Banche

  • L’Euro digitale darà il colpo di grazia al sistema bancario?

    Negli ultimi 10 anni solo in Italia sono spariti ben 266 Istituti di Credito, sono state chiuse oltre 10.126 filiali o sportelli bancari, nello stesso periodo di tempo hanno lasciato il sistema 47.121 bancari. E l’arrivo dell’EuroDigitale fa pensare al peggio.

    I dati arrivano direttamente dal report statistico di Banca D’Italia dal titolo “Banche e Istituzioni Finanziarie: Articolazione territoriale”

    Negli ultimi 12 mesi sono stati invitati a lasciare gli sportelli bancari ben 6.900 dipendenti (il 14% della perdita totale nei 10 anni). Sono scomparsi 14 Istituti di Credito e, al tempo stesso, sono state chiuse 831 filiali sul territorio. Tutto questo ha costretto ben 119 comuni italiani ad essere privati di ogni riferimento bancario. In totale sarebbero ormai oltre 500 i comuni italiani privi di Sportelli Bancari. Si tratta soprattutto di piccoli centri, dove l’unico vero riferimento ora resta l’Ufficio Postale

    Ma, a quanto pare, il peggio per il vecchio sistema bancario deve ancora arrivare con l’introduzione dell’Euro Digitale che la BCE sta preparandosi a lanciare. L’euro digitale sarebbe più sicuro e privo di rischi rispetto al contante anche se nessun mezzo di pagamento privato è davvero completamente. Un danno per le Banche Commerciali, soprattutto quelle poco solide e sicure e quelle che non si sono riuscite ad adattare ai ritmi dettati dalla digitalizzazione.

    In Europa vige ancora il Bail-In, cioè la norma che lega i fallimenti bancari al rischio per i depositi dei clienti che hanno scelto quella banca poco solida. Non essendo perciò sicuro al 100% alcun tipo di pagamento privato ed esistendo un sistema alternativo di valuta digitale supportato e regolato dalle banche centrali, è molto probabile che tanta gente cercherà di avvalersi di quel sistema che offrirebbe maggiori garanzie e sicurezza ai loro risparmi.

    Poiché l’Euro Digitale sarà un sostituto completo del denaro fisico il ruolo di intermediario delle banche commerciali o online sarebbe, in teoria, molto limitato. Con il denaro trattenuto direttamente dal cliente (sul suo telefono o altro dispositivo digitale) non ci sarebbe motivo di coinvolgere un intermediario potenzialmente costoso e non garantito.

    La data ipotetica per l’introduzione dell’Euro Digitale potrebbe essere 2026, come preannuncia in un articolo di Wall Street Italia Fabio Panetta, uno dei fautori della valuta digitale.

  • La Ue prolunga al 2022 le garanzie per sgravare le banche del peso dei crediti deteriorati

    Le Gacs, le garanzie pubbliche per facilitare la cessione di crediti andati a male nate per far fronte ai crac bancari dopo la grande crisi finanziaria, tornano in grande spolvero, con il via libera della Commissione europea a una nuova estensione, fino a giugno 2022.

    Un segnale di attenzione al credito e alla tenuta del sistema bancario, assieme alle garanzie pubbliche sui prestiti e alle moratorie, nel post-pandemia. E arriva in coincidenza con una data simbolo, quella in cui l’Unione europea andrà per la prima volta sui mercati con un eurobond che è al suo debutto assoluto: quello per finanziare il recovery fund. Se la Bei, per gli investimenti, e il fondo Sure, per le misure per il lavoro, sono già all’opera, dopo il via libera dei parlamenti nazionali Ue ora tocca alla parte più consistente del pacchetto europeo, il ‘Next Generation Ue’, andare alla prova del mercato.

    Con un bond sindacato stimato in circa 10 miliardi di euro e che dovrebbe ‘prezzare’ poco sopra il tasso di riferimento mid-swap. Da qui ad agosto sono tre le emissioni sindacate in programma per finanziare gli investimenti green e digitali del recovery. E da settembre, pubblicata la documentazione necessaria, potranno partire i green bond, che dovranno costituire circa un terzo dei nuovi eurobond.

    Il sistema di garanzie italiano per le banche era stato approvato per la prima volta nel febbraio 2016 e prolungato l’ultima volta nel maggio 2019. Ora sarà valido fino al 14 giugno 2022. L’intento – con gli Npl italiani che costituivano la massa più ampia nella Ue – era quello di ridurre il divario fra il prezzo richiesto dalle banche, alle prese con una tabella di marcia stringente (e mal digerita) dell’Europa per ripulire i bilanci da crediti andati a male, e quello che i compratori erano disposti a pagare. Per evitare quella che allora si temeva sarebbe stata una svendita a saldo di attivi bancari. A

    settembre scorso, con 27 ‘accessi’, l’aiuto pubblico aveva liberato qualcosa come 74 miliardi di crediti cattivi, la metà della riduzione complessiva di quel fardello sul credito italiano. Dunque, se ha funzionato, si continuerà ad usarlo ora che gli Npl sono attesi nuovamente in rialzo a causa della pandemia: varrà per le banche che soddisfano determinate condizioni e sui titoli senior a basso rischio, emessi da veicoli di cartolarizzazione privati che li aiutino a finanziare la vendita dei loro portafogli. Le tranche di finanziamento più rischiose, invece, saranno vendute a investitori privati e non saranno garantite dallo Stato. Accanto a questa facilitazione, ci sono quasi 144 miliardi di moratorie attive sui prestiti in Italia, richieste di garanzie pubbliche sui prestiti alle pmi per oltre 170 miliardi, garanzie Sace alle imprese medio-grandi per oltre 24 miliardi

  • Il Consiglio Stato respinge il ricorso contro la riforma delle banche popolari

    Il Consiglio di Stato sblocca la riforma delle banche popolari targata governo Renzi che impone a quelle con attivo superiore a 8 miliardi di trasformarsi in società per azioni. Per i giudici di Palazzo Spada il decreto e le successive disposizioni attuative da parte della Banca d’Italia sono legittimi e il modello organizzativo della Spa è “idoneo e necessario per assicurare il celere reperimento di capitale sul mercato, anche al fine di prevenire crisi bancarie”.

    Si chiude così un contenzioso durato anni, finito davanti alla Corte Costituzionale e in sede europea, aperto da alcuni soci che ritenevano – senza successo – la nuova normativa incostituzionale, contestando il venir meno della vocazione mutualistica. Nel frattempo, in seguito al riassetto del sistema, con acquisizioni e fusioni, molte questioni sono venute meno, ma la decisione era particolarmente attesa dalla Popolare di Sondrio, ultimo istituto ad avere mantenuto la forma cooperativa, e che ora potrà diventare società per azioni. Il titolo ha chiuso in rialzo a +0,84%.

    Già la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, cui il Consiglio di Stato aveva girato il quesito, aveva ritenuto legittimo fissare una soglia di attivo oltre la quale le banche sono obbligate a trasformarsi in società per azioni, ma “a condizione che tale normativa sia idonea a garantire la realizzazione degli obiettivi di interesse generale”. A questo principio si è rifatto il Consiglio di Stato. Nelle 156 pagine delle sentenza sella VI Sezione, i giudici evidenziano che la scopo è stato adeguare la forma societaria alle dinamiche del mercato in modo da garantire alle banche “una maggiore competitività, un rafforzamento patrimoniale e di capitalizzazione, nonché una maggiore trasparenza dell’organizzazione, nell’operatività e nella loro funzionalità”: elementi “essenziali” per evitare il dissesto e “l’effetto contagio”. La normativa, secondo il Consiglio di Stato, è “idonea” al perseguimento dell’obiettivo, “dato dal rafforzamento patrimoniale delle banche di grandi dimensioni e, dunque, dalla mitigazione del rischio di una loro crisi, foriera di possibili pregiudizi alla stabilità del sistema finanziario e bancario, oltre che dei settori economici influenzati dalla concessione del credito bancario”. La soglia degli 8 miliardi è ritenuta “ragionevole” e “proporzionata”. A cascata, sono legittime anche tutta una serie di altre disposizioni funzionali: dai poteri attuativi attribuiti a Bankitalia alle modifiche sulle maggioranze per assumere le delibere assembleari.

  • Archegos: un altro fondo a picco

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di di Mario Lettieri e Paolo Raimondi pubblicato su ItaliaOggi il 22 aprile 2021

    La morte in carcere dello speculatore americano Madoff, non chiude un ciclo. Anzi, il susseguirsi di continui fallimenti e di sconquassi finanziari dimostra che dopo la Grande Crisi non sia cambiato proprio niente. Aveva orchestrato il più grande «schema Ponzi», la piramide finanziaria truffaldina, che pagava i primi investitori con i nuovi capitali raccolti. Un’operazione di almeno 50-60 miliardi di dollari!

    La vicenda di Madoff, con la sua condanna a 150 anni di prigione, sembra la classica esagerazione americana: punire un singolo, con il massimo della pena e della pubblicità mediatica, e lasciare i meccanismi e il potere della finanza pressoché intatti.

    Il più recente caso è quello del fondo hedge Archegos, fondato dallo speculatore Bill Hwang. Com’è noto, i fondi hedge gestiscono i capitali degli investitori con l’intento di evitare loro rischi e volatilità dei titoli. Il problema, però, è come lo fanno.

    Il suo primo fondo, il Tiger Asia Management, fu investito dal crollo della Lehman Brothers. In seguito, fu accusato dalla Security Exchange Commission di insider trading in operazioni di vendita allo scoperto, anche con titoli cinesi. Se la cavò con una multa soft di 44 milioni di dollari. Però, per quattro anni non poté operare sul mercato di Hong Kong.

    Nel 2014 creò l’Archegos Capital Management. Si tratta di un fondo hedge ancora più ristretto e selezionato, un family fund, con cui gestisce i suoi capitali e quelli di pochi altri privilegiati. In questo modo sfugge ai controlli e alla vigilanza delle agenzie preposte. Fa parte, appunto, del cosiddetto shadow banking.

    Lo strumento più spregiudicato di Archegos è stato l’utilizzo della leva finanziaria, il leverage, per avere maggiori disponibilità finanziarie partendo da un piccolo capitale. È arrivato così a gestire tra 50 e 100 miliardi di dollari.

    Nell’operazione sono state coinvolte tutte le maggiori banche mondiali, tra cui la giapponese Nomura, le americane Goldman Sachs e Morgan Stanley, il Credit Suisse, la Deutsche Bank, ecc. Con i prestiti, Hwang ha investito, tra l’altro, in azioni americane e cinesi, dando i titoli in garanzia. L’accordo era che, qualora essi dovessero perdere di valore, le banche creditrici avrebbero potuto chiedere di reintegrare le garanzie, la cosiddetta margin call, o, in ultima istanza, vendere i titoli per contenere le perdite. È esattamente ciò che è successo. Il Credit Suisse, per la seconda volta in poche settimane, avrebbe perso circa 4 miliardi di euro.

    Le banche conoscono perfettamente i giochi, per cui la loro sorpresa non è invocabile. Esse usano, appunto, i cosiddetti fondi hedge, entità autonome e separate dalle stesse banche, per fare delle operazioni molto rischiose e incassare commissioni e guadagni consistenti. In una situazione anomala di tassi bassissimi e anche negativi, quando la leva finanziaria è molto alta, basta un piccolo cambiamento della politica monetaria o uno scossone negativo dei titoli messi a garanzia per far cadere il castello di carte. E i derivati emessi su detti titoli sono, ovviamente, i primi a risentirne.

    Secondo la Banca dei Regolamenti Internazionali di Basilea nel 2019 il valore nozionale dei derivati finanziari otc ha raggiunto il picco di 640 mila miliardi di dollari. Come abbiamo più volte evidenziato, si tratta di operazioni molto rischiose che sono tenute solitamente fuori dei bilanci delle banche coinvolte e non sottoposti alle regole e alla vigilanza delle autorità preposte. Per esempio, non sono disciplinate dalle cosiddette stanze di compensazione, le clearing house, che garantiscono che le controparti siano in grado di portare a termine i contratti derivati.

    Gli esperti del settore e taluni economisti, anche molto noti, si affrettano sempre ad affermare che dovrebbe essere preso in considerazione il valore lordo di mercato (gross market value), quello che evidenzia il rischio e cosa sarebbe necessario per chiudere i contratti dei derivati in essere in un determinato momento. Naturalmente, si tratta sempre di parecchie migliaia di miliardi di dollari.

    Il caso del recente crac di Archegos dimostra, in verità, il contrario. Esso prova che, in caso di crisi, è il nozionale che entra in gioco. E può creare un enorme effetto valanga difficilmente arrestabile.

    Siamo alle solite. I grandi pescecani della finanza continuano a creare rischi sistemici. Manca, purtroppo, una legislazione stringente e globale.

    *già sottosegretario all’Economia **economista

  • La Consob pone fine alla trasparenza rafforzata in Borsa

    Passato il crollo e soprattutto la turbolenza della Borsa causata dalla prima ondata della pandemia da Covid 19, in Piazza Affari si torna alla normale soglia degli obblighi di trasparenza nell’azionariato. Lo ha deciso la Consob, che un anno fa era intervenuta anche alla luce del rischio di scalate ‘selvagge’, favorite da quel momento di eccezionale nervosismo dei mercati.

    La Commissione di controllo sulla Borsa e sulle società ha infatti disposto a partire dal 14 aprile la fine del regime di trasparenza rafforzata sulla comunicazione delle partecipazioni rilevanti nelle società quotate ad azionariato diffuso. Il 9 aprile del 2020, grazie anche ai poteri che le furono conferiti col ‘decreto imprese’, il provvedimento Consob aumentò il numero delle aziende, da 48 a 104, quasi la metà dell’intero listino, per cui vi è l’obbligo per gli investitori di comunicare le quote detenute, che scesero dal 3 all’1% per le grandi società e dal 5 al 3% per quelle di minore dimensione.

    Un provvedimento rinnovato fino a oggi ogni tre mesi, mentre ora torna in vigore la sola normativa ordinaria. L’obbligo di comunicazione delle variazioni delle partecipazioni rilevanti detenute nelle società italiane quotate in Borsa scatta quindi di nuovo al superamento della soglia del 3% per le imprese a capitalizzazione medio-alta e al superamento della soglia del 5% per quelle a bassa capitalizzazione. Restano invariati gli obblighi relativi al superamento delle soglie successive. Quanto alla trasparenza sulle dichiarazioni degli obiettivi investimento, da mercoledì l’obbligo di comunicazione scatta al superamento della soglia del 10% dell’azionariato e non più della soglia del 5%.

    Per la Consob è stato un giorno importante anche per lo svolgimento di un convegno a lungo rimandato per l’emergenza Covid e ora tenuto on line in memoria del già direttore generale della Commissione, Angelo Apponi. Esponenti della finanza, regolatori, docenti universitari e componenti della Commissione hanno fatto il punto sull”evoluzione dell’informativa finanziaria negli ultimi 30 anni’, con Stefano De Polis, segretario generale dell’Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni, che ha spiegato tra l’altro come il modello coi 2 comitati, strategico e tecnico, sia “stato confermato nel recente ampliamento del protocollo di collaborazione tra Banca d’Italia e Consob” e come la sua applicazione sia “in predicato anche per la rivisitazione degli accordi di collaborazione tra Ivass e Consob”.

  • Obiettivo: il risparmio privato

    La democrazia rappresenta un sistema che esprime e tutela determinati valori e principi all’interno dei quali i sistemi politici cercano di adattarvisi per raggiungere i propri obiettivi ed attuare l’agenda politica. Questi Valori democratici definiscono il perimetro all’interno del quale gli obiettivi programmatici delle diverse forze politiche devono rimanere nell’ arco temporale della evoluzione storica di un paese: ovviamente tanto più risultano radicati questi principi tantomeno possono venire messi in dubbio.

    Il nostro Paese viene considerato una democrazia ormai consolidata, grazie alla separazione dei poteri legislativo, giurisdizionale ed esecutivo. Un consolidamento democratico, ora forse anche politico, caratterizzato quindi anche da un buon livello di alternanza alla sua guida, dopo decenni di “una democrazia bloccata” legata agli effetti della contrapposizione tra il blocco occidentale e quello sovietico, a livello internazionale, i cui effetti si manifestavano nella impossibilità di inserire il PCI come una reale alternativa per la guida dell’Italia. Dopo la caduta del muro di Berlino i due schieramenti di centrodestra e centro-sinistra, entrambi espressione di partiti costituzionalmente democratici, si contendono la guida del Paese nella democratica competizione elettorale.

    In due occasioni, tuttavia, nel novembre del 2011 e nel febbraio del 2021, la politica ha alzato bandiera bianca lasciando la guida nostro Paese prima a Monti ed ora al prof. Draghi. La democrazia italiana al di là delle diverse rotte politiche sostanzialmente si è sempre basata sulla “divisione operativa” dei poteri, una vera e propria diarchia, all’interno della quale la politica gestisce la spesa pubblica mentre il sistema bancario il settore creditizio (26.11.2018 https://www.ilpattosociale.it/attualita/la-vera-diarchia/).

    Come logica conseguenza di questa “divisione” dei poteri la storia della politica italiana ci dimostra come mai nessun governo, anche se espressione dei più diversi accordi di coalizione politica, si sia rivelato in grado di ridurre la spesa pubblica. Anzi, nella sua articolata complessità l’intera classe governativa ha sempre inserito nuovi capitoli di spesa per raggiungere quegli obiettivi di consenso politico che in una democrazia permettono il raggiungimento oppure il mantenimento del potere.

    La pandemia da covid-19 ha così visto il nostro Paese presentarsi nel febbraio 2019 con un debito pubblico al 135% sul PIL mentre buona parte delle altre nazioni non raggiungevano il 100% e la Germania il 69%. Numeri che indicano la responsabilità di tutti i governi che si sono susseguiti negli ultimi 20 anni alla guida nostro Paese e che hanno portato ad un aumento del +85% della spesa pubblica. In questo contesto l’emergenza pandemica di fatto ha reso necessario il reperimento di nuovi fondi straordinari distruggendo così questo fragile equilibrio espressione di tale diarchia.

    L’assoluta insufficienza della disponibilità finanziaria dello Stato per far fronte alle emergenze economiche e finanziarie legate alle chiusure forzate delle attività economiche ha offerto l’occasione per avanzare da parte del sistema degli istituti di credito, appoggiato da buona parte della classe politica, ad individuare come ultima chance operativa strategica il risparmio privato. In questo senso va ricordato come l’ammontare totale raggiunto dal risparmio privato attualmente vada oltre i 10.000 miliardi di euro mentre le risorse liquide “giacenti” sui conti correnti risultino di circa 1.740 miliardi, pari sostanzialmente al valore annuale del PIL italiano.

    Con questi valori le strade che si aprono ad una classe politica e dirigente italiana in difficoltà nel reperire nuove risorse finanziarie ed avendo già aumentato dall’inizio della pandemia ad oggi il debito pubblico di 25 punti percentuali (135% al 160%/Pil mentre la Germania dal 69% al 75% sono sostanzialmente due: la prima rappresentata da una patrimoniale (1) ed una seconda più articolata.

    La patrimoniale venne imposta ai contribuenti italiani nel 1992 dal governo Amato sotto forma di prelievo forzoso del 6×1000 sui conti correnti per una crisi di liquidità. Come scelta strategica di finanza straordinaria presenta comunque un orizzonte di breve termine oltre a dovere presentare come contropartita una semplificazione e una riduzione della pressione fiscale (L. Einaudi).

    La seconda opzione, invece, torna a porre al centro dell’attenzione il risparmio privato in continua crescita. Questo fenomeno risulta evidente da oltre 10 anni e si manifesta con una espressione cristallina della insicurezza del contribuente italiano nei confronti degli esiti della gestione pubblica delle risorse, quindi come logica conseguenza della mancanza di fiducia della cittadinanza nei confronti della propria classe politica.

    Con la pandemia questo senso di insicurezza ha trovato nuove motivazioni. In questo contesto la classe politica e dirigente italiana, che rappresentano la principale causa di questa situazione di incertezza, intendono penalizzare gli effetti della propria inadeguatezza in perfetta sintonia con il sistema degli istituti di credito. L’idea individua nella penalizzazione delle “giacenze” di liquidità (superiori a 50.000 euro?) a causa dell’emergenza sanitaria ed economica e conseguentemente finalizzarla verso consumi ed investimenti (2).

    All’interno, invece, di un sistema democratico consumi ed investimenti devono rappresentare la libera scelta di un consumatore e di un risparmiatore ed entrambi possono venire influenzati da sgravi fiscali e non certo penalizzati attraverso penalizzazioni fiscali.

    Anche il solo pensiero progettuale di appropriarsi del risparmio privato rappresenta la limpida espressione di uno Stato che intende sacrificare i principi costitutivi della democrazia per la “banale” ricerca di nuova liquidità straordinaria.

    Le risorse economiche rappresentano, anche nella semplice forma di liquidità depositata presso gli istituti di credito, il frutto legittimo delle attività professionali e dei sacrifici dei contribuenti. Queste già vengono mantenute all’interno del sistema bancario con l’obiettivo di trasformarsi in credito al sistema produttivo e così favorire la crescita economica.

    La pandemia ha evidenziato come tali risorse anche se in forma di liquidità non risultino più sufficienti non tanto alla crescita economica ma quanto al finanziamento complessivo della stessa diarchia. Sostanzialmente questa seconda opzione risulta finalizzata al finanziamento, ancora una volta, della spesa pubblica anche se in un momento di emergenza pandemica e magari contemporaneamente fornire risorse aggiuntive al sistema bancario stesso con l’obiettivo di acquistare anche i titoli del debito pubblico.

    Il frutto quindi di un comportamento virtuoso del quale il risparmio ne presenta l’espressione diventa adesso l’oggetto del desiderio dei soggetti titolari della diarchia i quali non esitano a bypassare senza ritegno anche gli elementari principi democratici a tutela del risparmio e del lavoro.

    L’Italia, e non da oggi, rappresenta un sistema di interessi politici ed economici nel quale la ragione di Stato esprime priorità sempre superiori anche ai principi costitutivi di un vero Stato democratico dal quale passo dopo passo il nostro Paese si sta irrimediabilmente allontanando.

  • Per l’indicatore Buffet è di nuovo allarme bolle finanziarie

    Le Borse mondiali rischiano di crollare nei prossimi mesi. Lo indica “l’indicatore Buffett”, che con il 123% ha superato il precedente record del 121% prima dello scoppio della bolla delle dot-com all’inizio degli anni 2000. L’indicatore, dal nome dal suo ideatore, il finanziere americano Warren Buffett, a capo della Berkshire Hathaway, prende in considerazione la capitalizzazione di mercato combinata delle azioni quotate in borsa in tutto il mondo e le divide per il prodotto interno lordo globale. Come riporta Wall Street Italia “il livello elevato raggiunto dall’indicatore riflette anche il fatto che i lockdown legati alla pandemia, le chiusure di attività e le restrizioni sui viaggi hanno depresso la crescita economica. Tutto questo mentre gli interventi dei governi (vedi soprattutto gli Stati Uniti) hanno pompato artificialmente i prezzi delle azioni”.

    Nel 2001, quando lo presentò per la prima volta, Buffet definì l’indicatore, “la migliore misura in grado di valutare dove si trovano i mercati azionari in un dato momento”.

    Secondo alcuni osservatori, l’indice avrebbe però alcuni difetti tra i quali il confronto tra le valutazioni attuali delle azioni con i dati del PIL degli anni precedenti.

    Secondo Goldman Sachs, invece, il rischio non sarebbe imminente, anzi, in un nuovo report intitolato “Bubble Puzzle”, stilato proprio dalla banca americana, e che analizza alcuni esempi storici di bolle finanziarie, da quella dei tulipani del XVII secolo alla crisi dei mutui subprime del 2007, sembra addirittura che i rischi di una bolla imminente sono relativamente bassi.

  • Amsterdam supera Londra per appeal agli occhi degli investitori

    Londra non è più la capitale europea della finanza. Con la Brexit, Amsterdam attira più investimenti ed è diventata il nuovo principale ‘hub’ finanziario del Vecchio Continente. E questa è una diretta conseguenza della Brexit, in quanto la causa principale dello ‘shift’ è il divieto imposto alle istituzioni finanziarie con sede nell’Ue di investire oltremanica, perché Bruxelles non ha riconosciuto alle Borse e alle sedi di negoziazione del Regno Unito lo stesso status di vigilanza del suo. Il motivo? Essenzialmente perché Londra, a sua volta, non ha riconosciuto alcuna vigilanza europea alle aziende Ue che operano nella City. Ora si punta a riaprire il negoziato, ma non sarà facile farlo. E nel frattempo i capitali sono volati da Londra ad Amsterdam.

    Tuttavia, ci si chiede: perché questi capitali si sono rivolti principalmente ad Amsterdam e non a Francoforte o a Parigi? Secondo gli esperti esistono almeno due ragioni. La prima è che Amsterdam è molto più simile a Londra di Francoforte e Parigi, non solo per la lingua ma anche perché culturalmente l’Olanda è più simile alla City di Londra. Gli operatori finanziari si sentono più a loro agio lì che nelle altre sedi europee. La seconda ragione è più sostanziale: perché l’Olanda ha una fiscalità nettamente più vantaggiosa per il mercato dei capitali rispetto a quella delle altre capitali europee.

    L’Olanda viene equiparata cioè a un ‘paradiso fiscale’. Insomma, le grandi aziende, le cosiddette corporate, riescono ad avere accordi ad hoc, soprattutto per quanto riguarda le tasse sugli utili societari, con le autorità olandesi. Inoltre anche per quanto riguarda il trading azionario conviene di più spostarlo ad Amsterdam perché si pagano meno tasse. E questo indubbiamente pone un problema di fondo all’Unione europea: come fare a rendere più equo il ‘campo di gioco’? Ovviamente Amsterdam ha tutto l’interesse a lasciare le cose come stanno, visto che è diventata la calamita che attira la maggior parte dei capitali in uscita da Londra. Il Financial Times ha stimato uno spostamento immediato di 6,5 miliardi di euro verso l’Ue, non appena il periodo di transizione della Brexit si è concluso alla fine dello scorso anno. Si tratta di circa la metà del volume d’affari che le banche e gli intermediari londinesi avrebbero normalmente gestito se il Regno Unito fosse stato ancora un Paese membro. Come nota lo stesso Ft la strada verso l’unione dei mercati dei capitali in Europa è “ancora lunga”. A Bruxelles, il fulcro di questa strategia è l’Unione dei mercati dei capitali da tempo promessa, che mira a sbloccare i flussi di investimento transfrontalieri e ad aumentare l’accesso ai finanziamenti per le imprese europee.

    Il piano d’azione sull’Unione dei mercati dei capitali (Cmu) è stato lanciato dall’Ue a settembre del 2015 e deve ancora essere completato. In un rapporto, citato dal Ft, e preparato dal chief financial officer della Cmu, Kalin Anev Janse e da Rolf Strauch, il suo chief economist, si chiede un notevole potenziamento dei poteri di vigilanza dei due regolatori europei esistenti, l’Autorità europea degli strumenti finanziari e dei mercati e l’Autorità europea delle assicurazioni e delle pensioni aziendali e professionali. Questi due organismi, oltre ad avere un ruolo guida nella definizione delle normative su settori come la finanza verde e digitale, dovrebbero aumentare i loro poteri esecutivi e ottenere l’autorità di supervisionare direttamente i grandi partecipanti finanziari internazionali. “La sfida per l’Ue è definire e costruire un modello di vigilanza efficiente che armonizzi i mercati e garantisca la trasparenza e la protezione degli investitori”, afferma il documento. “Attualmente, pratiche di vigilanza divergenti nell’Ue ostacolano gli investimenti transfrontalieri”.

    Tutto ciò concorda con le ambizioni della Commissione europea, poiché l’Ue persegue la cosiddetta autonomia strategica nei servizi finanziari. Mairead McGuinness, commissario europeo per i servizi finanziari, ha assicurato che Bruxelles “punta sulla Cmu” e sta facendo “un sacco di lavoro” in questo senso.  Ovviamente esistono numerose raccomandazioni da parte di Bruxelles contro il dumping fiscale, dirette contro l’Olanda, ma anche contro Cipro, Ungheria, Irlanda, Lussemburgo e Malta. L’obiettivo è quello di contestare le pratiche fiscali “aggressive”, che vanno a vantaggio delle grandi società, incentivandole a spostare la loro sede in Olanda. Uno strumento essenziale per Bruxelles per ridurre il dumping fiscale di Paesi come l’Olanda è il Recovery Plan. Tra gli obiettivi del Recovery infatti c’è una clausola, in base alla quale viene sostenuto che l’emissione di ingenti quantità di debito dell’Ue potrebbe aiutare a promuovere l’integrazione dei mercati dei capitali. In altre parole si tratterebbe di un ‘do ut des’: aiuti contro la pandemia in cambio di misure in favore di un più equo mercato europeo dei capitali. Ovviamente anche questa strada è stretta e lunga. Tuttavia non c’è dubbio che in una fase come questa, in cui l’agenda europea è dominata dalle questioni legate alla pandemia, uno scambio di questo tipo potrebbe servire ad ammorbidire la posizione delle autorità olandesi.

  • Il G30 e le imprese insolventi

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi** pubblicato su ItaliaOggi il 5 febbraio 2021

    Il 2021 potrebbe essere il vero «annus horribilis». Lo sarà quasi certamente per centinaia di migliaia, se non milioni, di imprese a livello mondiale, in particolare nei paesi cosiddetti avanzati. In Italia tutti temono la scadenza di fine marzo, quando molte aziende, piccole e medie, dovranno fare i conti soprattutto con i loro debiti e quando dovrebbe finire il blocco dei licenziamenti. Finora è intervenuta la rete di salvataggio della cassa integrazione per milioni di lavoratori. Anche se gli aiuti di Stato dovessero essere prolungati, e tutti se lo augurano in questo momento, il problema, comunque, si presenterà con più forza qualche mese dopo.

    La realtà brutale dei fatti è che siamo di fronte, anche in casa nostra, al pericolo di licenziamenti massicci e di fallimenti di imprese con dei numeri mai visti dopo la seconda guerra mondiale. La pandemia ha creato una crisi di insolvenza per mancanza di mercato e di introiti e una montagna di debiti impagabili, i cosiddetti non performing loans. «Questa crisi di solvibilità differisce nettamente dalla crisi finanziaria globale (2007-8), incentrata sul sistema finanziario e sui problemi di liquidità». Lo afferma anche lo studio «Reviving and Restructuring the corporate sector post-Covid», (rivitalizzare e ristrutturare il settore delle imprese dopo il Covid), recentemente preparato da un’organizzazione molto influente ma ancora poco conosciuta, il Gruppo dei Trenta.

    Il G30 è un’organizzazione internazionale privata formata da trenta tra i più influenti finanzieri ed economisti a livello mondiale. Fu creata alla fine degli anni Settanta dalla Fondazione Rockefeller, gestita dal noto banchiere americano. Ha sempre avuto l’obiettivo di analizzare le questioni economico-finanziarie più rilevanti, in particolare quelle relative ai mercati dei capitali e dei cambi. Oggi, oltre a numerosi ex governatori di banche centrali, annovera anche Mario Draghi, come senior member molto attivo. Il rapporto citato è stato redatto proprio sotto la sua supervisione.

    Lo studio evidenzia la tendenza molto pericolosa dell’aumento del cosiddetto «corporate debt», il debito delle imprese, ben prima della crisi pandemica, che, ovviamente, lo ha molto esacerbato. Il debito del settore corporate non finanziario globale è passato dal 73% del pil mondiale del 2007 al 91% dell’inizio del 2020. Ciò sta a indicare che molte economie erano molto più vulnerabili agli stress finanziari, già prima delle crisi da Covid.

    In generale, all’inizio della pandemia, anche il debito pubblico globale era di molto più grande rispetto a quello del 2007. Se si confrontano due periodi, quello del 2005-7 con quello del 2017-19, si vede che, a livello globale, la crescita del volume del private equity e del debito privato ha superato del 51% la crescita del pil, passando da 58 a 88 trilioni di dollari.

    Il rapporto del G30 evidenzia come siano le pmi a correre il maggiore rischio di default. Subiscono maggiori pressioni finanziarie delle grandi corporation e hanno, al tempo stesso, minori opzioni di finanziamento: dipendono largamente dal settore bancario a cui hanno già conferito notevoli garanzie personali a copertura dei crediti ottenuti. Esse sono, però, il pilastro portante dell’occupazione nel mondo. Negli Stati Uniti, per esempio, nel 2016 le imprese con meno di 500 addetti rappresentavano il 47% della forza lavoro del settore privato. In Europa, e soprattutto in Italia, si sa che questa percentuale è di gran lunga più grande.

    Che fare allora? Il G30 apprezza che a ottobre 2020 gli stimoli fiscali globali dei governi siano stati pari a 12 mila miliardi di dollari. Il Giappone, per esempio, ha approvato un pacchetto fiscale pari al 21% del suo pil! Di conseguenza, vi è un certo ruolo da parte dello Stato, il cui intervento, però, si sostiene, «non deve essere eccessivo». Anzi si suggerisce di non «guadagnare semplicemente tempo concentrandosi sulla liquidità» da far affluire al sistema, ma di «utilizzare le competenze del settore privato per valutare la redditività delle imprese».

    In breve, il G30 teme che una politica pubblica di aiuti troppo accomodanti potrebbe favorire la crescita delle cosiddette «imprese zombie», cioè quelle aziende decotte che non sono in grado di coprire finanche gli interessi sui debiti con i profitti correnti. Queste, mantenute in vita da sussidi e nuovi crediti distribuiti a pioggia, senza un più ferreo controllo, rappresenterebbero un fardello e una minaccia ai settori dell’economia ben funzionante. Si rileva, invece, che la situazione «potrebbe richiedere una certa quantità di «distruzione creativa». Si propone la creazione di istituti ad hoc, delle bad bank, per raccogliere i debiti corporate inesigibili. Non è detto, ma forse è proprio qui che gli esperti del G30 vedrebbero volentieri il contributo dello Stato. Il che suscita più di qualche perplessità.

    Nel documento è evidente una forte contraddizione. Si sottolinea più volte il timore che la crisi di insolvenze possa colpire anche il settore finanziario, per cui si ripete con forza che «il governo potrebbe dover intervenire per proteggere o rafforzare la capacità del settore finanziario di sostenere la ripresa economica». Il rischio, o meglio la certezza, di una massiccia disoccupazione di massa, con evidenti e pericolose derive sociali, è, invece, sbrigativamente affrontata con generici riferimenti a riqualificazioni e trasferimenti di lavoratori. Ciò la dice lunga circa l’ottica nella quale anche il G30 si muove.

    In conclusione il documento del G30 non è per niente innovativo. Anzi dimostra come l’approccio non sia mai cambiato, sia dopo la Grande Crisi, sia nel mezzo della crisi pandemica. Questo è il vero problema che ci trasciniamo da troppo tempo. Certo, il Covid ha aggiunto crisi su crisi.

    Secondo noi, però, la riforma finanziaria e una nuova architettura globale più giusta e multipolare, se non ora, quando?

    *già sottosegretario all’Economia **economista

  • Stablecoin: monete a ruota libera

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi apparso su ItaliaOggi il 18 novembre 2020

    La digitalizzazione è indubbiamente un profondo ed efficiente ammodernamento di tutti i settori della società. In particolare dei processi tecnologici, economici e finanziari. Anche nei settori dei pagamenti si è avuto un vero a proprio «boom digitale» e sono sottoposti a dei cambiamenti continui, a un ritmo incalzante. L’e-commerce, per esempio, sta celermente soppiantando i tradizionali settori di vendita. Le transazioni e i pagamenti hanno sempre più accantonato l’uso del contante, anche quello della carta di credito di plastica. Oggi si acquista e si paga attraverso specifiche «app» presenti negli smartphone personali.

    Una ricerca della Bce ha evidenziato che, in un breve lasso di tempo, sono state avanzate ben oltre 200 nuove proposte e iniziative nel campo dei pagamenti. Sono dei servizi così innovativi e ambiti dal grande business tanto da essere offerti a titolo gratuito in cambio, però, della disponibilità e della gestione di informazioni e di dati riguardanti i singoli utenti. Naturalmente a discapito della privacy.

    A proporli sono le cosiddette imprese bigtech, i giganti tecnologici globali, quali Google, Amazon, Facebook e molti altri tra cui la cinese Alibaba. Sono i dominatori assoluti dei listini di tutte le borse valori intenzionali. La loro forza sta non solo nell’abbondanza della liquidità ma anche nel controllo delle piattaforme online, dei social media e delle tecnologie di comunicazione mobile.

    Tale sistema presuppone l’esistenza di conti correnti coperti da disponibilità o da garanzie reali. Se tenuto sotto un puntuale controllo da parte delle istituzioni di vigilanza, non vi sarebbero rischi o particolari problemi. Anzi, potrebbe agevolare e velocizzare il segmento dell’economia finanziaria e bancaria. La cosa, però, cambia completamente quando certe grandi organizzazioni economiche e finanziarie internazionali intendono creare delle monete digitalizzate private. È il caso delle cripto valute la cui volatilità, opacità e mancanza di controlli hanno già creato seri rischi alla stabilità dell’intero sistema.

    La storia dei bitcoin docet: valori saliti alle stelle e poi crollati improvvisamente, mentre le banche centrali, incapaci di intervenire, stavano a guardare preoccupate. Adesso sul mercato sono arrivate le cosiddette stablecoin globali. Sono degli strumenti finanziari sviluppati proprio per ovviare alla volatilità delle cripto valute, in quanto il loro prezzo dovrebbe essere stabilizzato rispetto a un asset di riferimento: una moneta, come il dollaro e l’euro, l’oro o altre materie prime, oppure titoli e indici di borsa. Esse devono avere come sottostante un portafoglio di asset, di «attività di riserva».

    In altre parole, le stablecoin sarebbero delle cripto valute ancorate, per esempio, a delle monete garantite dalle tradizionali istituzioni internazionali. Esse hanno già suscitato grande attenzione e curiosità soprattutto quando Facebook ha annunciato di voler attivare la libra, che sarebbe la sua stablecoin globale in grado di operare senza utilizzare i sistemi di pagamenti e di compensazione e senza i vincoli dei regolamenti esistenti.

    Vi sono, poi, altri metodi usati da certe stablecoin, sganciati da affidabili entità centrali, per le quali la stabilizzazione sarebbe data dall’andamento di un algoritmo che detterebbe il comportamento di espansione o di riduzione delle stablecoin stesse. La loro affidabilità è certamente dubbia e molto inferiore, così come quella data dalle cosiddette collateralized stablecoin che usano appunto degli asset digitali come collaterali per garantire la loro emissione. Come al solito non è sempre oro ciò che luccica!

    È chiaro che un’espansione significativa e non regolamentata del loro uso potrebbe produrre effetti negativi e destabilizzanti sul sistema economico.

    Lo hanno sottolineato anche il G7 e la Banca dei regolamenti internazionali di Basilea che hanno definito le stablecoin una «crescente minaccia alla politica monetaria, alla stabilità finanziaria e alla concorrenza».

    Infatti, le loro assicurazioni e garanzie potrebbero non essere sufficienti a far fronte alla richiesta di rimborsi in eventuali situazioni di «run», di corsa al riscatto da parte dei detentori. Pertanto il loro valore potrebbe «oscillare» molto, «contagiando» l’intero sistema finanziario. Essendo un vero e proprio meccanismo di pagamento, una inadeguata gestione dei rischi di liquidità, di quelli operativi e cibernetici potrebbe provocare una crisi sistemica.

    Inoltre, aspetto non irrilevante, gli emittenti delle stablecoin andrebbero ad aumentare il cosiddetto shadow banking, la cui dimensione da anni ha di molto sorpassato il tradizionale settore bancario. Attraverso un loro eventuale ingente acquisto di titoli influirebbero pesantemente sui mercati, sull’operatività delle stesse banche e sulle politiche monetarie e dei tassi di interesse. Senza attente e stringenti misure di controllo da parte delle agenzie governative preposte, vi è anche un alto rischio che esse siano vulnerabili all’abuso criminale e all’uso per il riciclaggio e per il finanziamento di attività terroristiche.

    In Europa, le varie istituzioni stanno studiando le caratteristiche e gli effetti delle stablecoin con grande attenzione e preoccupazione. La Commissione europea intende approntare un regolamento del mercato delle cripto attività, senza il quale giustamente teme effetti incontrollabili e molto destabilizzanti. Le stablecoin dovrebbero rispettare i requisiti legali, i regolamenti e gli standard previsti per tutti i sistemi e gli strumenti di pagamento.

    La Bce e le banche centrali nazionali stanno elaborando nuove norme relative alla sorveglianza sui sistemi dei pagamenti, soprattutto su quelli elettronici. Per far fronte alla richiesta di innovazione e alla sfida di ineludibili modernizzazioni, Francoforte pensa di introdurre un euro digitale, affidabile e privo di rischi. Esso affiancherebbe il contante senza sostituirlo, rendendo il sistema dei pagamenti più fruibile, più celere ed efficiente.

    Si ricordi che le stablecoin sono dei mezzi di pagamento emessi da privati. Sono delle valute private, come nel medioevo quando ogni principe, piccolo o grande che fosse, coniava le proprie monete. È in gioco la sovranità monetaria pubblica! Chi ha il dovere di intendere lo faccia!

    *già sottosegretario all’Economia **economista

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