Benetton

  • Genova-Ponzano Veneto: il paradosso insostenibile

    La gestione di immagine di un’azienda come di un singolo prodotto nasce dalla volontà di attribuirle la doppia funzione di conferire un valore superiore al contenuto tecnologico, sia al prodotto stesso che all’azienda che lo realizza. Quindi siamo al secondo obiettivo, aggiungere valore al prodotto come sintesi culturale dell’azienda. Tale sintesi diventa il valore del Brand.

    Nel caso dell’azienda di Ponzano Veneto, che negli anni 70-80 era riuscita ad innovare fortemente questo settore anche sotto il profilo della comunicazione complessiva, attraverso l’ultima campagna di comunicazione inserisce dei contenuti etici e di sensibilità umana rendendo come oggetto della comunicazione stessa il flusso dei migranti con tutte le sue implicazioni etiche e umane.

    Una scelta opinabile ma assolutamente legittima la quale però pretende implicitamente come conseguenza inevitabile dei valori esplicitati che l’azienda adotti i medesimi principi etici con i propri comportamenti in ogni contesto.

    In altre parole, una gestione di immagine evoluta di qualsiasi azienda deve confermare anche di essere perfettamente in sintonia con i valori etici e la sensibilità umana proposta per vendere magliettine da venti euro prodotte in estremo Oriente all’interno di laboratori tessili le cui normative igienico sanitarie base non vengono quasi mai rispettate, come dimostra la tragedia di Dacca che ha coinvolto anche il gruppo Benetton tra i mandatari di determinate produzioni ad un laboratorio in condizione di stabilità pietose il cui crollo costò la vita a oltre 1045 lavoratori del laboratorio tessile contoterzista.

    Tornando quindi alla gestione di immagine dovrebbe essere chiaro al responsabile della comunicazione quanto alla proprietà dell’azienda di Ponzano Veneto che nel momento in cui si inseriscono dei contenuti etici e dei valori umani all’interno della propria politica di comunicazione per ottenere il doppio obiettivo di aumentare l’appeal del prodotto e con esso comunicare la cultura come il “sentiment” aziendale conseguentemente e successivamente l’azienda stessa debba mantenere questo “protocollo etico” finalizzato quindi alla vendita di magliette attraverso ogni proprio singolo comportamento.

    Non passa giorno invece che non emerga, successivamente alla tragedia di Genova, un dettaglio sempre più imbarazzante relativamente all’atteggiamento dell’azienda come dei titolari e dei manager tutti espressioni dell’azionista di maggioranza.

    Tutto questo dimostra quindi come l’intera struttura della comunicazione, e con essa la filosofia aziendale comunicata attraverso l’advertising Benetton by Oliviero Toscani, rappresenti l’ennesima vuota bufala comunicativa in quanto chi l’ha creata non capiva e non comprende neppure oggi gli obblighi ai quali l’azienda stessa risulta successivamente sottoposta.

    Una gestione così dilettantesca della politica di comunicazione successiva alla tragedia di Genova da rendere quasi inevitabile pensare che rappresenti invece la vera espressione del contenuto etico ed umano del gruppo stesso più che un semplice paradosso, comunque insostenibile, ed attribuibile alla mancanza di cultura complessiva.

     

  • 1998/1999 il disastro annunciato

    Dal 14 agosto in poi si sono lette ricostruzioni relative all’acquisizione da parte del gruppo Benetton della società autostrade abbastanza grossolane e soprattutto che non tengono conto della sequenza temporale che da sempre rappresenta un fattore fondamentale per comprendere il valore come le ragioni e gli effetti di determinate azioni politiche.
    Negli anni 90, dopo Mani Pulite, prese piede la teoria economica che vedeva nelle privatizzazioni, intese e vendute come “liberalizzazioni” ma che in realtà erano cessioni di Monopoli dal pubblico al privato, la possibilità di ridare slancio all’economia italiana. Una teoria che sarebbe potuta risultare valida per quei settori nei quali fossero evidenti le lacune manageriali della pubblica amministrazione non certo per un monopolio che macinava utili come autostrade.
    Tralasciamo la considerazione personale relativa al mondo accademico e a tutti gli economisti, i quali, probabilmente sperando di ottenere un Telepass gratis, appoggiarono tale sciacallaggio dello Stato non tanto perché le privatizzazioni non possono rappresentare una via percorribile ma perché le stesse privatizzazioni quando non vengono seguite da una diminuzione della spesa pubblica (si pensi solo al passaggio dei dipendenti da pubblici a privati) rappresentano solo una soluzione per coprire buchi della spesa pubblica (dato dal valore della vendita). In più, a parità di bilancio nell’anno successivo, significa la ulteriore possibilità di aumentare la spesa pubblica per i propri bacini elettorali.
    Nel 1998 cadde il governo Prodi che venne sostituito al governo D’Alema, quest’ultimo si rese protagonista di una serie di iniziative economiche degne di una classe politica priva di ogni competenza e strategia o ancora peggio complice di questa strategia finalizzata ad appropriarsi di volani positivi economici dello Stato.
    Il governo D’Alema, nella sua immensa competenza, partì con l’introduzione delle sale bingo (una priorità nella vita degli italiani), successivamente diede il proprio appoggio a Ricucci ed alla sua gang nella scalata al Corriere della Sera. Inoltre, non ancora sazio aprì alla scalata di Gnutti, Colaninno & Company a Telecom che distrusse una delle migliori aziende di telecomunicazioni del mondo ed in più vendette le autostrade al gruppo Benetton. Nello specifico, a fronte di una certa ritrosia nel gruppo di Ponzano, che veniva da 10 anni disastrosi di gestione di Sport System, che costava un centinaio di miliardi all’anno (siamo ancora con la lira), per ripianare le perdite dalla Benetton sport system l’allora ministro dell’economia Enrico Letta (altra competenza di primissimo piano) suggerì di inserire nel contratto la possibilità di aumentare i pedaggi non solo in rapporto agli interventi cantierari ma anche a quelli che si pensava sarebbero stati realizzati negli anni successivi. Questo rappresenta un caso unico al mondo nel quale un investimento infrastrutturale rientrò del capitale come degli interessi in soli cinque anni, il che dimostra le assolute condizioni di vantaggio a favore del concessionario offerte dallo Stato, cioè dal governo D’Alema e dal ministro Enrico Letta.
    Ecco quindi a chi vanno imputate le responsabilità della cessione di un monopolio che venne venduto come se rappresentasse il primo passaggio di una strategia di liberalizzazioni ma che altro non era che la vendita o meglio la concessione monopolistica legata allo sfruttamento di un asset, una volta dello Stato, diventato monopolio privato.
    Questa è la storia che ha portato il nostro paese ad un continuo aumento della spesa pubblica nonostante abbia venduto i propri asset fondamentali, produttori di reddito e di occupazione, da parte di una classe politica appoggiata dal mondo accademico e degli economisti a favore degli speculatori privati. Ovviamente con un sistema bancario che in questo ha visto la possibilità di trarre utili notevoli.
    La malefica triangolazione tra una classe politica priva di ogni scrupolo e di ogni competenza, il cui unico obiettivo risultava quello di realizzare profitti per sé stessi e per il proprio partito e creare nuove disponibilità per la spesa pubblica improduttiva e quindi clientelare; un gruppo imprenditoriale in crisi finanziaria che attraverso questa posizione poteva finalmente riequilibrare il proprio asset; ed ovviamente un sistema bancario che ha visto in questo modo la possibilità di trarre utili.
    Naturalmente gli effetti di tali operazioni, come per la Telecom, si sarebbero manifestati nei propri evidenti disastri dopo quindici/vent’anni.
    Nel frattempo i responsabili di tali disastri sono diventate figure quasi divinatorie, vere icone per i loro elettori da porre come esempio virtuoso all’attuale compagine politica, quando invece sono esponenti di quella classe politica per la quale lo Stato rappresentava ieri come oggi il mezzo per arricchire se stessi e la propria congrega invece di rappresentare il fine per applicare le proprie idee politiche di sviluppo.

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