Per ridurre al minimo le distorsioni della concorrenza che potrebbero derivare dalla proroga, l’Italia ha proposto una serie di impegni supplementari, quali cessioni e disinvestimenti aggiuntivi, la chiusura di altre filiali e il mantenimento dell’obbligo di rispettare determinate limitazioni alle modalità di esercizio delle sue attività.

    La Commissione ha valutato la richiesta dell’Italia alla luce delle norme dell’UE in materia di aiuti di Stato, in particolare della comunicazione sul settore bancario del 2013, ed è giunta alle conclusioni seguenti: i) la proroga del termine per completare la ristrutturazione della banca e realizzare la vendita della partecipazione dello Stato italiano in MPS è accettabile, e ii) gli impegni rivisti bilanciano adeguatamente tale proroga.

    Su tale base la Commissione ha concluso che l’aiuto concesso dall’Italia a MPS nel luglio 2017 resta compatibile con le norme dell’UE in materia di aiuti di Stato, in quanto è stato mantenuto l’equilibrio generale della decisione iniziale, e pertanto ha approvato gli impegni riveduti.

    Fonte: Commissione europea

  • Putin vuole una nuova moneta

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Paolo Raimondi e Mario Lettieri pubblicato su ItaliaOggi il 30 luglio 2022

    In occasione del 14.mo Summit dei Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa), organizzato a Pechino a fine giugno, il presidente russo Vladimir Putin ha annunciato che i Paesi membri si stanno preparando a creare una valuta di riserva internazionale.

    Parlando in via telematica al Brics Business Forum, egli ha affermato: «Il sistema di messaggistica finanziaria russa è aperto per la connessione con le banche, proiettando così la necessità di una valuta di riserva Brics. Il sistema di pagamento Mir russo sta ampliando la sua presenza. Stiamo esplorando la possibilità di creare una valuta di riserva internazionale basata sul paniere di valute dei Paesi Brics».

    Dopo le sanzioni imposte dall’Occidente contro la Russia a seguito della guerra in Ucraina, è una mossa quasi inevitabile, attesa da chi analizza i processi politici con un approccio scientifico e realistico senza dettami ideologici o pregiudizi di sorta.

    Tra le varie misure sanzionatorie, le banche russe sono state escluse dal sistema Swift dei pagamenti internazionali. Esistono, però, altri sistemi di regolamento globale bilaterale o multilaterale per i servizi finanziari transfrontalieri, come il sistema cinese Cips. Nel 2021 il Cips ha elaborato circa 80 trilioni di yuan (11,91 trilioni di dollari), con un aumento di oltre il 75% su base annua. Secondo i dati di Swift, ad aprile lo yuan ha mantenuto la sua posizione di quinta valuta più attiva per i pagamenti globali, con una quota del 2,14% del totale.

    Da parecchio tempo i Brics stanno intensificando la cooperazione negli investimenti e nel finanziamento dei principali settori come le industrie strategiche emergenti e l’innovazione digitale nel tentativo di aumentare l’uso delle valute locali nel commercio e nei pagamenti, così da bypassare il dollaro. Si tenga presente che le sanzioni contro la Russia non sono state sostenute dagli altri Paesi Brics che hanno, invece, interpretato come la trasformazione del dollaro in un’arma da guerra.

    L’Europa continua a sottovalutare il ruolo economico e politico dei Brics, a ignorarli come potenziale sistema coordinato e considerarli, invece, solo singolarmente. Il blocco di tali Paesi, però, rappresenta il 18% del commercio di merci e il 25% degli investimenti esteri a livello globale. Nonostante l’impatto della pandemia, nel 2021 il volume totale degli scambi di merci dei Brics ha raggiunto quasi 8.550 miliardi di dollari, con un aumento del 33,4% su base annua.

    È certamente vero che essi non sono paragonabili all’Unione europea, ma pensare che siano un gruppo senza futuro è una miopia politica, una visione per niente realistica e sicuramente non intelligente. Basterebbe prendere nota che al recente Summit “Plus” sono state invitate altre 14 nazioni: Algeria, Argentina, Cambogia, Egitto,Etiopia, Fiji, Indonesia, Iran, Kazakhstan, Malaysia, Nigeria, Senegal, Thailandia e Uzbekistan. Prendiamo atto che c’è una parte del mondo, la maggioranza dei Paesi del pianeta, che spesso non è in sintonia con l’Occidente e che ha interessi, priorità e progetti differenti. Ignorarli potrebbe essere l’interesse di qualcuno, ma non dell’Europa!

    Si tenga anche presente che la New Development Bank, la banca dei Brics, che opera molto efficientemente per finanziare concreti progetti di sviluppo e promuovere l’utilizzo delle monete locali nei commerci, ha recentemente incluso tra i suoi membri altri 4 Paesi, l’Egitto, il Bangladesh, gli Emirati Arabi Uniti e l’Uruguay.

    La dichiarazione finale del Summit di Pechino, oltre a dettagliare i vari aspetti del programma dei Brics per una Partenership di Sviluppo Globale, ha annunciato l’intenzione di includere altri Paesi. Insieme alla prospettiva cinese di una Global Development Initiative, ciò è stato un punto centrale dell’intervento del presidente Xi Jinping.

    Anche se il “paniere di monete” alternativo non appare nella dichiarazione finale, esso sarà certamente uno degli aspetti cruciali dei lavori futuri. Lo si comprende vedendo l’enfasi posta sull’importanza del Payments Task Force, la piattaforma per la cooperazione nei pagamenti tra le banche centrali, sulla realizzazione del Trade in Services Network, l’uso di strumenti finanziari innovativi nel commercio, e sul rafforzamento e miglioramento del meccanismo noto come Contingent Reserve Arrangement, cioè la rete Brics di sicurezza finanziaria e monetaria globale.

    *già sottosegretario all’Economia **economista

  • Parte la sfida delle banche digitali e l’Italia è seconda solo al Regno Unito

    Le banche digitali, con servizi esclusivamente da app e smartphone, sfidano il sistema bancario tradizionale in tutta Europa favoriti dal progresso tecnologico e dalla pandemia. A fronte di un calo strutturale di ricavi e margini, che nell’ultimo decennio ha portato gli istituti di credito a ridurre sportelli e personale, le challenger banks spingono sull’acceleratore, crescendo e raccogliendo capitali.

    Ad analizzare gli scenari del mondo Fintech è l’area studi di Mediobanca che ha dedicato un report alle 96 challenger banks del Vecchio Continente, dove l’Italia si piazza sul podio, al secondo posto, con 12 operatori dopo il Regno Unito (37) e insieme alla Francia (12). A seguire, Germania (8) e Spagna (7). Nel paniere considerato, circa il 65% è nato dopo il 2013 mentre solo 9 società sono quotate in Borsa, di cui una italiana (illimity Bank).

    Caratterizzate da una forte connotazione tecnologica, assenza di filiali fisiche e costi inferiori per i clienti, queste banche nel 2021 hanno più che raddoppiato la raccolta di fondi in venture capital, arrivata a 3,5 miliardi di euro (+129,5%), con ulteriori 1,8 miliardi nel primo semestre 2022. I ricavi 2020 sono cresciuti del 3,9%, a 7,9 miliardi, con un picco di +24,8% per le neobanks (costituite dopo il 2010) e un +19,9% segnato da realtà appartenenti a grandi gruppi bancari. Il risultato netto aggregato nel 2020 è peggiorato del 12,7%, in linea con le performance delle banche dell’eurosistema. In questo contesto, le 12 realtà italiane segnano una crescita dei ricavi 2021 del 22,8%, a 513 milioni, con un miglioramento del risultato netto (+63%) e del risultato operativo (+75,2%), dopo aver superato “brillantemente il primo anno pandemico” con un balzo del margine di intermediazione del 42,2% nel 2020.

    In aumento anche la forza lavoro: +18% nel 2020 sul 2019 e +5,7% nel 2021. Gli operatori italiani – secondo il report – appaiono tuttavia di dimensioni minori e presentano valori inferiori alla media per ricavi e totale attivo. Il Paese si posiziona inoltre nelle retrovie per utilizzo dei servizi bancari online: 45% degli italiani contro una media Ue del 58% e punte del 90% nei Paesi del Nord, che spiccano anche per una bassa densità di filiali rispetto alla popolazione. Più in generale, la profonda ristrutturazione dei modelli distributivi tra il 2010 e il 2020 ha portato a una riduzione del personale bancario del 14,8% in Italia (-34,4% in Spagna, -26,4% nel Regno Unito e -13,9% in Germania) e del 30% degli sportelli (-48,3% nel Regno Unito, -48,1% in Spagna, -36,8% in Germania).

  • Accorpamento delle banche: più vantaggi o disagi?

    Ormai da molti anni, da più parti, si sostiene che l’accorpamento delle banche è un vantaggio per i cittadini e per la collettività, nel contesto della grande competizione mondiale.

    A onor del vero i disservizi del sistema bancario, specie delle grandi banche, sono diventati sempre più evidenti con un danno che si evince chiaramente dai numeri degli sportelli chiusi, dagli orari ridotti, dall’invito al cliente a fare tutto da solo.

    Anche nella continua chiusura di agenzie e sportelli si vede la differenze tra l’Italia del nord e l’Italia del sud, infatti nel sud vi è una media di soli 23 sportelli ogni 100.000 abitanti

    In un anno, in Italia, sono stati chiusi 1.831 sportelli e 4.902 comuni non hanno neppure uno sportello bancario, l’evidente danno per la clientela è pari al danno che hanno subito quei lavoratori che si sono visti di fatto estromettere dal sistema, infatti ogni accorpamento di sigle bancarie comporta esuberi e licenziamenti di dipendenti.

    Fortunatamente vi sono ancora banche locali solide che offrono al territorio quella copertura e quei servizi che le grandi compagnie hanno da tempo abbandonato.

  • L’inflazione non è transitoria

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi pubblicato si ItaliaOggi il 4 febbraio 2022

    La politica dei soldi facili ha drogato la finanza e l’economia, facendo aumentare i debiti e la propensione per maggiori rischi, e ha determinato la crescita dell’inflazione.

    Dopo molto tempo anche la Federal Reserve ha ammesso di aver sottovalutato l’impennata inflazionistica, che è più ampia e persistente delle previsioni. Ora, per tutte le grandi economie, la sfida è come correggere le azioni dettate dall’inflazione che troppo a lungo è stata interpretata come transitoria.

    Le banche centrali da anni, in merito all’inflazione, si basano su tre principi molto soggettivi e poco scientifici. Il primo è il target arbitrario del 2% annuo. Il secondo riguarda le aspettative di inflazione. I banchieri affermano che sono le aspettative a muovere l’inflazione e che le banche centrali guidano le aspettative. Perciò tutto, secondo loro, sarebbe sotto controllo. Il terzo è il cosiddetto forward guidance, una guida anticipata attraverso, per esempio, il controllo della curva dei rendimenti dei titoli pubblici.

    Con la Grande Crisi Finanziaria prima, e con la pandemia poi, le banche centrali bene hanno fatto ad aprire i rubinetti della liquidità con salvataggi immediati e necessari per il sistema. A lungo andare, però, i rischi di inflazione sono inevitabili. Infatti, già la scorsa estate, sarebbe stato opportuno riconoscere che i fattori cosiddetti transitori erano accompagnati da problemi strutturali. Non si può giustificare tutto con gli effetti della pandemia.

    Oltre le irrisolte speculazioni sulle commodities, le aziende, in verità, descrivevano la natura persistente delle interruzioni nelle loro catene di approvvigionamento e la mancanza di manodopera specializzata.

    Gli imprenditori, a differenza di molti economisti accademici, affermavano che questi problemi non sarebbero stati risolti in tempi brevi. Le banche centrali certamente non hanno tutti gli strumenti per sbloccare le catene di approvvigionamento e il reperimento della forza lavoro. Ma rimanere nella “mentalità inflazionistica transitoria”, rischia di mettere in moto quelle aspettative con tassi di inflazione non facilmente tollerabili dall’economia.

    Anche i crescenti risparmi dei mesi passati, erosi da un’inflazione del 6% o più, potrebbero essere spinti con forza verso l’acquisto di beni, ma troppo velocemente per trasformarsi in nuovi investimenti e in maggiori produzioni, alimentando così la stessa inflazione.

    Non si può aspettare. Si rischia una più marcata recessione. È un modello conosciuto: dentro la trappola della curva dell’inflazione c’è il rischio di inasprire la politica monetaria in modo brusco, colpendo duramente la domanda e l’occupazione e mettendo fuori gioco le imprese già in difficoltà. Per i mercati si prospetterebbero situazioni d’illiquidità destabilizzante.

    In verità, già a novembre, il governatore della Fed, Jerome Powell, ha fatto un improvviso cambiamento di politica monetaria, annunciando una riduzione degli acquisti mensili di attività, quello che si chiama in gergo il «tapering» del quantitative easing.

    Da parte sua, la Banca centrale europea ha ancora una posizione attendista, credendo fermamente nella «transitorietà» dell’inflazione, che alla fine dovrebbe ritornare al fatidico 2%.

    Se le pressioni inflazionistiche dovessero, però, diventare generalizzate, non si può escludere una qualche frenata disordinata nella politica monetaria.

    In questa situazione, secondo noi, le principali banche centrali dovrebbero comunicare con puntualità le proprie azioni politiche in modo da non innescare confusione o una overreaction dei mercati. A differenza del positivo sincronismo pre pandemico, l’attuale disallineamento tra la Fed e la Bce non è di buon auspicio.

    D’altra parte, se l’inflazione diventasse più alta rispetto alle previsioni, si ridurrebbero anche i redditi reali, innescando un inevitabile scontro sociale, in particolare sui salari e le pensioni.

    Indubbiamente, non vi sono facili soluzioni. Però, se nei passati 15 anni le banche centrali sono state super interventiste, non possono adesso diventare troppo attendiste. In questa situazione sono i governi e i parlamenti a dover entrare in gioco con decisione e definire le priorità degli interventi. Sono chiamati a favorire attivamente l’economia reale, le imprese produttive, l’occupazione e i redditi dei cittadini e svincolarsi dalla “presa” prolungata e soffocante della grande finanza.

    *già sottosegretario all’Economia **economista

  • Bruxelles prolunga la liquidazione ordinata delle piccole banche italiane

    La Commissione Ue ha approvato il prolungamento del regime italiano per la liquidazione ordinata delle piccole banche fino al 20 novembre. Lo ha indicato Bruxelles in una nota. Si tratta degli istituti diversi dalle cooperative con asset totali inferiori a 5 miliardi. Lo schema era stato approvato a novembre 2020 per un anno. Bruxelles indica che non è mai stato usato e che facilita il lavoro quando le autorità nazionali competenti giudicano in dissesto una banca ammissibile al regime, hanno concluso che la risoluzione della banca non è nell’interesse pubblico e, di conseguenza, pongono la banca in liquidazione coatta amministrativa. Il regime consente allo Stato italiano di sostenere la vendita di attività e passività di una banca fallita ad un’altra banca.

    Secondo il regime prolungato, l’acquirente sarà selezionato sulla base di una procedura di gara competitiva e dovrebbe integrare in modo fattibile le attività acquisite entro un anno. Gli azionisti e i creditori subordinati delle banche fallite dovranno contribuire a coprire le perdite, contribuendo così a ridurre al minimo la necessità di aiuti. La Commissione ha riscontrato che la misura italiana ‘è in linea con le condizioni stabilite nella comunicazione bancaria del 2013 per i regimi di liquidazione ordinata delle piccole banche, ad eccezione della soglia di bilancio di 3 miliardi di euro’. In questo senso, lo schema italiano continuerà ad essere disponibile per le piccole banche (diverse dalle cooperative) con un totale attivo inferiore a 5 miliardi di euro. A tale riguardo, date le circostanze eccezionali in corso legate all’epidemia di coronavirus e le salvaguardie contro indebite distorsioni della concorrenza che l’Italia ha incluso nel regime, la Commissione continuerà ad accettare la soglia più elevata di 5 miliardi. Tale soglia è temporaneamente applicata anche in schemi simili con tutele simili a quelle attuate dall’Italia (il regime polacco di risoluzione per le banche cooperative e le piccole banche commerciali).

  • Ora il Libor ha tirato le cuoia. Il nuovo sistema è basato su transazioni realmente avvenute

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi pubblicato su ItaliaOggi il 18 gennaio 2022

    Dal primo gennaio 2022 il Libor, London Interbank Offered Rate, per anni alla base degli scambi di prestiti, è arrivato al capolinea. Lo stesso vale anche per l’Euribor e per altri tassi di riferimento (benchmark).

    Essi verranno sostituiti da altri benchmark, che dovrebbero essere più affidabili, tra cui: il Sofr (Secured overnight financing rate), tasso di interesse che misura il costo della raccolta di denaro con scadenza a un giorno (overnight) nel mercato «pronti contro termine» dei titoli del Tesoro Usa; il Sonia (Sterling overnight index average), sviluppato dalla Bank of England; il Saron (Swiss average rate overnight), basato su effettivi scambi di mercato in franchi svizzeri.

    Il nuovo sistema sarà fondato su un insieme di tassi overnight, ritenuti quasi privi di rischio (acronimo: rfr), perché basati su transazioni effettivamente avvenute su un mercato attivo e liquido il giorno precedente. I nuovi tassi si decideranno in conformità a contratti già chiusi e non su stime, su sondaggi tra le banche coinvolte. Di conseguenza, con il nuovo sistema l’ammontare degli interessi da pagare sarà determinato dalla media dei tassi overnight durante il periodo del contratto e non conosciuto in anticipo, come avveniva prima.

    Com’è noto, il Libor è stato per 45 anni il principale benchmark di riferimento per le transazioni sul mercato interbancario internazionale. A esso erano collegati tutti i tassi applicati ai prodotti bancari, influenzando operazioni finanziarie per circa 800.000 miliardi di dollari.

    Il Libor era un tasso variabile, calcolato giornalmente dalla British Bankers’ Association sulla media di otto valori forniti da sedici grandi banche. A sua volta, l’Euribor era fissato dalle banche, organizzate nella Federazione bancaria europea. Va rilevato che esso continuerà a operare fino alla metà del 2023 per circa 230 mila miliardi di dollari di contratti esistenti.

    Il cambiamento è dovuto a ragioni di trasparenza, di correttezza e di migliore controllo, a seguito dei tanti scandali e delle manipolazioni fatte dal 1991. Le banche coinvolte avevano fatto cartello e, violando l’antitrust, operavano di comune accordo e fornivano valori giornalieri differenti da quelli veri.

    Lo scandalo più grande esplose nell’estate del 2012, quando l’inglese Barclays ammise le sue colpe e concordò con le autorità britanniche e statunitensi il pagamento di una multa di 453 milioni di dollari. Molte altre anomalie vennero a galla e coinvolsero le principali banche mondiali. L’Ubs svizzera dovette pagare alle autorità di regolamentazione 1,5 miliardi, la Royal Bank of Scotland 612 milioni, la Deutsche Bank 2,5 miliardi.

    Anche la Fdic, Federal Deposit Insurance Corporation, l’organismo federale Usa per la garanzia dei depositi bancari, portò in tribunale ben sedici grandi banche internazionali per aver manipolato il Libor, causando ingenti perdite ad alcuni gruppi finanziari americani.

    Le banche coinvolte, processate e sanzionate, comprendevano le americane Jp Morgan, Citigroup, Bank of America; le europee Ubs, Credit Suisse, Deutsche Bank, Société Générale, Hsbc, Barclays e Royal Bank of Scotland e le asiatiche Bank of Tokyo e Mitsubishi.

    Simili scandali avvennero anche con l’Euribor. Si certificò che la Barclays manipolò il tasso d’interesse in collaborazione con altri quattro istituti bancari, quali la Deutsche Bank, il Crédit Agricole, la Société Générale e l’Hsbc. Tanto che nel 2013, gli organismi di controllo di Bruxelles multarono un altro gruppo di banche per un totale di 1,7 miliardi di euro.

    Con il pagamento di una multa, le banche si garantivano che i procedimenti penali fossero chiusi. L’ammissione di colpa e le sanzioni irrogate alle banche diventavano delle «scene teatrali” per l’opinione pubblica. Negli Usa, per esempio, dal punto di vista penale non si applicava il corpus legislativo Rico (Racketeer Influenced and Corrupt Organizations Act), che sancisce che, quando più persone concorrono in un atto criminale, scatta l’accusa di conspiracy.

    La riforma ci sembra valida e più trasparente. È il caso, però, di ricordare che spesso «fatta la legge trovato l’inganno». Speriamo che non sia così.

    *già sottosegretario del ministero dell’Economia **economista

  • L’indice di povertà

    1.Turchia
    2.Brasile
    3.Spagna
    4.Lituania
    5.Grecia
    6.Lettonia
    7.Estonia
    8.Italia

    Solo tre decenni fa il nostro Paese si pavoneggiava, e certo non a torto, della propria posizione nella classifica delle superpotenze economiche poiché deteneva la settima casella in graduatoria. Una posizione conquistata grazie soprattutto ad una struttura industriale di primo ordine in grado di raggiungere posizioni di vertice all’interno dei mercati esteri e sostenuta comunque da una domanda interna in costante crescita.

    Come conseguenza, invece, delle scellerate politiche di sostegno alla spesa pubblica, espressione dell’ideologia di uno Stato non solo parte attiva nella crescita economica ma anche in grado di guidarla, l’inevitabile impennata del Total Tax Rate il quale viene calcolato tra il 59,1%, per la Banca Mondiale (Doing Business 2020), ed il 64% secondo Unimpresa: pressione fiscale a sostegno della stessa esplosione della spesa pubblica. Da allora il nostro Paese ha registrato delle percentuali di crescita mediamente inferiori del 50% rispetto ai concorrenti europei (negli anni precedenti la pandemia pari anche ad 1/3) alle quali hanno fatto riscontro le impennate della spesa pubblica, in buona parte a debito o con una copertura sostenuta dall’aumento della pressione fiscale. Queste scellerate strategie hanno determinato ovviamente il cambiamento del posizionamento della nostra economia all’interno del contesto delle potenze economiche nell’ordine mondiale, ma non solo. E’ di questi giorni la pubblicazione di un’altra interessante classifica all’interno della quale il nostro Paese detiene l’ottavo (8°) posto nel mondo. Questa classifica, tuttavia, è relativa agli stati con una maggiore percentuale di persone che vive al di sotto della soglia di povertà (*).

    Un dato di una gravità assoluta che ridicolizza tutte le politiche di “sviluppo e sostegno” attuate dai governi di ogni ispirazione politica ed economica. Contemporaneamente questo risultato dovrebbe avere come inevitabile conseguenza anche il forte ridimensionamento del ruolo complice quanto ridicolo delle eminenze accademiche fuoriuscite dall’alveo universitario per fornire il proprio “prezioso” apporto alla distruzione sistematica del nostro sistema economico.

    Questa ricerca testimonia il disastro di dimensioni così epocali che investe una, se non due generazioni di classe politica e dirigente italiana tanto evidente se poi confrontato con la Repubblica Federale Tedesca che si posiziona nella medesima classifica ben quindici (15!!!) posti al di sotto della nostra ma addirittura con debito pubblico decisamente inferiore al nostro (**).

    La terribile commistione tra scellerate politiche di svalutazione “competitiva” della lira (**) ed esplosione della spesa pubblica corrente favorita tanto dalla riduzione dei tassi di interesse, una volta entrati nell’area euro, ed ancora di più a fronte del loro quasi azzeramento come conseguenza del Quantitative Easing inaugurato dalla BcE con presidente Mario Draghi, ha partorito questo vergognoso ottavo posto.

    Questa forte diminuzione del costo al servizio del debito, infatti, ha avuto come inevitabile  conseguenza una sensazione di irresponsabilità determinata della sostanziale “sospensione dalla realtà” delle valutazioni di sostenibilità del debito pubblico italiano che hanno regalato il mix vincente finalizzato a favorire la spesa con il conseguente debito con il  mantenimento di rendite di posizione a partire dal sistema bancario e da tutte le società partecipate da soggetti ed istituzioni pubbliche.

    In questo contesto la ricchezza prodotta sempre più viene drenata e quindi resa NON disponibile per consumi ed investimenti (la vera ed unica forma di crescita economica rispetto agli effetti della spesa pubblica) dai costi dei servizi cresciuti in modo ingiustificato e spesso espressione di sodalizi politico/economici nazionali e locali che comunque hanno determinato aumenti ingiustificati per la cittadinanza.

    Basti pensare alle tariffe dell’acqua con un +90% e dei trasporti ferroviari del +14,9% ma anche del servizio postale del +45% fino alla raccolta rifiuti del +40% pedaggi e soste a pagamento del +40% solo nell’ultimo decennio a fronte di una crescita dell’inflazione inferiore quasi sempre all’1%. Logica conseguenza sono minori consumi, espressione di una domanda interna penalizzata, ma anche l’aumento della soglia di povertà per le fasce più deboli della popolazione italiana.

    L’avvilente posizione in questa terribile classifica dovrebbe finalmente aprire un confronto relativo a questi disastrosi “traguardi” quanto alle qualità umane e professionali espresse dalla classe politica, dirigente e accademica italiana invece di venire omessa in modo clamoroso anche dal vergognoso sistema dell’informazione, prono davanti al potere finanziatore come già in passato alla “crescita” del reddito disponibile in Italia (https://www.ilpattosociale.it/attua…/che-altro-aggiungere/).

    Se poi si considera come le brillanti menti, ignorando completamente l’attuale e particolare situazione del nostro Paese e le cause che l’hanno determinata, abbraccino la “deriva ambientalista”, cioè l’ultima prova di esistenza in vita di un mondo politico ampiamente sconfitto dalle dinamiche politiche nazionali e internazionali, allora il peggioramento delle già insostenibile situazione potrebbe essere a portata di mano e giusto dietro l’angolo.

    Una posizione miope ma, va ricordato, ora supportata in questa deriva dalla scandalosa volontà speculativa delle maggiori aziende di automobili le quale si sentono convinte con la sola “transizione elettrica delle auto” della creazione di un mercato di oltre 230 milioni di auto da sostituire con altrettanti modelli elettrici. Una strategia suicida restando con le attuali condizioni di crescita economica.

    Si conferma, quindi, una sorta di strabismo della classe dirigente e politica italiana ed europea convinte di continuare a crescere nonostante si consideri fisiologico lasciare indietro quote di popolazione sempre maggiori.

    Il ritorno alla cruda realtà potrebbe rivelarsi inaspettato e imbarazzante per le élite politiche, insostenibile finanziariamente per l’industria dell’auto e drammatico per alcune sempre più ampie fasce della popolazione.

    (*) La soglia di povertà è un parametro normativo che cerca di stabilire il livello di reddito al di sotto del quale una famiglia od un individuo possano venire considerati poveri.

    (**) al 2019 la Germania aveva un debito al 62% sul Pil rispetto al nostro che era al 132% (www.truenumbers.it)

    (***) ogni “svalutazione competitiva” si traduce inevitabilmente in una perdita di valore di tutti gli asset nazionali espressi in una valuta deprezzata ed anche se nel brevissimo periodo può favorire le esportazioni ma con una crescita non sufficiente a compensare la depatrimonializzazione degli stessi asset.

Pulsante per tornare all'inizio