Banche

  • Richieste di credito da parte delle imprese in calo dell’8,3% richieste nel terzo trimestre

    Decisa frenata nel terzo trimestre per le richieste di credito delle imprese italiane (-8,3%), rispetto allo stesso periodo del 2019. Accade dopo che il secondo trimestre aveva visto un’impennata (+79,3%), sulla spinta anche delle misure di stimolo del governo per contenere gli impatti dell’emergenza Covid 19. Col crescere della seconda ondata della pandemia la tendenza però torna a invertirsi a ottobre, con un picco nell’ultima settimana (+28%). I dati sono dell’ultimo aggiornamento sul patrimonio informativo di Eurisc – il Sistema di informazioni creditizie di Crif, e viene spiegato che la nuova crescita è sostenuta in particolare dai mutui immobiliari (nelle ultime settimane stabili intorno al +30%) e dai prestiti finalizzati, mentre fidi e soprattutto prestiti personali e carte di credito restano distanti dai volumi del 2019.

    Se si guarda al dettaglio, emerge una dinamica speculare tra le richieste delle imprese individuali e quelle delle società di capitali. Sale l’importo medio dei finanziamenti richiesti: nell’ultima rilevazione 72.084 euro, il valore più elevato degli ultimi due anni. Le imprese individuali hanno visto un importo medio di 27.080 euro (-1,4%), mentre per le società di capitali si è assestato a 99.631 euro (+3,8%). Quanto alla distribuzione per classi di importo, il 30,1% del totale si è concentrato nella fascia al di sotto dei 5.000 euro, per il peso delle richieste di ditte individuali e microimprese. Le richieste di importo superiore ai 50.000 euro contano però per quasi il 17% del totale.

    Lo scenario d’incertezza vede inoltre le imprese continuare a richiedere l’accesso alla moratoria del governo per sospendere il pagamento delle rate sui finanziamenti. Per il comparto business, l’analisi di Crif fa emergere significative differenze sulla base della dimensione d’impresa. Il 73,1% dei contratti che hanno ottenuto la sospensione delle rate è riconducibile a società di capitali, il 23,6% a società di persone e i 2,1% a ditte Individuali. L’importo medio della rata mensile sospesa e l’ammontare residuo per estinguere il finanziamento risultano pari rispettivamente a 2.999 euro e 134.246 euro. Per le società di capitali la rata mensile sospesa risulta di 3.568 euro a fronte di un importo residuo pari a 152.627 euro. Per le società di persone la rata risulta di 1.473 euro e per le ditte individuali di 835 euro. Sulla totalità dei contratti per cui è stata ottenuta la sospensione, il 48% riguarda mutui di liquidità, il 25,8% leasing e il 16,4% mutui immobiliari. Seguono i prestiti finalizzati, col 5,4%, e i prestiti personali, col 4,5%.

  • Per le banche il 2021 potrebbe essere l’anno peggiore dal 2009

    Per le banche a livello globale il 2021 potrebbe essere l’anno peggiore dal 2009, più difficile di questo 2020. Potrebbe accadere nonostante gli istituti di credito siano in condizioni migliori rispetto al 2009 per resistere allo stress. E pur con le misure di sostegno in atto e le prospettive di vaccini contro il Covid 19. Lo sostiene un’analisi di S&P Global Ratings, in cui viene stimato che il ritorno ai livelli pre-pandemia non possa arrivare prima del 2023, ma anche oltre. Un ripristino “lento, incerto e altamente variabile a seconda delle aree geografiche”, secondo l’analista, Emmanuel Volland.

    La spiegazione viene individuata in quattro fattori di rischio, a partire dal peggioramento e dalla lunghezza della crisi da Covid 19. Secondo fattore, la durata finita delle misure di sostegno che hanno stabilizzato le banche. “Non possono durare per sempre e il progressivo previsto ritiro nel 2021 rivelerà un quadro più fedele della qualità delle attività bancarie” spiega l’analista Gavin Gunning. Altri due fattori sono indicati in un probabile aumento della leva finanziaria e prevedibili maggiori insolvenze societarie, insieme a un indebolimento nella proprietà e dunque nella qualità del credito bancario. Promettente per una ripresa l’annuncio di uno o più vaccini in approvazione per fine anno e disponibili per la metà del prossimo. Ma sarebbe solo un primo passo verso un ritorno alla normalità.

    Nello specifico delle banche europee ci sono analisti che stimano che il successo del lancio di un vaccino anti-Covid potrebbe aumentare i guadagni di 9 miliardi di euro (14%), con SocGen e UniCredit che potrebbero trarne vantaggio. Nei numeri d’altra parte S&P testimonia la prospettiva di difficoltà col fatto di avere intrapreso dall’inizio della pandemia 236 azioni di rating negativo, relative al coronavirus, allo shock sul prezzo del greggio e ad altri fattori di stress sulle banche a livello globale.

    Spostando lo sguardo sull’Italia, un quadro viene fornito dalla recente analisi del centro studi Orietta Guerra della Uilca sui conti economici del terzo trimestre 2020 degli 8 maggiori istituti di credito. Si evidenzia una contrazione complessiva dell’utile contabile di 8,5 miliardi di euro (5,3 miliardi col goodwill negativo dell’incorporazione di Ubi in Intesa Sanpaolo). Un calo (-93,2%) dovuto all’impatto degli oneri d’integrazione del piano industriale e ad altre operazioni straordinarie di Unicredit e all’aumento delle rettifiche di valore (3.036 milioni), di cui una parte per fronteggiare il deterioramento del credito, causa l’incidenza del Covid 19 sull’economica nazionale e internazionale. Ritenuto soddisfacente (-7,2%) il livello medio del margine operativo, oltre al fatto che nei primi nove mesi del 2020 le maggiori banche italiane abbiano ridotto i crediti deteriorati netti di 2,9 miliardi e che secondo operazioni di derisking non ancora contabilizzate, si arriverebbe a una riduzione di oltre i 6 miliardi. Per contro preoccupano le 2,7 milioni di domande di moratoria sui prestiti concesse dal sistema bancario per circa 294 miliardi, che alla scadenza, con un lockdown di cui non si conosce la durata, potrebbero trasformarsi in parte in npl.

  • Crescono i depositi bancari, ma si teme una nuova ondata di crediti deteriorati

    Un paradossale ‘circolo vizioso’ rischia di frenare la ripresa italiana nei prossimi mesi: famiglie e imprese che se lo possono permettere stanno aumentando molto il risparmio ma questo dato, normalmente positivo, non si traduce in risorse disponibili all’investimento e deprime ancora più i consumi già in frenata a causa dei lockdown e dei timori per il futuro. Il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco ha certificato così un allarme che già da alcune settimane faceva capolino dai dati di settore: la liquidità erogata dalle banche soprattutto alle imprese, grazie anche alle garanzie statali, resta parcheggiata nei depositi e nei conti correnti. Lo ha fatto proprio alla Giornata del Risparmio, l’appuntamento organizzato dall’Acri, quest’anno tenuto in maniera solo virtuale. L’allarme è stato condiviso dal ministro dell’economia Roberto Gualtieri che ha chiesto appunto di “incanalare tali risorse verso l’economia reale” e dal padrone di casa Francesco Profumo. In un telegramma anche il capo dello Stato Sergio Mattarella ha posto l’accento sulle risorse del risparmio che “se adeguatamente utilizzate, potranno contribuire a sostenere una rapida ripresa di consumi e investimenti, una volta domata la pandemia e ridotta l’incertezza sulle prospettive future. È indispensabile creare le condizioni utili a ristabilire un clima di fiducia” ha ammonito il Presidente della Repubblica che ha indicato anche l’utilizzo delle risorse in arrivo dalla Ue per gli investimenti che devono essere mirati a “ridurre i divari, per un Paese che torni a offrire opportunità, per un futuro dignitoso, specie alle giovani generazioni”.

    E se da un lato le banche registrano un boom dei depositi, nei prossimi mesi dovranno fare i conti con l’inevitabile aumento dei crediti deteriorati. Al momento la situazione è ‘congelata’ grazie alle moratorie che verranno peraltro prorogate assieme alle garanzie sui prestiti oltre la scadenza di dicembre come ha assicurato Gualtieri. E però, ha ribadito Visco ripetendo quanto già detto qualche settimana fa, e anche qui in sintonia con il Mef questo deve spingere le banche a prepararsi per tempo per evitare “l’accumulo” dei crediti nei bilanci. La vigilanza è flessibile ma vuole evitare che si ripeta quanto accaduto nel 2012 quando dovette intervenire a furia di ispezioni e sotto la spinta della Bce per far aumentare coperture e accantonamenti a un settore bancario non convinto.

    Il governatore non vuole “un’azione indiscriminata” ma che le banche facciano quello che è il loro dovere: “sostenere i progetti imprenditoriali meritevoli, riconoscere senza indugio le perdite derivanti da esposizioni per cui si prevede un’elevata probabilità di insolvenza, ristrutturare i prestiti dei debitori in situazione di difficoltà”. Tre eterni principi validi anche nell’attuale situazione di emergenza.

    Peraltro, in base ai dati Banca d’Italia, le rettifiche fino a ora sono state portate avanti da poche banche di grandi dimensioni e “diverse banche, sia tra quelle significative sia tra quelle meno significative, presentano tassi di copertura sui crediti in bonis molto inferiori alla media del sistema. È necessario che questi divari siano colmati” ha detto Visco.

    Se il sistema bancario ha quindi, dopo qualche iniziale lentezza, sostenuto le misure straordinarie (i prestiti sono a 100 miliardi e le moratorie a 300), lavorando “notte e festivi” compiendo “quasi miracoli” come ha rivendicato il presidente Abi Antonio Patuelli, deve ora mantenere la sua solidità. Banche in crisi o comunque in difficoltà potrebbero mettere ulteriore sabbia in una ripresa ancora incertissima. Gualtieri ha indicato quale una delle soluzioni, le aggregazioni fra banche “promosse dai mercati e basate su solidi piani industriali, che siano in grado di consentire il conseguimento di economie di scala e di diversificazione e i necessari investimenti in tecnologia e innovazione”.

  • Mps e l’economia sudamericana

    L’ex ministro dell’economia Padoan nel 2017 investì 5,3 miliardi dei quali 4.2 mld a carico di obbligazionisti e azionisti, il resto con le finanze pubbliche, per salvare il Monte dei Paschi di Siena ad un passo dal default. A poco più di un anno dall’uscita dal Ministero dell’Economia lo stesso ex-ministro diventa presidente di Unicredit attraverso il quale probabilmente guiderà l’acquisizione del Monte dei Paschi di Siena. Nel frattempo il titolo è passato da una media di 4,3 euro per azione del 2017 a 1,06 attuali.

    In questo modo si è mantenuto in piedi un istituto moribondo con risorse pubbliche e private con l’autorità di un ministro il quale, successivamente diventato presidente di una banca, si trova ad avere la possibilità di poterlo acquisire con un esborso finanziario minimo. Una tecnica che ci allinea con le economie sudamericane all’interno delle quali il capitale privato utilizza le risorse pubbliche e le connivenze, se non proprio la complicità delle cariche pubbliche, per acquisizioni speculative.

    Il fatto stesso che un ministro possa tranquillamente passare da un incarico pubblico ad uno privato senza un periodo di “quarantena” rappresenta il livello di etica del sistema. Dimostra in più come l’ennesima declinazione del principio del conflitto di interessi possa venire applicata al mondo della politica e dell’economia.

    Ancora oggi qualcuno ha il coraggio di parlare di digitalizzazione del nostro sistema economico (certamente importante) quando l’Italia declina decisamente verso una economia sudamericana della peggiore specie.

    P.S. La deriva sudamericana viene confermata dal comportamento di Profumo, l’attuale presidente di Leonardo, condannato a sei (6) anni per la gestione MpS (ancora) e che non ha neppure presentato le proprie dimissioni che sarebbero state respinte come da copione.

     

  • Una super multa alla JP Morgan. Ha tenuto «una condotta manipolatrice e ingannevole»

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi pubblicato su ‘ItaliaOggi’ il 23 ottobre 2020.

    La JP Morgan Chase, la più grande banca americana, dovrà pagare una multa di 920,2 milioni di dollari, la più salata della storia, per protratte operazioni di manipolazione del mercato. La decisione è stata presa dalla Commodity Futures Trading Commission (Cftc), l’agenzia del governo statunitense che si occupa della regolamentazione dei future e di altri derivati finanziari contrattati sui mercati delle commodity, quelli delle materie prime e dei prodotti alimentari. Il suo scopo è quello di garantire l’integrità del settore finanziario.

    Secondo l’ordinanza della citata Cftc, dal 2008 al 2016 la JP Morgan ha tenuto «una condotta manipolatrice e ingannevole» in particolare nei mercati dei metalli preziosi e dei contratti future legati alle obbligazioni del Tesoro. Di fatto, gli operatori, i trader, della JP Morgan hanno emesso centinaia di migliaia di ordini di acquisto che venivano poi ritirati, cancellati, prima della loro esecuzione. In questo modo hanno stravolto il normale andamento della domanda e dell’offerta, inducendo gli altri investitori a intraprendere azioni finanziarie basate su valutazioni e attese falsate.

    In pratica il sistema JP Morgan funzionava in questo modo: gli operatori emettevano ordini farlocchi di acquisto, per esempio, di contratti future sull’oro, i cosiddetti spoof order. Creavano così un «effetto onda», imitato da altri operatori, per far salire il prezzo dei derivati. Poi, un momento prima di ritirare gli ordini fatti, essi emettevano un ordine vero, il cosiddetto genuine order, con il quale, invece, vendevano il future, il cui valore a quel punto era salito.

    Solo per un dato segmento di operazioni analizzate, è stato appurato che la JP Morgan avrebbe fatto profitti per oltre 172 milioni $ mentre gli altri operatori avrebbero avuto perdite per circa 312 milioni. Nell’ordinanza della Cftc si legge anche che per anni la banca ha disinformato e manipolato la stessa agenzia di controllo, rallentando così ogni possibile intervento di correzione e di sanzione. La JP Morgan non ha potuto nemmeno giustificarsi e scaricare le responsabilità su qualche singolo dipendente «avventuriero», in quanto i vari dirigenti dei dipartimenti preposti ai mercati erano direttamente coinvolti.

    Soltanto nel 2016 la JP Morgan avrebbe iniziato a collaborare con l’agenzia di controllo. Per questa ragione, e ciò è alquanto sorprendente, l’ammontare della multa è stato proposto dalla banca e accettato dalla Cftc. Inoltre, sempre per tale tardiva e discutibile dimostrazione di buona volontà e di cooperazione, l’agenzia non ha chiesto che la banca fosse squalificata e dichiarata bad actor e, quindi, esclusa dai mercati perché «cattivo operatore». Il che, e non solo secondo noi, sarebbe stata una vera rivoluzione nella finanza.

    Ancora una volta per le banche too big to fail si applica un conveniente accordo di favore. Le multe, anche se apparentemente salate, sono spesso solo una misera percentuale dei profitti fatti illegalmente e fraudolentemente. Il loro patteggiamento, di conseguenza, comporta sempre la fine delle indagini e dei procedimenti legali intrapresi. In merito, comunque, il Dipartimento di Giustizia e il Procuratore dello Stato del Connecticut stanno istruendo dei procedimenti penali per frode. Anche la Security Exchange Commission (Sec), la Consob americana, l’agenzia federale preposta alla sorveglianza delle attività delle borse valori e alla protezione degli investitori, sta iniziando un caso legale in sede civile. Vedremo se andranno oltre l’imposizione di semplici ammende. C’è poco da sperarci.

    Indubbiamente è in corso un profondo dibattito negli Stati Uniti circa l’efficacia delle azioni di controllo e di repressione da parte delle agenzie preposte al funzionamento dei mercati.

    Infatti, due consiglieri della succitata Cftc, si sono dichiarati non completamente soddisfatti per la mancata applicazione dello status di bad actor per la JP Morgan. Hanno richiesto una maggiore e fattiva collaborazione tra la Cftc e la Sec, che avrebbe l’autorità di escludere dai mercati le banche e gli operatori considerati inaffidabili. «Essenzialmente, hanno detto i due consiglieri, oggi la Sec consiglia alla Cftc quello che la Cftc deve consigliare alla Sec, il cui regolamento, poi, le vieta di fare», Un «procedimento circolare» che oscura la trasparenza e le responsabilità con uno spreco di risorse. È qualcosa che anche in Europa e in Italia dovremmo imparare, circa le nostre varie agenzie di controllo.

    La gravità dell’affaire della JP Morgan va ben oltre il caso in sé. La manipolazione dei mercati delle commodity non ha soltanto una valenza finanziaria. In questi mercati vengono contrattate le derrate e le risorse più importanti per l’economia e per la vita dei popoli e dei singoli cittadini: il cibo, l’energia, e tutte le materie prime che entrano nei settori produttivi dell’economia reale. Non ci si può dimenticare dei picchi d’inflazione relativi ai prezzi del grano, del riso o del petrolio che, più volte in questi primi venti anni del ventunesimo secolo, hanno stravolto intere nazioni e impoverito, spesso fino alla fame, centinaia di milioni di persone.

    Su problemi di tale portata non si dovrebbe né mettere la testa sotto la sabbia per non vedere né usare la mano leggera quando si scoprono comportamenti illegali. Essi, di solito, sono alla base di scandalosi arricchimenti.

    *già sottosegretario all’Economia **economista

  • L’incertezza dovuta al Covid frena gli investimenti, boom di depositi

    L’incertezza sulla profondità e la durata della crisi Covid paralizza gli investimenti e spinge aziende e famiglie ad accumulare liquidità, magari quella ottenuta tramite i finanziamenti garantiti dallo Stato, nelle banche in caso di difficoltà. L’ultimo rapporto dell’Abi fotografa una situazione comprensibile e per certi versi anche positiva ma che rischia di diventare un grosso freno alla ripresa nei prossimi mesi perché ‘il cavallo non beve’. La raccolta bancaria (conti correnti e pronti contro termine) continua a macinare aumenti a fronte di prestiti sicuramente in crescita ma a un tasso più ridotto. Nel mese di settembre il balzo è stato dell’8% contro un +4,8% degli impieghi, soprattutto alle imprese grazie al fondo di garanzia statale che oramai viaggia sui 100 miliardi di euro di richieste. Un aumento frutto appunto dell’incertezza che sta colpendo le aziende, le quali ritardano o minimizzano gli investimenti e trattengono spesso lì la liquidità, alimentata anche dai mancati pagamenti fiscali. “Il risparmio non è di per sé negativo – sottolinea il vice dg Abi Giafranco Torriero – è chiaro che si sono comportamenti cautelativi che inducano a creare dei buffer di risorse per fare fronte a eventuali criticità. Ma se la crescita dei depositi a causa dell’incertezza diventa un comportamento strutturale, fa venire meno delle risorse aggregate per l’economia Certo giova il prolungamento delle misure di garanzia che fornisce una prospettiva più sicura per i prossimi mesi ma una spinta decisiva, aggiunge Torriero, deve venire dalle politiche economiche statali ed europee oltre, ovviamente dall’andamento della pandemia.

    Le imprese stanno comunque beneficiando delle misure per ‘comprare tempo’ varate dal governo e dalle autorità. Le moratorie e le misure di regolamentazione rallentano l’emersione automatica dei crediti deteriorati seppure dalla vigilanza si spronano le banche a iniziare a fare le pulizie proprio per evitare l’emergere di picchi improvvisi. Molto dipenderà da quanto durerà la crisi e se appunto le inadempienze probabili (Utp) si trasformeranno in crediti inesigibili. Per ora le sofferenze continuano a scendere. Sono tornate ai livelli di 11 anni fa a 24,4 miliardi e ci si aspetta un ulteriore decremento a fine anno grazie all’operazione di cessione di Mps.

  • La Bce spinge per arrivare all’‘euro-bitcoin’

    La People’s Bank of China guida la corsa, la Bce insegue e la Fed avanza con cautela. Procede in ordine sparso la corsa delle banche centrali verso la creazione della valuta digitale: ma il tema entra di prepotenza nel dibattito fra i banchieri centrali. Proprio alle valute digitali il Fondo monetario internazionale ha dedicato una sessione di lavori su “Cross-Border Payments and Digital Currencies”. Con un panel in cui è intervenuto il presidente della Fed Jerome Powell. La Fed – ha spiegato Powell – sta valutando i benefici di una valuta digitale ma non ha ancora deciso.  “E’ una delle aree in cui per gli Stati Uniti è più importante fare bene che arrivare per primi”, ha detto Powell riferendosi all’ipotesi da molti già chiamata Fedcoin.

    L’azione delle banche centrali sul tema della valuta digitale di banca centrale – vera e propria creazione di moneta fatta a fronte di depositi – nasce proprio per la preoccupazione per le criptovalute: tanto più, come nel caso di Libra, le ‘stablecoin’ di Facebook, quelle che assicurerebbero protezione dalle maxi-fluttuazioni di bitcoin e simili ancorandosi a un paniere di valute tradizionali. Il Financial Stability Board, l’organismo che mette insieme i banchieri centrali e le autorità di regolamentazione finanziaria del G20, giusto una settimana fa ha avvertito dei rischi per la stabilità finanziaria, dandosi come obiettivo una maggior regolamentazione.

    Ma l’innovazione corre più veloce delle regole. E così le banche centrali valutano di entrare loro stesse nel gioco. Lo sta facendo la Cina. E se la Fed è cauta, la Bce accelera, con un progetto sperimentale in corso, una consultazione pubblica e una decisione finale sull’euro digitale già a metà 2021. C’è la sfida del mondo ‘crypto’, c’è Libra e una tale espansione dei pagamenti elettronici da mettere a rischio il controllo dell’offerta di moneta, la stabilità finanziaria, e persino il concetto di ‘sovranità digitale’ caro all’Ue. Ma, come emerge dalle parole stesse della presidente della Bce Christine Lagarde, c’è di più: si tratta di rendere “la nostra valuta adatta all’era digitale. Quando vediamo quanto velocemente si stanno diffondendo i pagamenti digitale, specie fra i giovani, è importante venire incontro a questa domanda”. E ancora, col digitale si “rafforza il ruolo internazionale dell’euro”. Fra le righe, si capisce che in gioco c’è la domanda globale, nei prossimi decenni, per la valuta, come riserva di valore, ma anche come unità di conto per i pagamenti digitali. Assicurarsela vuol dire garantirsi la propria fetta di ‘privilegio esorbitante’ dato dall’avere investitori desiderosi di detenere titoli in euro in ogni parte del mondo.

  • Cinque banche globali corrotte

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi** apparso su ItaliaOggi il 3 ottobre 2020

    Il Consorzio internazionale di giornalisti investigativi (Icij) è al centro dell’attenzione dei media perché è entrato in possesso di 2.500 pagine di segnalazioni di attività sospette (Sar) riguardanti le banche. Trattasi di documenti riportati, tra il 1999 e il 2017, alla FinCEN, Financial Crimes Enforcement Network del Departimento del Tesoro americano che li ha resi parzialmente pubblici. La FinCEN è l’agenzia governativa con il compito di combattere il riciclaggio di denaro.

    Sono gli stessi giornalisti che nel 2016 hanno pubblicato i cosiddetti Panama Papers, e hanno fatto emergere lo scandalo di vaste attività relative a evasioni fiscali e al riciclaggio dei soldi sporchi con il coinvolgimento di grossi personaggi e di banche internazionali.

    Adesso, emergerebbe, ancora una volta, una vastissima rete di traffici illegali e di movimenti di denaro riciclato per il traffico di droga e di armi e per evitare controlli e tasse attraverso società fittizie e finanche per il finanziamento del terrorismo.

    C’è di tutto e di più: coinvolgimento di discussi personaggi russi e ucraini, pericolose operazioni in Venezuela e in Malesia, finanche alcune operazioni per conto di Paul Manafort, l’ex manager della campagna elettorale di Donald Trump, attualmente in carcere per frode fiscale e bancaria. Sono tutte segnalazioni che, comunque, sarebbero dovuto essere indagate per arrivare a eventuali condanne.

    I documenti identificano le responsabilità di cinque banche globali: due americane, la JP Morgan, prima banca Usa, e la Bank of New York Mellon, due inglesi, la Hsbc, Hong Kong Shanghai Bank Corporation, la maggiore banca europea, e la Standard Chartered Bank e la tedesca Deutsche Bank. Le transazioni sospette di riciclaggio e per altre attività illegali ammonterebbero a oltre 2.000 miliardi di dollari!

    Sembra un ammontare stratosferico ma i file resi pubblici rappresenterebbero meno dello 0,02% degli oltre 12 milioni di attività sospette che le differenti istituzioni finanziarie hanno riportato alla FinCEN nel periodo 2011-17. Sono molti gli aspetti inquietanti in questa scandalosa storia. Vorremmo evidenziarne due che, secondo noi, meriterebbero una particolare attenzione.

    In primo luogo c’è il ruolo della Deutsche Bank che, secondo i documenti, deterrebbe il peggior primato con ben 1.300 miliardi di dollari in transazioni sospette. È la seconda volta che la banca tedesca scala la piramide negativa: lo aveva già fatto quando è diventata il numero uno al mondo per i derivati finanziari over the counter, noti strumenti speculativi sempre più aleatori e di difficile, complicata e rischiosa gestione.

    La stampa tedesca torna a chiedersi cosa stia realmente succedendo da molti anni in questa banca che porta il nome della Germania nel suo logo. Anche secondo noi i continui riferimenti ai coinvolgimenti della DB in operazioni di vario tipo sono motivo d’imbarazzo e di vergogna per l’intera Europa, non solo per la Germania. Ci si chiede come sia possibile che, anno dopo anno e scandalo dopo scandalo, le autorità tedesche e quelle europee non siano ancora riuscite a costringere la banca a ripulire veramente i suoi comportamenti e tornare a essere una delle maggiori banche promotrici di grandi progetti industriali e di sviluppo reale, come ai tempi del presidente Alfred Herrhuasen, prima che fosse ucciso dai terroristi.

    Il secondo aspetto riguarda i comportamenti assai discutibili delle banche coinvolte. Da anni, nonostante fossero state pesantemente accusate, condannate e sanzionate dalle autorità di controllo, quasi sempre americane, esse hanno continuato indisturbate a fornire i propri servizi per operazioni sporche, illegali e di riciclaggio. Gli esempi non mancano.

    Secondo le analisi pubblicate, nel 2012 la ‘HSBC, per bloccare il procedimento criminale, ammise di aver riciclato 881 milioni di dollari per un cartello della droga latino-americano e pagò un’ammenda di 1,9 milioni. Le accuse sarebbero state cancellate definitivamente qualora la banca avesse dimostrato di partecipare alla lotta contro il riciclaggio nei successivi cinque anni. I file dell’Agenzia americana proverebbero invece che l’Hsbc, violando il patteggiamento, non solo ha continuato nelle operazioni di riciclaggio di soldi sporchi ma sarebbe stata implicata in una grande «piramide finanziaria» che coinvolgeva parecchi paesi.

    Lo stesso sarebbe avvenuto con la Standard Chartered, accusata di aver favorito transazioni finanziare verso gli Usa da parte di clienti dell’Arab Bank legati alle reti terroristiche. Sebbene multata per 670 milioni di dollari, avrebbe continuato con simili operazioni anche durante il «periodo di buona condotta».

    Anche le altre banche menzionate, compresa la Deutsche Bank, hanno mantenuto lo stesso comportamento. Accusate di attività illecite hanno pagato le multe per bloccare le sanzioni penali continuando imperterrite a operare as usual. Certo è molto conveniente pagare la multa di 1 dollaro per 100 incassati illegalmente.

    Ma, in merito, il controllo dei governi e delle agenzie preposte è indipendente e davvero stringente? Poiché la pandemia sta mettendo a soqquadro tutti i sistemi, economici, sociali e sanitari, non si capisce perché la grande finanza resti intoccabile.

    Naturalmente le banche hanno spesso dichiarato di non conoscere l’identità dei correntisti finali. È singolare che oltre il 20% dei rapporti inviati alla FinCEN abbia un cliente con un indirizzo presso le Virgin Islands britanniche, uno dei più grandi paradisi fiscali al mondo.

    In conclusione, si ricordi che anche per l’Unodc, l’Ufficio dell’Onu per il controllo della droga e la prevenzione del crimine, non meno di 2.400 miliardi di dollari di denaro illecito sarebbero riciclati ogni anno. Sono dati sconvolgenti.

    *già sottosegretario all’Economia **economista

  • Sofferenze bancaria a quota 385 miliardi nel 2021

    Una nuova ondata di crediti deteriorati è in arrivo nel 2021 per effetto del Covid, ma non sarà una tempesta come nella crisi dei mutui subprime del 2011. Dai 338 miliardi previsti per l”anno in corso si salirà del 5% a quota 385 miliardi secondo l’amministratore delegato di Banca Ifis Luciano Colombini, che ha fatto il punto al tradizionale convegno d’autunno sul settore, che si è tenuto quest’anno nell’incantevole cornice di Villa Erba a Cernobbio (Como).

    Una previsione confermata dalla stessa Abi, il cui direttore generale Giovanni Sabatini non ha negato l’incremento in arrivo dovuto agli effetti della “grave crisi economica, conseguenza della pandemia, i cui effetti sono da determinare”. Una scure che si abbatte nonostante lo “sforzo enorme per ridurre l’accumulo dei crediti deteriorati che si erano determinati negli anni della grande crisi finanziaria”.  Sforzo che Bankitalia ha quantificato oggi in 170 miliardi di euro dal 2016 a fine anno, prevedendo anche per il 2020 cessioni per circa 20 miliardi.

    Quanto alle stime di Banca Ifis, il tasso di deterioramento dei crediti salirà dall’1,3% del 2020 al 2,8% del 2021, mentre il rapporto tra Npe (l’insieme dei crediti deteriorati, che comprende le sofferenze, gli incagli e i crediti scaduti) e il totale dei crediti erogati salirà dall’attuale 6,2% al 7,3% del 2021.

    Per Colombini “l’onda si sta gonfiando, ma Venezia non è ancora allagata”. “L’acqua alta – ha detto il banchiere – arriverà l’anno prossimo, quando il default rate sarà raddoppiato”. Una situazione comunque migliore rispetto alla crisi del 2011. Secondo l’Ad di Banca Ifis “i risultati negativi di questa crisi sono inferiori alla crisi precedente, quando il default rate fu al 4,5%”. “In questa crisi – ha sottolineato – ci sono stati interventi importanti da parte dei Governi e delle Banche centrali”. Non tutto funziona come dovrebbe però. L’incaglio in questo caso si chiama Amco, il gestore pubblico dei crediti deteriorati. “La vediamo bene – ha puntualizzato Colombini – ma con una condizione imprescindibile, che sia un operatore di mercato e dai primi segnali che abbiamo non sembrerebbe che sia proprio così”. “L’industria degli Npl servicer, che ha superato gli 8mila dipendenti con operazioni effettuate per diversi miliardi di euro va tutelata”, ha precisato sottolineando che Amco dovrebbe intervenire nei salvataggi, mentre, se opera sul mercato “i miliardi di intervento pubblico avrebbero un effetto distorsivo e graverebbero sulle spalle del contribuente”.

    Gli ha replicato Giuseppe De Martino, consulente del Mes, socio unico di Amco. A suo avviso i timori espressi a Cernobbio dagli operatori privati del settore “non hanno forti ragioni di esistere”. “Il punto di forza di Amco – ha sottolineato – è avere un azionista paziente che non vuole ritorni a doppia cifra sul breve periodo”, cosa che “consente di conciliare obiettivi di profitto nell’ambito di logiche di mercato con profili di interesse pubblico”.

  • Il futuro delle banche centrali

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi apparso su ‘ItaliaOggi’ il 5 settembre 2020

    A fine agosto si è tenuto il tradizionale simposio economico di Jackson Hole, nello stato americano del Kansas, dove i banchieri centrali regolarmente si incontrano per tracciare la linea sui futuri orientamenti monetari, economici e finanziari globali. Quest’anno, per l’emergenza della pandemia del Covid19, è stato il primo incontro di carattere virtuale.

    Solitamente ci si aspetta che sia la Federal Reserve americana a indicare la strada maestra. Invece lo ha fatto la più spregiudicata Bank of England. Il suo nuovo governatore, Andrew Bailey, infatti, ha messo in secondo ordine il «salvifico» target d’inflazione del 2% per «applicare le lezioni degli ultimi mesi e anche quelle dell’ultimo decennio o dalla crisi finanziaria del 2007-09 in poi».

    La novità principale, secondo Bailey, è stata la grande e prolungata espansione dei bilanci delle maggiori banche centrali «in appoggio sia alla politica monetaria sia agli obiettivi di stabilità finanziaria». Soprattutto per fronteggiare la crisi provocata dal Covid. Di conseguenza, in futuro i bilanci delle banche centrali dovranno sempre più essere considerati come uno strumento per la creazione di stimoli monetari, attraverso l’acquisto di asset, cioè di titoli finanziari di vario tipo.

    Al riguardo si ricordi che il bilancio della Banca Centrale Europea è aumentato di 1.700 miliardi di euro: da gennaio a luglio si è passati da 4.664 a 6.360 miliardi. Di questi, non meno di 715 miliardi sono stati immessi nel sistema nel solo mese di luglio. Il collasso economico attuale ci indicherebbe che la crisi non sarebbe stata generata primariamente nel settore bancario bensì «tra i fondi, i trader e le imprese».

    Di conseguenza, la Bank of England propone la strategia del «go Big, go Fast», cioè di «operazioni aggressive di acquisto di asset». Se fino ad oggi questi asset sono stati prevalentemente obbligazioni di stato, adesso si propone, invece, di allargare i settori di acquisto, in particolare verso quello corporate, il cosiddetto «corporate debt». Ciò è giustificato con l’intento di affiancare le banche e i mercati finanziari nel sostegno alle attività economiche, anche se, si ammette, «inevitabilmente si aumenta il rischio gestionale per le banche centrali».

    Si propone, quindi, di rendere centrale e generalizzato l’acquisto di asset privati, finora fatto quasi eccezionalmente dalle banche centrali. Il rischio di cui si parla, in verità, è quello che, incamerando nei loro bilanci titoli potenzialmente tossici o di dubbia esigibilità, le banche centrali possano trasformarsi in vere e proprie «bad bank». Per Bailey, un obiettivo rimane sempre «il raggiungimento della sostenibilità del target d’inflazione del 2%», ma con la necessaria flessibilità per non alzare in modo prematuro il tasso d’interesse qualora la ripresa dovesse incominciare.

    Più importante è la scelta degli strumenti da usare, che potrebbero includere, in modi più sistematici, anche i tassi d’interessi negativi, gli incentivi alle banche per garantire una certa liquidità e persino l’acquisto da parte delle banche centrali di titoli commerciali appena emessi.

    Nel suo discorso di apertura del simposio, il governatore della Federal Reserve Jerome Powell è stato molto più blando. Forse per evitare, come già in passato, «gli schiamazzi» di Donald Trump contro di lui nelle ultime settimane di campagna elettorale presidenziale. Powell si è più concentrato a spiegare gli effetti nella politica monetaria dopo la Grande Crisi Finanziaria piuttosto che dare indicazioni più precise sulle politiche attuali e future della Fed.

    Di fatto si è limitato ad annunciare un atteggiamento più morbido rispetto alla tradizionale politica monetaria finora ancorata fermamente al target d’inflazione del 2%. In caso di un simile aumento dei prezzi, la Fed farebbe scattare quasi automaticamente una politica monetaria più restrittiva con un aumento dei tassi d’interesse. Powell ha parlato di un target d’inflazione media, «average inflation targeting», facendo intendere un atteggiamento più «flessibile», più permissivo anche in caso di un aumento dei prezzi superiore al 2%.

    In verità si tratta di qualcosa che era già nei fatti e nei comportamenti della Fed. Non è certo la «rivoluzione copernicana» nella politica monetaria che certa stampa ha voluto dipingere. È però un messaggio ai mercati e a Wall Street relativo ai tassi d’interesse zero o addirittura negativi che potrebbero restare più a lungo. In ogni caso è chiaro che l’inflation target rimane, insieme alla comunicazione e alla trasparenza, il pilastro della politica monetaria della Fed.

    A nostro avviso, la parte più rilevante del discorso di Powell è quella concernente l’eventuale sostegno diretto alla ripresa economica e all’occupazione. Il governatore ha affermato che «quando l’occupazione è inferiore al suo massimo livello, com’è chiaramente oggi, noi opereremo per correggere questa mancanza usando i nostri strumenti di sostegno alla crescita economica e alla creazione di posti di lavoro». Anche per l’Europa sarà importante vedere come tale politica potrà manifestarsi concretamente dopo le elezioni presidenziali di novembre.

    Da parte sua, Philip R. Lane, il membro irlandese del comitato esecutivo della Banca centrale europea, si è concentrato a dare un dettagliato e oggettivo rapporto sui vari interventi di quantitative easing adottati per fronteggiare l’emergenza economica, occupazionale e finanziaria provocata dalla pandemia.

    In particolare ha riportato che il programma pandemics emergency purchase program (Pepp), di acquisti da parte della Bce di titoli pubblici e privati in possesso del sistema bancario, originariamente di 750 miliardi di euro, è stato ampliato a 1.350 miliardi. Dovrebbe affiancare il Recovery Fund di 750 miliardi dell’Unione europea per assicurare una forte ripresa delle attività produttive e dell’occupazione. Speriamo che ciò avvenga e, almeno per il nostro paese, non si sprechi questa grande opportunità

    Certo, ancora una volta a Jackson Hole non si è affrontata la questione centrale, quella della riforma del sistema finanziario.

    *già sottosegretario all’Economia **economista

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