Banche

  • Un boom di bitcoin in Africa

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi pubblicato su ‘ItaliaOggi’ il 13 novembre 2021

    Da qualche tempo i media esaltano la crescita straordinaria delle criptovalute nei Paesi dell’Africa e, in generale, in quelli emergenti e in via di sviluppo.

    Secondo Chainalysis, la società privata di New York che studia le applicazioni delle nuove tecnologie chiamate blockchain, nel 2020 il mercato delle criptovalute in Africa è cresciuto più del 1200%. Nella top list internazionale dei 20 Paesi, primi per il loro utilizzo, 5 sono africani, la Nigeria, il Kenya, il Togo, il Sudafrica e la Tanzania.

    Per l’Africa non si tratta della quota del mercato ma del numero di cittadini coinvolti. Anche il World Economic Forum afferma che nel 2020 il settore sarebbe cresciuto di 105,6 miliardi di dollari nel continente africano.

    La cosiddetta blockchain è un insieme di tecnologie informatiche che permettono di creare un registro digitale che memorizza le transazioni di dati tra diverse parti collegate tra loro in modo aperto e protetto. Può avere applicazioni positive e innovative in vari settori. Può essere usata anche in rapporto al cosiddetto “internet del valore”, con il quale, invece delle informazioni, si scambiano dei valori, come le monete.

    E qui entrano in gioco le criptovalute, di cui abbiamo parlato in passato. Esse operano globalmente attraverso reti informatiche che mettono in contatto diretto, peer-to-peer, gli utenti e i loro computer. Sono decentralizzate e, quindi, senza la tradizionale gestione centralizzata delle banche e dei governi.

    Sono già parecchie centinaia. Anche tutte le big tech, i giganti tecnologi globali, come Amazon, Google, Facebook, la cinese Alibaba, ecc. lavorano per creare le proprie criptomonete, totalmente private e fuori da ogni tipo di controllo governativo e istituzionale. Ve ne sono per transazioni finanziarie di ogni dimensione, come la dash per piccoli acquisti, il litecoin per pagare le bollette, gli abbonamenti, la paxful in particolare per le rimesse e il bitcoin per operazioni più grandi.

    Per la popolazione africana, che per il 57% non ha ancora accesso ai servizi bancari, esse sono molto attraenti. Basta avere uno smartphone.

    In Africa, anche la debolezza delle monete locali, i tassi di cambio volatili, i sistemi politici e bancari instabili, le restrizioni finanziarie, i rischi d’inflazione e la poca fiducia nelle istituzioni nazionali, giocano un ruolo a favore delle criptovalute.

    Possono essere usate, e lo sono già, per le rimesse dei migranti. I costi di transizione sono inferiori a quelli dei centri di money transfer. Il volume di rimesse supererebbe i 50 miliardi di dollari in criptomonete. Per esempio, un terzo degli utenti della paxful si trova in Africa, in particolare in Nigeria, dove se ne contano già un milione e mezzo.

    Se a livello locale appaiono interessanti, a livello globale le cose sono più complesse. L’andamento altalenante del bitcoin nel 2021 docet! Non si tratta di semplice “volatilità” ma di speculazioni forsennate e fuori da ogni controllo. In caso di un loro crollo, si perderebbe tutto.

    La loro capitalizzazione totale è passata dai 16 miliardi di dollari di 5 anni fa a oltre 2.300 miliardi di oggi. Sono diventate un potenziale “rischio sistemico” e possono provocare degli sconquassi finanziari globali.

    I governi e le banche centrali del mondo sono giustamente preoccupati per la tenuta del sistema monetario. Sottraendosi a ogni controllo, le criptovalute possono anche essere usate da organizzazioni criminali e terroristiche.

    Non è un caso che gli hacker abbiano recentemente sottratto informazioni preziose alla Regione Lazio e alla Siae, chiedendo un riscatto in bitcoin per rilasciare i dati rubati.

    Il G7 e la Banca dei regolamenti internazionali di Basilea hanno definito le criptomonete una «crescente minaccia alla politica monetaria, alla stabilità finanziaria e alla concorrenza».

    Ovviamente, le monete digitali, come l’eNaira della Nigeria o l’euro digitale, non sono da confondere con le criptovalute. Tutti i Paesi del mondo stanno affrontando la digitalizzazione dei pagamenti e dei trasferimenti monetari. Le prime sono gestite dalle autorità governative e dalle banche centrali, le seconde, invece, non avendo alcuna garanzia né controllo, sono delle valute esclusivamente private. Come nel medio evo!

    *già sottosegretario all’Economia **economista

  • Fondi speculativi e sanità Usa

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi pubblicato su ItaliaOggi il 28 ottobre 2021.

    Negli Usa, com’è noto, l’assistenza sanitaria è privata e coperta da polizze assicurative. Da qualche tempo, però, i fondi di private equity stanno comprando pezzi importanti del sistema sanitario americano e anche le reti sanitarie di base. Un fenomeno da tenere sotto la lente, perché «merce di esportazione». Soprattutto in Europa.

    I fondi equity sono poco regolati e puntano al massimo profitto in tempi brevi. Solitamente operano attraverso dei manager che gestiscono capitali di un numero limitato di partner privati e istituzionali. Spesso le loro operazioni di acquisizioni sono fatte attraverso il cosiddetto «leveraged buyout», cioè mediante lo sfruttamento della capacità d’indebitamento della società acquisita. Il che rende indispensabile un ritorno veloce di dimensioni rilevanti.

    La spesa sanitaria negli Usa è una parte notevole del pil. È passata dal 5% del 1960 al 18% del 2020. Dovrebbe arrivare al 20% nel 2024. I costi ospedalieri sono cresciuti del 42% nel periodo 2007-2014 e si ritiene che, in futuro, le spese per la sanità assorbiranno il 25-50% del salario della cosiddetta classe media americana. Fino alla legge Affordable Care Act (ACA) del 2010, meglio conosciuta come Obamacare, una parte del sistema sanitario era regolata e sostenuta con fondi pubblici da due strutture, Medicare per gli over 65 e Medicaid, per le famiglie a basso reddito.

    Pur con i suoi limiti, l’Obamacare ha dimezzato il numero delle famiglie americane ancora senza una copertura assicurativa sanitaria. All’interno dell’Obamacare era stato introdotto il concetto di Accountable Care Organizations (ACOs) per rendere la sanità più efficiente e meno costosa per i pazienti. Invece, si è avuto una maggiore concentrazione del settore sanitario con la formazione di veri e propri cartelli di ospedali, di cliniche e di centri diagnostici.

    Nel 2021 il processo di acquisizioni e di concentrazioni è cresciuto enormemente. Nel secondo trimestre del 2021, rispetto a quello del 2020, gli investimenti per gli acquisti di studi medici sarebbero cresciuti di 10 volte. La società di consulenza Solic Capital Mangement, sostiene che gli investimenti per acquisizioni nella sanità sarebbero stati ben 126,1 miliardi di dollari nel periodo menzionato rispetto ai 12,1 miliardi del 2020.

    Gli istituti di lunga degenza, gli ospedali e la medicina telematica sarebbero i settori più interessati.

    Oggi gli investitori nel sistema sanitario sono principalmente i fondi di private equity e certi enti finanziari specialmente creati per acquisizioni mirate. Il loro appetito è cresciuto anche in relazione all’American Family Bill, di circa 3.500 miliardi di dollari, proposta dal presidente Joe Biden.

    Ovviamente, tra i fondi equity e le assicurazioni è scoppiata una «guerra» per il controllo del settore sanitario americano. Secondo un articolo del New York Times del 2019, un’organizzazione di medici, che fortemente si oppose alla proposta di legge per disciplinare il fenomeno delle «fatturazioni a sorpresa», fatte attraverso la maggiorazione dei costi e la pratica delle prestazioni mediche più costose e, a volte, non indispensabili, aveva avuto un consistente appoggio di due grandi ditte fornitrici dei settori dell’emergenza sanitaria, la Envision, controllata dal fondo equity KKR, e la TeamHealth, controllata dal fondo Blackstone. Essi sono i fondi equity più attivi nella sanità mondiale con parecchie decine di miliardi di dollari di asset.

    Oltre ai fondi leader americani, vi sono quelli con base a Londra e in Francia, che operano soprattutto in Europa e in Italia. La privatizzazione della sanità, se non è regolata, può diventare il problema sociale ed economico più serio per le famiglie e per i governi.

    Lo abbiamo visto durante la pandemia, quando la debolezza delle strutture sanitarie pubbliche, soppiantate da quelle private, e la mancanza di imprese farmaceutiche funzionanti nell’interesse generale, hanno messo i governi e le sanità pubbliche in grande affanno nell’affrontare l’emergenza Covid.

    *già sottosegretario all’Economia **economista

  • L’Ue dà altri due anni di tempo alle banche per la stretta di Basilea 3

    Prima la ripresa economica, poi Basilea 3. Il pacchetto per attuare la stretta sui requisiti globali di capitale, liquidità e leva finanziaria delle banche è pronto, ma la data da segnare sul calendario è l’1 gennaio 2025. E non più l’1 gennaio 2023. Le banche e le autorità di vigilanza hanno bisogno di “ulteriore tempo per concentrarsi sulla gestione dei rischi finanziari derivanti dal Covid e sul finanziamento della ripresa”, si è giustificata Bruxelles, stretta tra le pressioni delle maggiori banche centrali europee (con alcune assenti illustri come Francia e Danimarca) e delle autorità di vigilanza, che nei giorni scorsi erano tornate a chiedere l’implementazione coerente e puntuale degli standard concordati nel 2017.

    Con il suo piano Bruxelles punta a far sì che i modelli interni utilizzati dalle banche per calcolare i propri requisiti patrimoniali non sottovalutino i rischi, garantendo che il capitale necessario a coprirli sia sufficiente. Questo renderà anche più facile confrontare i coefficienti patrimoniali basati sul rischio tra le banche. Il tutto, assicura la Ue, per rafforzare “la resilienza” del settore senza però “comportare aumenti significativi dei requisiti patrimoniali” per gli istituti. A spiegare il valore di questo incremento ci ha pensato il vicepresidente Ue Valdis Dombrovskis in prima persona: con il pieno recepimento di Basilea 3 allo scoccare del 2025, i requisiti patrimoniali delle banche europee aumenteranno in media tra il 3 e il 5% nei primi tempi, fino ad arrivare all’8-9% alla fine del periodo di transizione, nel 2030.

    Cifre che, seppur mitigate dal rinvio della stretta e dalle rassicurazioni di palazzo Berlaymont, non sembrano accendere gli entusiasmi del settore. Dall’Italia, l’Abi ha fatto sapere che è pronta a compiere “una attenta valutazione, anche sotto il profilo della quantificazione degli impatti sia in termini di incremento dei requisiti patrimoniali sia sull’offerta di credito e sull’economia europea in generale” delle decisioni Ue. Anche la Federazione bancaria europea chiede “soluzioni permanenti per mantenere i ratios di capitali attuali delle banche senza ridurre la loro capacità di finanziare la ripresa”, appoggiata anche da Business Europe, la Confindustria europea, che tiene il punto sulla necessità di evitare “aumenti di capitale non necessari per il settore bancario Ue”. Più positivo, ma con riserva, il giudizio di Federcasse che riunisce le Bcc italiane. Il rinvio è “valutato con favore” ma “sono necessari una modalità e un approccio di recepimento degli Accordi finali di Basilea 3+ che non ripetano gli schemi adottati (one size fits all) in occasione del recepimento di Basilea 2 e Basilea 3. Occorre, per questo, consolidare ed accentuare le prime scelte effettuate dal legislatore europeo nel 2019 nella direzione della proporzionalità e dell’adeguatezza strutturali”.

    A tenere banco resta su tutti l’approccio sul controverso ‘output floor’, che richiede alle banche che scelgono di utilizzare i loro modelli interni per stimare il rischio degli attivi di non scendere sotto il 72,5% rispetto a quanto calcolato dai modelli standardizzati. Un sistema che, adottato così, si applicherebbe a tutti i requisiti, in specifico quelli europei. Mentre c’è chi, come le casse di risparmio Ue, chiede di applicarlo limitatamente ai requisiti patrimoniali internazionali.

    Bruxelles ha voluto anche puntare sul “rafforzamento della resilienza” delle banche ai rischi ambientali, sociali e di governance (Esg) prevendendo “stress test periodici sui rischi climatici”. Sono poi stati introdotti elementi di flessibilità, apprezzati dal settore e dall’industria, come la scelta di tenere conto del ruolo economico significativo delle Pmi, la maggior parte delle quali è sprovvista di rating. E, per scongiurare un altro scandalo come Wirecard, saranno messi a disposizione delle autorità di vigilanza “strumenti più forti” anche per supervisionare i gruppi fintech.

  • I predoni della finanza italiana e l’inflazione

    In un’ottica di un mercato globale ogni scelta del singolo attore comporta degli effetti anche per gli altri soggetti di questo complesso scenario internazionale in continua evoluzione. Partendo da questa considerazione andrebbe finalmente preso in considerazione il nesso tra le strategie finanziarie del mondo degli istituti di credito italiani in accordo con i diversi governi succedutisi alla guida del Paese e la inevitabile ricaduta di tali operazioni nella vita quotidiana per imprese e lavoratori.

    Mentre l’Italia è ancora oggi all’interno di una crisi economica e sociale il mondo degli istituti di credito si dimostra ancora alla spasmodica ricerca di un baricentro finanziario ed operativo: basti ricordare l’esodo incentivato con il Fondo di Solidarietà (finanziato dal sistema degli istituti di credito) che sta raggiungendo le centomila (100.000) unità.

    In più, in seguito ad innumerevoli crisi sistemiche legate anche a crescite drogate dall’utilizzo senza limiti di derivati (in questo spalleggiati da una compagine governativa probabilmente complice) il sistema bancario continua ad aumentare le proprie iniziative per conseguire l’obiettivo principale, cioè la creazione di valore da distribuire agli azionisti.

    L’Amministratore delegato di Unicredit, con l’approvazione del presidente Padoan (ex ministro dell’economia nel governo Renzi), durante le prime trattative per l’acquisizione di MpS ha preteso da parte dello Stato, e quindi dai contribuenti, l’impegno ad assumersi l’onere dei costi sociali degli esuberi, oltre tre (3) miliardi, al fine di rendere sostenibile l’operazione. Questa richiesta da parte dell’Istituto UniCredit di scaricare ancora una volta sullo Stato i costi di un’operazione finanziaria si aggiunge alla strategia dello stesso Padoan quando, in qualità di ministro dell’Economia, decise la ricapitalizzazione con 6,5 miliardi di risorse pubbliche fornendo ancora ossigeno alla moribonda Monte dei Paschi (https://www.ticinolive.ch/2021/09/21/istituti-di-credito-il-sistema-italiano/).

    Adesso, senza nessuna vergogna, il medesimo Padoan, in questo caso in qualità di presidente UniCredit, assieme all’amministratore delegato pretendono una nuova ricapitalizzazione di sette (7) miliardi con il medesimo obiettivo di rendere meno onerosa (per l’acquirente Unicredit) e con un maggiore valore aggiunto per gli azionisti l’intera operazione. In altre parole questi nuovi predoni del sistema finanziario italiano pretendono sostanzialmente la creazione di una new company MpS i cui vantaggi andrebbero interamente all’acquirente privato il quale invece di operare, forte del proprio know how, per un risanamento della banca senese acquisterebbe la new Company priva di debiti e personale in esubero interamente scaricati allo Stato (il venditore).

    La bad company, viceversa, gravata di tutti gli oneri economici e sociali, rimarrebbe in carico allo Stato con un ulteriore costo aggiuntivo che già oggi ammonta a quasi 17 miliardi di sole risorse finanziarie dilapidate (*) alle quali aggiungere il costo in termini economici di una inevitabile ricaduta per contribuenti ed imprese dell’operazione in corso.

    I sette (7) miliardi di risorse pubbliche pretesi dall’acquirente minimizzano così il rischio d’impresa rendendo questa operazione finanziaria profittevole a senso unico, cioè a favore del solo operatore privato UniCredit, in quanto lo Stato invece di liberarsi di una capitolo di spesa, come rappresentava da troppo tempo la banca senese, si accollerà l’intero ammontare dei costi economici e sociali per renderli sostenibili e quindi profittevoli per il mercato quando  invece andrebbero contabilizzati all’acquirente.

    In fondo si applica una “sintesi” tra le privatizzazioni delle concessioni della rete autostradale ed il modello Alitalia ora Ita Airways: debito e costi maggiorati solo per lo Stato, e quindi i contribuenti, e sinergie economiche per gli operatori privati.

    Il tutto avviene all’interno di un momento storico nel quale l’economia reale del nostro Paese riesce a segnare una buona crescita ma incerta per la carenza delle materie prime e segnata dall’esplosione dei loro costi come del costo del petrolio

    Sette (7) miliardi dell’operazione new company MpS rappresentano il 26% delle accise annualmente versate dai contribuenti italiani allo Stato. Ridurre ora le accise sui carburanti disinnescherebbe o quantomeno ridurrebbe il Drive inflattivo determinato dalla crescita del prezzo del petrolio e soprattutto allontanerebbe la pericolosa ombre di una stagflazione.

    Si ricorda, Infatti, come lo 82% delle merci viaggi su gomma e, di conseguenza, ogni aumento dei costi della distribuzione si riverserà inevitabilmente sul prezzo finale al banco.

    Una vera sciagura mentre tutti gli esponenti politici straparlano di transizione energetica, si accetta contemporaneamente di ridurre il potere d’acquisto dei cittadini italiani e la competitività per le imprese italiane non intervenendo per ridurre l’impatto inflattivo.

    La stessa discussione in corso in questi giorni sull’utilizzo dei fondi del PNRR e su una giusta riduzione del cuneo fiscale relega la politica a sostegno della domanda interna ai margini dell’attenzione.

    Poi qualcuno si sorprende se dal 1991 le retribuzioni medie in Italia risultino diminuite del –3,4% mentre in Germania segnano un +33,7% ed in Francia un +29,6% (fonte OCSE), la conferma di come negli ultimi ventinove anni (29) la domanda interna sia stata sacrificata ed ogni possibile sostegno dirottato verso la spesa pubblica vero strumento del potere politico aumentata del 46% solo dal 2000 al 2019.

    Sembra incredibile, poi, come tutto questo avvenga alla luce del sole ed a nessun ministro o Presidente del Consiglio vengano chieste chiarificazioni tantomeno da un parlamento ormai affetto da narcolessia ampiamente retribuita.

    In altre parole con questo tipo di operazioni finanziarie, nelle quali lo Stato si libera di un capitolo di spesa, alla fine si creano “dividendi” con risorse pubbliche solo per gli azionisti del gruppo privato, contemporaneamente per il soggetto pubblico invece i capitoli di spesa crescono. Un classico esempio di finanza “argentina” nata dall’alleanza tra predoni della finanza e “rappresentanti dell’interesse pubblico” in virtù di interessi comuni.

    Quando la spirale inflazionistica lasciata libera dal governo e i prezzi continueranno ad aumentare, e magari la benzina assieme al gasolio avranno raggiunto dei prezzi/costi insostenibili per la filiera distributiva e, di conseguenza, i prezzi dei principali generi di consumo saliranno alle stelle non si dovrà guardare solo alle quotazioni del petrolio. Si renderà necessario, invece, comprendere gli effetti di quelle politiche distrattive di risorse di finanza pubblica a favore di gruppi privati ed espressione della complicità tra soggetti pubblici con i nuovi predoni della finanza.

    (*) A.  6.5 mld la prima ricapitalizzazione voluta da Padoan in qualità di ministro dell’economia

    1. 3 mld di costi aggiuntivi per gli oneri sociali del personale in esubero
    2. 7 mld gli ultimi pretesi per un aumento di capitale
    3. incalcolabile il danno reputazionale per l’intero sistema economico italiano
  • La metamorfosi bancaria

    Un recente studio ha dimostrato come quasi il 50% degli utili degli Istituti bancari venga rappresentato dalle commissioni calcolate sulle operazioni sia di cassa che finanziarie. Questo dato è quanto mai interessante e contemporaneamente preoccupante in un’ottica di medio e lungo termine. Il sistema degli istituti di credito, in altre parole, trova le proprie marginalità non più solo dalla funzione istituzionale legata al finanziamento dello sviluppo economico del Paese, e quindi delle imprese, ma la metà degli utili dipende da “semplici” operazioni di cassa o finanziarie la cui valenza risulta assolutamente marginale come ricaduta o moltiplicatore del PIL.

    Buona parte di queste commissioni, infatti, deriva da operazioni legate alla gestione del risparmio privato conseguentemente alla vendita di prodotti finanziari alla propria stessa clientela.

    Va ricordato, nello specifico, come gli stessi istituti di credito conoscano già perfettamente le potenzialità economiche del singolo risparmiatore detenendo presso le proprie filiali i depositi in conto corrente.

    Emerge    così, tanto per cominciare, un evidente conflitto di interessi in quanto la conoscenza dell’importo dei depositi dei potenziali risparmiatori/investitori rappresenta un vantaggio nei confronti dei concorrenti ed un conflitto di interessi con la clientela alla quale successivamente viene proposto un piano di investimenti “mirato”.

    Si viene così a creare una sorta di rendita di posizione a favore degli istituti di credito composta dalle marginalità provenienti da ogni singola operazione legata alla gestione del risparmio privato e dal crescente utilizzo della moneta elettronica espressione della accondiscendenza del sistema politico il quale da decenni, in cambio del finanziamento del proprio debito pubblico, combatte la battaglia contro l’uso del contante.

    Va poi ricordato, inoltre, come la sostanziale comunione di intenti ed interessi tra compagine politica e bancaria avvenga nonostante le critiche della Bce tanto in relazione alla riduzione del limite massimo al contante quanto al trattamento privilegiato riservato dal sistema fiscale italiano agli utilizzatori dei pagamenti elettronici.

    Si apre così, contemporaneamente, un altro problema fondamentale in relazione alla politica di sviluppo del nostro Paese specialmente dopo un biennio terribile legato alle conseguenze della pandemia.

    La costante deriva finanziaria e commerciale del sistema bancario preferito al finanziamento dello sviluppo e quindi del sistema imprenditoriale indica come appaia fondamentale quantomeno la comprensione del “vuoto operativo” che ne deriva nel contesto economico dalla “bigamia bancaria”. Successivamente emerge la necessità di individuare delle scelte operative per avviare in un’ottica di sviluppo quali nuovi attori possano sopperire e sostituirsi al vuoto generato dal “tradimento” della funzione istituzionale del sistema bancario.

    All’interno di questa crisi pandemica molti hanno prima individuato e successivamente utilizzato a larghe mani la Cassa Depositi e Prestiti. Una scelta probabilmente senza alternative nell’immediato ma che dovrebbe risultare legata al solo periodo emergenziale pandemico, non in grado quindi di diventare una scelta strutturale come qualcuno con leggerezza indica. Anche perché sarebbe paradossale come, successivamente alla privatizzazione dei sistema bancario, fosse una istituzione pubblica come CdP quella individuata per sostituire il sistema degli istituti di credito nella funzione di sostegno alla ripresa economica.

    La pericolosa metamorfosi, quindi, degli istituti di credito in negozi di prodotti finanziari comunque dovrebbe suscitare delle legittime preoccupazioni.

  • MpS: l’atto finale

    Strano paese l’Italia. E’di queste ore la notizia che il governo Draghi intenderebbe ricapitalizzare ancora una volta il Monte dei Paschi di Siena con ulteriori tre (3) miliardi dopo i 6,3 mld iniettati dall’ex ministro dell’economia Padoan, ora presidente di Unicredit, l’istituto bancario che dovrebbe acquisire Monte dei Paschi di Siena. Ancora una volta la classe politica intende utilizzare risorse pubbliche per rendere finanziariamente sostenibile l’acquisizione Monte dei Paschi di Siena da parte di Unicredit. Anche perché  va ricordato come solo pochi giorni fa l’istituto bancario senese sia risultato l’ultimo in Europa a seguito degli esiti degli stress test (https://www.ticinolive.ch/2021/08/03/il-monte-dei-paschi-sottoposto-a-uno-stress-test-risultato-inquietante/ ).

    Il  governo Draghi si rende così complice di un disegno economico, politico e finanziario iniziato con l’acquisizione di Monte dei Paschi di Siena con risorse pubbliche voluta dal ministro Padoan (governo Renzi e Gentiloni) il quale ora come presidente di Unicredit, ripeto dell’Istituto bancario acquirente, intende scaricare sulla collettività anche gli ulteriori oneri finanziari derivanti dalla bocciatura degli stress test europei e del la stessa gestione degli esuberi dei dipendenti.

    Sembra incredibile come tutto questo possa avvenire senza alcun interesse o attenzione  dimostrati dalla magistratura per un’operazione che presenta caratteristiche, nella loro gravità, simili alla vicenda delle banche venete ma con esiti opposti.  Sempre lo stesso ministro dell’economia Padoan, in quel caso, scelse di liquidare la Banca Popolare di Vicenza e Veneto Banca a favore di  Intesa Sanpaolo dopo avere sostenuto la transizione dalle quote di risparmio in capitale di rischio scaricando ogni onere e rischio di investimento  sui risparmiatori: una sorta di “bail in” privo di ogni limite.

    Nel caso senese odierno lo Stato, invece, dovrà anche farsi carico degli oltre cinquemila (5.000) esuberi della banca Toscana per diminuire l’ onerosità  dell’acquisizione di Unicredit.

    Il  sistema bancario italiano ha rappresentato fino a questo momento, ma nulla promette di diverso  per il futuro, il peggiore intreccio istituzionale di intrighi tra mediocre e prezzolata classe politica con torbidi interessi finanziari. Basti ricordare come dei dieci milioni  “assegnati” in prestiti al sistema dei partiti questi in bilancio risultino ora come 9,7 milioni di Npl.

    La sintesi di questa “nefanda associazione” di torbidi interessi va interamente a discapito della funzione principale degli Istituti bancari, cioè quella di finanziare la crescita economica.

  • Richard Nixon fece un grosso pateracchio 50 anni fa, cancellando il gold standard e introducendo la fluttazione dei cambi

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi pubblicato su ItaliaOggi il 14 agosto 2021

    Sono passati cinquant’anni dal discorso tenuto dal presidente Richard Nixon il 15 agosto 1971 in cui annunciava misure radicali per il futuro dell’economia e della politica mondiale. Non c’è, però, nulla da festeggiare. Infatti, allora si decise la fine del gold standard. Da quel momento il dollaro non sarebbe stato più convertibile e rimborsabile in oro. In teoria, fino a quel giorno i Paesi con riserve in dollari potevano in ogni momento richiedere la loro riconversione in oro. Gli Usa tornarono liberi di «stampare moneta» senza l’obbligo di possedere una quantità d’oro pari ai biglietti verdi in circolazione.

    Fu accantonato anche il regime dei cambi fissi, che regolava i rapporti tra le maggiori monete, uno dei pilastri del sistema di Bretton Woods, realizzato nella cittadina del New Hampshire nel 1944. Nel sistema monetario internazionale s’introdusse, invece, il cambio fluttuante, che è stato ed è sempre sotto la minaccia della speculazione dei mercati valutari. Purtroppo fu anche l’inizio della «deregulation».

    Negli Usa furono congelati anche i salari e i prezzi per 90 giorni, con una sovrattassa del 10% sulle importazioni. I controlli sui prezzi bloccarono temporaneamente l’inflazione, che, però, ritornò poco dopo più forte di prima.

    Con la decisione unilaterale di far fluttuare il cambio del dollaro si aprì un periodo d’instabilità che portò alla svalutazione della valuta americana, che favorì i conseguenti shock petroliferi del 1974 e del 1979 e, alla fine degli anni settanta, portò i tassi di interesse della Federal Reserve al 20%. Fu uno choc economico globale senza precedenti.

    L’intento di Nixon era quello di indurre i Paesi industrializzati a rivalutare le loro monete rispetto al dollaro per ridurre il crescente deficit della bilancia dei pagamenti americana. Gli effetti, però, furono fuori controllo e incalcolabili. Le cose andarono diversamente. Le nuove «regole del gioco» spianarono la strada alla globalizzazione della finanza.

    È vero che la situazione economica americana non era più sostenibile, anche per i debiti dovuti alle spese della guerra in Vietnam. Le stesse riserve auree erano scese dai 24 miliardi di dollari del 1948 ai 10 del 1971.

    Da quel momento gli Stati Uniti hanno affrontato i loro deficit di bilancio e le loro spese crescenti stampando sempre più dollari. Anzi hanno inondato il mondo di dollari. Nel 1971 in Usa il rapporto debito pubblico/pil era di 36,2%. Oggi ha superato il 135%. In realtà, si dovrebbero aggiungere i debiti dei due giganti immobiliari pubblici, Freddie Mac e Fannie Mae, che furono causa non secondaria della crisi del 2008.

    Da cinquant’anni l’America ha vissuto al di sopra delle proprie possibilità. Per gestire un debito crescente e una situazione finanziaria sempre più malata, gli Usa hanno cambiato nel tempo molte altre norme, abbattendo l’intero apparato di regole realizzate dal presidente Franklin Delano Roosevelt per superare la Grande Depressione del ’29. In particolare nel 1998 fu accantonato il Glass Steagall Act, la legge del 1933, che stabiliva la separazione bancaria tra le banche commerciali e quelle d’investimento, proibendo alle prime di usare i depositi e i risparmi dei cittadini in operazioni finanziarie speculative e ad alto rischio.

    Dopo la Grande Crisi del 2008, dopo i giganteschi quantitative easing finanziari, le tante sfide planetarie e l’attuale crisi pandemica ed economica, dovrebbe essere chiaro che, per evitare pericolose guerre tra le valute, si dovrebbe costruire un nuovo accordo internazionale anche nel campo monetario. Potrebbe essere un sistema multipolare basato preferibilmente su un «paniere stabile di monete». Purtroppo questo problema non è stato ancora risolto!

    Nel discorso del 1971 lo stesso Nixon parlò della «necessità urgente di creare un nuovo sistema monetario internazionale». Forse era consapevole più degli altri della gravità della sua decisione.

    *già sottosegretario all’Economia **economista

  • Stangata carte di credito e bancomat, fino a 85 euro l’anno

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Wall Street Italia del 13 agosto 2021

    La gestione di una carta di credito arriva a costare fino a 85 euro all’anno tra canoni, costi di attivazione e gli altri balzelli, con una spesa media annuo in crescita del +8,5% nell’ultimo biennio. Lo rimarca Consumerismo No profit, che segnala i pericoli insiti nel “Piano cashless” avviato dal Governo.

    Il canone mensile sul carte di credito applicato da banche e società finanziarie va da un minimo di 0 euro a un massimo di 6,30 euro, a seconda del tipo di carta utilizzata. Tale canone mensile è spesso gratuito solo per il primo anno di emissione della carta, mentre per i successivi periodi viene applicato un costo, aggiornato di anno in anno. A tale spesa, aggiunge Consumerismo, si aggiungono i costi di attivazione ed emissione della carta, che possono raggiungere i 10 euro e, quando si effettua un prelievo con carta di credito presso gli sportelli Atm, si va incontro a commissioni pari al 4%, che raggiungono addirittura il 5,2% in caso di prelievi all’interno di un paese extra Ue (circa il 4% in area Ue).

    A tali spese occorre poi aggiungere i costi per blocco o sostituzione della carta in caso di furto o smarrimento, quelli di ricarica per le carte prepagate, invio dell’estratto conto cartaceo, commissioni di cambio valuta applicate nei casi di pagamenti effettuati all’estero, ecc.

    Non va meglio sul fronte del Bancomat – aggiunge Consumerismo – il canone annuale di tale strumento può anche arrivare a 45 euro, e se si decide di prelevare da uno sportello ATM diverso da quello della banca presso la quale si ha il conto corrente, la commissione su ogni prelievo è pari a 1,83 euro.

    “Il piano del Governo per disincentivare i pagamenti in contanti rischia di tradursi in una stangata per i consumatori, mentre il Bonus Pos recentemente varato dall’esecutivo va ad unico vantaggio dei negozianti e non risolve il problema degli eccessivi costi di carte di credito e bancomat – afferma il presidente di Consumerismo, Luigi Gabriele – Una beffa per gli utenti che da un lato sono spinti a eseguire pagamenti elettronici, dall’altro devono affrontare costi crescenti per carte e bancomat, quando invece denaro elettronico e contanti dovrebbe coesistere all’interno del mercato.”

    “Chiediamo a Bankitalia e Ministero dell’economia di intervenire per creare una infrastruttura che abbatta le commissioni interbancarie sui pagamenti elettronici, e azzeri balzelli e costi assurdi applicati dalle banche su carte di credito e bancomat”, conclude Gabriele.

     

  • Riciclaggio nella Ue, 160 mld

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi pubblicato su ‘ItaliaOggi’ il 6 agosto 2021.

    L’Europol stima che l’1% del Pil dell’Unione europea, equivalente a circa 160 miliardi di euro, è coinvolto in attività finanziarie illegali. E’ clamoroso il caso della filiale estone della banca danese Danske Bank, che dal 2007 al 2015 sarebbe stata il veicolo di transazioni molto sospette per oltre 200 miliardi di euro.

    Del resto è risaputo che il riciclaggio di soldi per fini illegali, per il sostegno al terrorismo e per l’evasione e l’elusione fiscale ha assunto dimensioni preoccupanti. Anche le reti criminali si sono dimostrate molto esperte a “dribblare” i regolamenti e i controlli dei singoli Paesi, sfruttandone le differenze, le incongruità e anche le reciproche avversità. In questa materia l’Unione europea si “barcamena” tra un desiderato coordinamento centralizzato e i provvedimenti dei diversi governi.

    Recentemente la Commissione ha presentato delle condivisibili proposte legislative al Parlamento e al Consiglio europeo per consolidare le norme Ue per contrastare il riciclaggio di denaro e il finanziamento del terrorismo. Da notare che inizialmente l’iniziativa era stata osteggiata da alcuni Paesi membri, tra cui Cipro, Malta ed Estonia.

    Non convincente, invece, è l’introduzione del massimale di 10.000 euro per i pagamenti in contanti. Si ricordi che in Italia esso è di 2.000 euro. In un attimo, tutta la passata battaglia ideologica di casa nostra sull’argomento è stata spazzata via.

    Il citato pacchetto mira anzitutto a creare una nuova autorità europea in materia di riciclaggio. E’ previsto un regolamento con norme direttamente applicabili. C’è una direttiva, relativa agli organismi di vigilanza, da recepire ai vari livelli nazionali. Lungimirante, ci sembra, è il regolamento per tracciare i trasferimenti in cripto-valute.

    La nuova autorità europea dovrebbe rafforzare la vigilanza e prevedere un unico sistema integrato per meglio coordinare gli organismi nazionali di monitoraggio. Gli attuali registri nazionali dei conti bancari dovrebbero essere collegati tra loro, consentendo alle varie Unità d’informazione finanziaria di accedere rapidamente ai movimenti sui conti correnti. Compito non secondario sarebbe la vigilanza su alcuni enti finanziari che si ritengono più rischiosi.

    Per quanto riguarda le cripto-valute e le cripto-attività, si rileva che attualmente solo alcuni prestatori di detti servizi sono soggetti alle norme di antiriciclaggio. Il che è una negligenza grave che potrebbe essere sfruttata anche da interessi illegali. Perciò è positiva la previsione di modifiche per la tracciabilità dei trasferimenti di cripto-attività, come i bitcoin. Saranno inoltre vietati i portafogli anonimi di cripto-attività.

    Naturalmente il riciclaggio è un fenomeno globale che richiede una forte cooperazione internazionale. La Commissione è già parte del Gruppo di azione finanziaria internazionale (Gafi), che è il garante a livello mondiale della lotta al riciclaggio di denaro. Gli elenchi del Gafi saranno inseriti in quelli dell’Ue. Essi avranno una “lista nera”, in cui figurano la Corea del Nord e l’Iran, e una “lista grigia”.

    Quest’ultima comprende 22 Stati. Oltre a quelli sospettati di terrorismo o coinvolti in guerre, ci sono alcuni dei paradisi fiscali più “gettonati” da interessi europei, tra cui le Barbados, le Cayman, Giamaica, Panama Albania e Malta (!). Anche la Romania stava per esservi inclusa.

    È incredibile che vi siano coinvolti dei Paesi europei e persino dell’Ue!

    Il documento è ricco di dati che evidenziano i rischi connessi ai vari settori economici influenzati o influenzabili dal riciclaggio di soldi sporchi. Ad esempio, si afferma che esso opera principalmente ancora attraverso il trasferimento di contanti e che le banconote da 500 euro sono state largamente usate a tal fine. Si stima che a livello mondiale il riciclaggio sfrutterebbe il mercato immobiliare per 1.600 miliardi di dollari l’anno e quello dei diamanti, che è concentrato soprattutto in Belgio. Il rapporto rileva la crescita dell’utilizzo dei paradisi fiscali quali veicoli per il riciclaggio: già nel 2016 i residenti Eu tenevano ben 1.600 miliardi di dollari nei centri off shore.

    Le nuove proposte della Commissione affrontano la sfida principale per il futuro dell’Unione: operare congiuntamente, senza sabotaggi di varia natura, per fronteggiare e sconfiggere il riciclaggio di soldi sporchi, che mina la sicurezza, la stabilità e il bilancio dell’Europa.

    *ex sottosegretario all’Economia **economista

  • Bruxelles prova a debellare il denaro sporco, che vale l’1% del Pil europeo

    Rappresenta circa l’1% del prodotto interno lordo annuo della Ue. Macchia la reputazione delle istituzioni, erode la fiducia nelle banche e nelle autorità e provoca danni difficili anche da quantificare. Per questo in Europa è venuto il momento di un’azione comune anti-riciclaggio capace di chiudere la porta ai flussi sospetti di denaro sporco che circolano invisibili da un lato all’altro dell’economia europea. “Stiamo parlando di molti miliardi di euro collegati ad attività illecite” che “hanno un impatto su tutta la società” e “ogni scandalo del riciclaggio è uno scandalo di troppo” perciò “il lavoro per chiudere le lacune del nostro sistema finanziario non è ancora finito”, hanno spiegato il vicepresidente dell’esecutivo Ue Valdis Dombrovskis e la commissaria per i Servizi finanziari Mairead McGuinnes presentando alle agenzie di stampa il nuovo pacchetto legislativo.

    Il primo passo è quello di creare una nuova autorità europea (Amla) che rileverà i poteri attualmente detenuti dall’Autorità bancaria europea e supervisionerà direttamente le istituzioni finanziarie transfrontaliere più rischiose. Per le entità non finanziarie ci penseranno invece le autorità nazionali. Che nella nuova agenzia troveranno un centro di coordinamento. Con uno staff di 250 funzionari, l’Amla si occuperà dei proventi del crimine e del traffico di droga, ma anche di elusione, finanziamento del terrorismo, tratta di esseri umani e corruzione. Per la scelta della sede, l’associazione bancaria italiana Abi lo scorso 10 giugno con una lettera del presidente Antonio Patuelli e del direttore generale Sabatini, aveva sollecitato il governo ad assumere l’iniziativa presso l’Unione Europea affinché l’Autorità sia posta in Italia. I vertici Abi sottolineavano che in Germania ha sede la Bce, in Francia l’Autorità bancaria europea, mentre l’Italia finora non ospita alcuna autorità finanziaria europea.

    Nel frattempo, le norme anti-riciclaggio saranno raccolte in un codice unico vincolante sfidando la riluttanza mostrata da alcune capitali in questi anni. “In passato abbiamo avuto una serie di casi di altissimo profilo” e “il problema non è stato risolto”, ha ammesso McGuinness, ricordando gli oltre 200 miliardi di fondi sospetti che tre anni fa transitarono dalle filiali estoni della Danske Bank senza che nessuno se ne accorgesse. E mettendo tutti in guardia che adesso l’Ue intende “assicurarsi che le regole vengano seguite”. Anche nel tech, dove le criptovalute sono sempre più usate per il riciclaggio di denaro virtuale. Per questo tutti i trasferimenti in Bitcoin o simili all’interno dell’Ue dovranno essere tracciabili al pari del denaro reale. Per i pagamenti in contanti invece Bruxelles propone di introdurre un tetto a 10mila euro, pur rispettando i limiti inferiori già presenti in circa 2 terzi degli Stati membri (si va da una soglia di 500 euro in Grecia ai 10mila euro in Repubblica Ceca, passando per i 2mila dell’Italia). Se tutto questo vale all’interno dell’Ue, il resto del mondo comunque non è salvo: dopo le liste nere e grigie dei paradisi fiscali, Bruxelles propone anche nuovi elenchi dei Paesi terzi che non hanno norme adeguate contro il riciclaggio. Con la possibilità di sanzionarli.

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