Brexit

  • Il Parlamento inglese ratifica l’intesa Johnson-von der Leyen sull’addio alla Ue

    Partita chiusa e vittoria netta per il premier britannico Boris Johnson. Mercoledì 30 dicembre la Camera dei Comuni ha infatti approvato l’accordo commerciale post-Brexit tra Regno Unito e Ue con 521 voti favorevoli e 73 contrari. A sostenere il ‘deal’ una maggioranza schiacciante di 448 deputati, in modo compatto il partito conservatore del primo ministro, e i laburisti di Keir Starmer, con una pattuglia di ‘ribelli’ che non si sono allineati. Contrari, per ragioni diverse, gli indipendentisti scozzesi, i libdem, i partiti nordirlandesi e il gallese Plaid Cymru. Il provvedimento è stato così indirizzato, già in giornata, verso la promulgazione reale (royal assent) dopo un passaggio procedurale alla Camera dei Lord. E BoJo esulta, parlando di “nuovo capitolo” nella storia del Paese.

    L’estenuante maratona negoziale e politica (interna ed esterna al Regno) apertasi dopo il referendum del 2016 sull’addio all’Ue si è quindi conclusa con un accordo raggiunto in extremis e che riceve i fondamentali via libera, britannico ed europeo, a poche ore dalla fine del periodo di transizione post-Brexit. Se Westminster chiude in giornata i suoi lavori sul complesso dossier europeo, da Bruxelles arriva la firma al ‘deal’ dei presidenti del Consiglio Ue e della Commissione, Charles Michel e Ursula von der Leyen, per conto dei 27 leader europei. Lo stesso ha fatto Johnson a Downing Street, commentando così su Twitter: “Firmando questo accordo, soddisfiamo il desiderio sovrano del popolo britannico di vivere secondo le proprie leggi, stabilite dal proprio Parlamento eletto”. Mentre il Parlamento dell’Unione deve ancora ratificare il trattato ma il passaggio appare piuttosto scontato e non ci dovrebbero essere insidie lungo il cammino finale.

    Dal primo gennaio, quando la Brexit entrerà nella sua piena fase, la Gran Bretagna lavorerà a stretto contatto con l’Ue all’insegna di una “nuova relazione tra eguali”, ha assicurato il premier Tory, spiegando che si andrà avanti “mano nella mano ogni volta che i nostri valori e interessi coincideranno”. Ai parlamentari Johnson ha ricordato che l’accordo di libero scambio con Bruxelles è stato negoziato a una “velocità sorprendente”. In meno di un anno, in piena pandemia, “perché creare certezza sul nostro futuro offre le migliori possibilità di battere il Covid e di riprendersi in modo ancora più forte l’anno prossimo”, ha aggiunto il primo ministro. In termini politici, il premier Tory può vantare di aver mantenuto le promesse, arrivando a una intesa con l’Ue entro la fine del periodo di transizione. Intesa che trova se non il plauso almeno il sostegno dell’opposizione laburista, finita col dividersi (ancora una volta) in materia di Brexit. Il loro leader Starmer ha parlato di un accordo “con molti difetti” ma l’alternativa sarebbe stata quella di lasciare il mercato unico e l’unione doganale senza alcun ‘deal’, facendo salire i prezzi e mettendo a rischio le imprese. La ribellione interna al Labour ha proporzioni comunque limitate: 36 deputati astenuti e uno solo contrario. Di avviso opposto, invece, gli indipendentisti scozzesi dell’Snp, la seconda forza di opposizione ai Comuni, e da sempre su posizioni anti-Brexit. Il loro leader a Westminster, Ian Blackford, ha condannato l’accordo come “un atto di vandalismo economico” e ha attaccato i laburisti per non essersi opposti.

    I giochi comunque sono fatti e, come ha ricordato lo stesso Johnson nel suo intervento, è giunto il tempo della libertà, da un controllo legislativo esterno al Regno, ma anche della responsabilità, per quello che Londra potrà fare contando solo sulle sue forze.

  • Faida a Downing Street, cade lo spin doctor di Johnson

    Una faida che ha tutti gli ingredienti dello scontro interno per il potere, ma anche della pochade. Esplode la resa dei conti a Downing Street, al cuore del cerchio magico di Boris Johnson, nel pieno del lockdown nazionale bis imposto per frenare la seconda ondata d’una pandemia da coronavirus che ha appena fatto salire a oltre 50.000 il totale dei morti censiti nel Regno Unito: e a cadere per prima è la testa di Lee Cain, ex cronista di tabloid vicino da anni al premier conservatore britannico e veterano al suo fianco della vittoriosa campagna di Vote Leave al referendum sulla Brexit del 2016, dimessosi all’improvviso da direttore dell’ufficio stampa del governo quando era ormai a un passo dalla promozione annunciata a capo di gabinetto.

    Promozione inizialmente offertagli dallo stesso BoJo, ma avversata secondo i media dall’ambiziosa futura terza moglie del primo ministro, Carrie Symonds, madre da pochi mesi del piccolo Wilfred, la quale ha a sua volta alle spalle una carriera di rampante spin doctor nel nido di serpenti di casa Tory. Cain – azzoppato di recente dal sospetto fatto circolare dai rivali interni di aver spifferato a mezzo stampa i piani per il secondo confinamento prima del tempo – ha gettato la spugna con una lettera in cui ha evitato polemiche pubbliche, dicendosi “onorato” di aver potuto servire il governo. Mentre Johnson gli ha risposto ringraziandolo con un peana a tutto tondo. La vicenda sembra tuttavia poter indebolire Dominic ‘Dom’ Cummings, potente quanto controverso super consigliere ed eminenza grigia brexiteer di Downing Street, al quale Cain era legato a doppio filo. E con la cui copertura non aveva esitato nei mesi scorsi a sfidare l’ira dei giornalisti accreditati, facendo buttar fuori dal portoncino al numero 10 un pugno di reporter di testate “ostili” con un veto paragonato da più parti a una mossa alla Donald Trump.

    Cummings – a dar credito a Laura Kuenssberg, political editor della Bbc e insider dell’entourage johnsoniano – intende per ora resistere nel “braccio di ferro” con Carrie. E restare al suo posto, confidandosi insostituibile per un premier che non volle sacrificarlo nemmeno di fronte al clamoroso scandalo della violazione familiare delle regole del primo lockdown anti-coronavirus nella primavera passata. Ma per il Times il vero bersaglio della Symonds appare proprio lui, sullo sfondo di una partita sotterranea in gioco da tempo, non senza colpi bassi, con in palio in sostanza l’incoronazione di chi debba avere l’influenza decisiva su Boris (e sui destini del governo).

    Intanto Lee Cain sarà sostituito come Direttore della Comunicazione da James Slack, ex firma del Daily Mail e attuale portavoce del primo ministro, il cui ruolo è destinato a essere svuotato dalla cooptazione di Allegra Stratton nella veste di nuovo volto ufficiale dell’esecutivo per i futuri briefing tv concepiti sul modello Usa: ossia di un’ex giornalista Bbc “amica” – guarda caso – della 32enne first lady in pectore che BoJo, 56 anni, dovrebbe impalmare a maggio.

    La guerra intestina semina del resto imbarazzo e malcontento fra alcuni deputati conservatori, sempre meno a loro agio in questo clima da tardo impero. Mentre l’opposizione laburista coglie la palla al balzo per accusare il governo di mostrarsi “incompetente e diviso”, con consiglieri impegnati a “combattersi come ratti” per una promozione. “E’ patetico e infantile – twitta Angela Rayner, numero due del leader Keir Starmer in un Labour di nuovo in ascesa nei sondaggi – che questo succeda nel mezzo di una pandemia in cui il Paese ha raggiunto il traguardo tragico dei 50.000 morti

  • Gran Bretagna, la Camera di Comuni vota il piano Brexit di Boris Johnson

    I parlamentari britannici hanno approvato il controverso disegno di legge sul mercato interno (Withdrawal Agreement) che prevede di ignorare parti dell’accordo Brexit con l’UE. Il disegno di legge che stabilisce le regole per il funzionamento del mercato interno del Regno Unito – commercio tra Inghilterra, Scozia, Galles e Irlanda del Nord – dopo la fine del periodo di transizione della Brexit è passato alla Camera dei Comuni con 340 voti contro 256 e ora andrà alla Camera dei Lord.

    La legislazione conferisce al governo il potere di modificare alcune clausole dell’accordo di recesso dall’UE, un accordo giuridicamente vincolante che disciplina i termini della Brexit stipulato all’inizio di quest’anno. La Commissione europea ha minacciato di intraprendere azioni legali per la decisione. La decizione infatti mina le regole del commercio internazionale.

    Il periodo di transizione post-Brexit dovrebbe concludersi il 31 dicembre e si teme che le due parti potrebbero non riuscire a raggiungere un accordo (no deal).

    Preoccupazione è stata espressa da cinque ex Primi Ministri britannici – John Major, David Cameron, Theresa May, Tony Blair e Gordon Brown – secondo i quali il disegno di legge rischia di mettere seriamente a rischio la reputazione e l’affidabilità internazionale del Regno Unito.

  • I deputati minacciano di bloccare l’accordo commerciale UE-Regno Unito se Londra ne violerà le condizioni

    I legislatori europei minacciano di bloccare qualsiasi accordo commerciale con il Regno Unito a meno che quest’ultimo non ritiri i suoi piani ignorando gli elementi dell’accordo sulla Brexit e violando il diritto internazionale in maniera così diretta.

    “Se le autorità britanniche violano – o minacciano di violare – l’accordo di recesso, attraverso il disegno di legge sul mercato interno del Regno Unito nella sua forma attuale o in qualsiasi altro modo, il Parlamento europeo non ratificherà in nessun caso alcun accordo tra l’UE e l’UK”, hanno fatto sapere in una dichiarazione congiunta i leader dei gruppi politici del Parlamento europeo insieme ai membri del gruppo di coordinamento del Regno Unito (UKCG). Hanno aggiunto che l’organismo “non accetterà che la sua supervisione democratica venga frenata da un accordo dell’ultimo minuto oltre la fine di ottobre”, ribadendo anche l’appello del vicepresidente della Commissione, Maros Sefcovic, al governo del Regno Unito di ritirare queste misure dalla bozza di legge nel più breve tempo possibile, o si rischia il fallimento dei colloqui post Brexit.

    “La totale mancanza di rispetto dei termini dell’accordo di recesso violerebbe il diritto internazionale, minerebbe la fiducia e metterebbe a rischio i futuri negoziati sulle relazioni in corso”, ha affermato l’UE in una dichiarazione dopo un incontro di emergenza con il ministro britannico Michael Gove, a Londra, la scorsa settimana, aggiungendo che spetta al Regno Unito ricostruire questa fiducia.

    Una violazione dell’accordo potrebbe indurre l’UE a intraprendere un’azione legale contro il Regno Unito. Il governo britannico però, senza troppi giri di parole, ha dichiarato che non ritirerà il disegno di legge del primo ministro britannico Boris Johnson che sarà discusso lunedì prossimo alla Camera dei Comuni e, successivamente, ci sarà una votazione.

    Se i colloqui sono condotti solo dalla Commissione, il Parlamento europeo deve dare il suo assenso affinché qualsiasi accordo venga approvato.

  • L’accordo sulla Brexit ad ottobre è ancora possibile, lo afferma il ministro degli Esteri tedesco

    “Raggiungere un accordo tra la Gran Bretagna e l’Unione Europea sui loro futuri legami entro ottobre è ambizioso ma realizzabile”. E’ quanto ha dichiarato il ministro degli esteri tedesco, Heiko Maas, dopo l’inizio dei negoziati Brexit tra l’UE ed il Regno Unito. In precedenza, appena cominciato il semestre di presidenza tedesca dell’UE, Maas considerava la partita sulla Brexit “molto difficile e molto molto lenta” anche perché non c’è ancora certezza sulla direzione che gli inglesi vogliono intraprendere, e cioè, se vogliono o meno un accordo. La cancelliere Angela Merkel aveva già fatto sapere che avrebbe spinto per una “buona soluzione” entro l’autunno, durante la presidenza della Germania, ma che, tuttavia, l’UE deve essere preparata nel caso in cui i colloqui sull’accordo commerciale non andassero a buon fine e non venisse raggiunta un’intesa.

    Il primo ministro britannico Boris Johnson ha ripetutamente sottolineato che il Regno Unito non chiederà una proroga del periodo di transizione, che dovrebbe concludersi il 31 dicembre come è stato anche sancito dalla legge britannica.

  • La forma e la sostanza ora coincidono: Germania alla guida della Ue fino a fine anno

    Nei corridoi di Bruxelles e di Berlino la chiamano già “la presidenza Corona”. Quella della Germania sarà una presidenza del Consiglio Ue “completamente diversa” da quella che era stata programmata inizialmente. “Non sarà certo quella che avevamo preparato: abbiamo dovuto riprogrammare tutto”, ha spiegato alla vigilia una fonte diplomatica tedesca a Bruxelles.

    In ogni caso, per la prima potenza dell’Ue, che per sei mesi avrà la presidenza della Commissione e del Consiglio insieme, la “priorità” sarà “combattere la pandemia” di Covid-19 e le sue conseguenze economiche. Il successo o il fallimento della presidenza della Germania si misurerà su due dossier, che hanno la precedenza su tutti gli altri. Anzitutto, il pacchetto costituito dal Recovery Plan da 750 miliardi di euro e dall’Mff 2021-27, il bilancio pluriennale dell’Ue da 1.100 miliardi. E poi la Brexit che, anche se il Regno Unito è ormai uscito dall’Ue, continua a pendere come una spada di Damocle sul Vecchio Continente, perché alla crisi nera provocata dalla pandemia si aggiunge il rischio di una Brexit dura sul piano economico il 31 dicembre 2020, senza un accordo sulla relazione futura.

    Anche se è la premier più longeva del Continente e anche se la risposta alla pandemia le ha dato nuova forza politica, neppure Angela Merkel ha la bacchetta magica: “Ci sono troppe aspettative per la presidenza tedesca – spiega il diplomatico – se durante la presidenza avremo un accordo sul Recovery Plan e sull’Mff, questo per noi sarà un successo fantastico”. E “se avessimo anche un accordo” sulla relazione futura con il Regno Unito, sarebbe “magnifico”, ma anche in questo caso “bisogna essere in due per ballare il tango”. Per arrivare ad un accordo con Londra “serve maggiore realismo da parte britannica. Se avremo queste due cose, sarà un successo enorme”. Arrivare ad un accordo sul Recovery Plan e sull’Mff 2021-27 “è possibile”, ma “non sarà facile”, spiega il diplomatico. Le principali discussioni, che sono in corso, vertono sulla proporzione di trasferimenti e prestiti, con i Paesi Frugali (Olanda, Austria, Danimarca e Svezia) contrari ai primi, oppure inclini a ridurne l’entità (nella proposta sono 500 mld i trasferimenti e 250 miliardi i prestiti), ma anche sui criteri di allocazione delle risorse che, anche se suonano “tecnici”, determinano “quanto ciascuno prende dalla torta”.

    Si discute anche della condizionalità, cioè sul fatto che “se prendi i soldi fai le riforme”. Il presidente del Consiglio Europeo Charles Michel dovrebbe proporre presto una “negobox”, un pacchetto negoziale, dopodiché si discuterà “intensamente” fino al Consiglio Europeo del 17-18 luglio, quando la palla sarà nelle mani dei leader. “Speriamo che sia possibile” arrivare ad un accordo “al più tardi entro la fine del mese”, dice la fonte. Per il diplomatico “ci sono buone possibilità di avere un accordo già il 17-18 luglio. Forse occorrerà arrivare a domenica mattina, ma è possibile. Siamo ottimisti”. Un accordo entro luglio è necessario, perché poi occorre negoziare con il Parlamento, che può bocciare il bilancio. Oggi il presidente della commissione Bilanci del Parlamento Johann van Overtveldt ha avvertito che l’Aula non si lascerà schiacciare da una fretta dovuta ai ritardi del Consiglio.

    Per quanto riguarda invece la Brexit, o meglio l’accordo sulla relazione futura tra Ue e Regno Unito, che a fine anno uscirà da mercato unico e unione doganale, gli scogli sono il “level playing field”, cioè la concorrenza leale, ossia le condizioni alle quali le imprese britanniche potranno accedere al mercato unico, la pesca e la governance, incluso il ruolo della Corte di Giustizia Ue.

    Questi sono i punti “più difficili”, spiega il diplomatico. Ma non dipende tutto dall’Ue, né dalla Germania: per arrivare ad un accordo occorrerà “un approccio più pragmatico e meno ideologico” da parte del Regno Unito. Un’intesa deve essere trovata entro il Consiglio Europeo di ottobre, al più tardi entro l’inizio di novembre, per permettere le ratifiche parlamentari.

    Sul dossier migrazioni, che è diventato “tossico”, è inutile aspettarsi miracoli: “Non riusciremo a chiudere il file – prevede il diplomatico – se riusciremo a mettere un po’ di movimento nella discussione” sarà già un successo, “vista la situazione”.

    Bene ha fatto la Commissione, con una mossa “intelligente”, a rimandare la presentazione della riforma del sistema Ue di asilo a dopo l’accordo sul Recovery Plan. Una volta incassata l’intesa, allora “daremo un’occhiata al dossier, ma non mi aspetto che saremo in grado di chiuderlo”, dice la fonte.

    Mentre si sono già fatti grandi “progressi” sulla legge europea sul clima, sarà più complicato, anche a causa della pandemia, organizzare la conferenza sul futuro dell’Europa. Si pensa ad una soluzione mista, in parte conferenza fisica in parte on line, “forse a Bruxelles e a Strasburgo, forse negli Stati membri”. La conferenza si dovrebbe tenere, ma “quando è difficile da dire”. Se non arriverà una vera “seconda ondata” di Covid-19, potrebbe svolgersi nella “seconda metà della presidenza tedesca, cioè tra ottobre e dicembre. Un altro “tema complicato” che emergerà sarà la digital tax, anche se in vista delle elezioni presidenziali Usa non ci si aspetta una guerra commerciale.

    La presidenza tedesca sarà segnata da difficoltà operative dovute alla pandemia di Covid-19, come già quella croata. Il Consiglio Europeo del 17-18 luglio dovrebbe essere il “primo incontro fisico” nel Consiglio da marzo. Al massimo, gli incontri fisici nel Consiglio potranno essere portati al 30% del livello normale, ma non oltre, a causa del distanziamento sociale. Si rimedia con le videoconferenze che però, per il lavoro diplomatico, non sono l’ideale. “Abbiamo calcolato che sono efficienti il 20% di un incontro fisico”, spiega il diplomatico, perché non è possibile negoziare faccia a faccia, cosa indispensabile per arrivare ad un vero compromesso. Inoltre, “c’è un problema di riservatezza”, dato che la confidenzialità è difficile da garantire nel formato digitale. Persino a livello di capi di Stato e di governo “vediamo che le cose escono sulla stampa in tempo reale”. E questo “è un problema”. Senza contare le difficoltà che tutti hanno sperimentato durante il lockdown, cioè i problemi tecnici, con le disconnessioni, le difficoltà di comunicazione audio, i microfoni che non funzionano, i “can you hear me?”. In ogni caso, “dovremo convivere con tutto questo”. Senza contare che, Dio non voglia, potrebbe arrivare “una vera seconda ondata” e, in quel caso, si dovrebbe ritornare “al punto di partenza”, cioè al formato 100% digitale.

  • Boris Johnson programma colloqui sulla Brexit con la Presidente della Commissione Ursula von der Leyen

    Il Primo Ministro britannico Boris Johnson ha in programma nuovi colloqui sulla Brexit con la Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, nel tentativo di raggiungere un accordo commerciale prima dell’autunno.

    Intanto il principale negoziatore della Brexit per l’UE, Michel Barnier, ha invitato il Regno Unito a “mostrare più realismo” nei colloqui commerciali, se il Paese punta a raggiungere un accordo post-Brexit. Parlando al quotidiano The Times, Barnier ha infatti sottolineato che il Premier Johnson dovrebbe “ricordare” le promesse fatte nella Dichiarazione politica, poiché “il Regno Unito ha fatto tre passi indietro rispetto agli impegni assunti in origine”. Il negoziatore dell’UE ha spesso invitato le due parti a trovare un accordo commerciale dato che la pandemia di Coronavirus ha ritardato i colloqui bilaterali e il periodo di transizione dovrebbe concludersi il 31 dicembre.

    Martedì intanto le due parti hanno partecipato alla quarta tornata di negoziati sulla relazione post-Brexit, poiché i colloqui precedenti hanno portato a una situazione di stallo nei settori chiave. Indiscrezioni dicono però che nessuna delle due parti si aspetta una “svolta” nei colloqui, confidando in un incontro di “alto livello” nel corso del mese che potrebbe sbloccare l’enigma post Brexit.

  • Londra giudica inevitabili controlli doganali per l’Irlanda del Nord dopo la Brexit

    Il governo britannico ha ammesso che sarà necessario effettuare controlli doganali su determinate merci tra l’isola della Gran Bretagna e la regione britannica dell’Irlanda del Nord alla fine del periodo di transizione post-Brexit. “Non ci saranno nuove infrastrutture doganali fisiche e non vediamo la necessità di costruirle”, ha affermato il governo di Boris Johnson pubblicando la sua posizione sul protocollo tra l’Irlanda del Nord e la vicina Repubblica d’Irlanda, negoziato nell’ambito del divorzio con l’Ue. “Tuttavia, espanderemo alcuni punti di accesso esistenti per i prodotti agroalimentari al fine di stabilire controlli aggiuntivi”, ha spiegato.

    Il protocollo irlandese mira a prevenire il ritorno di un confine fisico sull’isola d’Irlanda, dopo l’uscita britannica dall’Ue, che potrebbe minacciare la fragile pace raggiunta dopo tre decenni di sanguinosi conflitti grazie all’accordo del Venerdì Santo del 1998.

    Il ministro Michael Gove ha assicurato ai deputati che qualsiasi controllo sarà “assolutamente minimo”. “Tutto sarà fatto elettronicamente”, ha precisato. A novembre, il premier Johnson aveva garantito agli imprenditori irlandesi, spiegando l’accordo sulla Brexit negoziato con Bruxelles, che non vi sarebbero stati controlli sulle merci tra la Gran Bretagna e la regione britannica. Gove ha anche confermato che l’Irlanda del Nord rimarrà in linea con una serie di norme dell’Ue, anche in materia di salute, almeno fino al 2024.

  • Anche i marmi del Partenone di Atene nelle trattative sull’implementazione della Brexit

    Anche la cultura finisce al centro del confronto post-Brexit fra Regno Unito ed Europa. In particolare la questione che da tempo divide Londra e Atene: la restituzione dei marmi del Partenone, conservati da oltre duecento anni al British Museum nella capitale britannica.

    La stampa anglosassone ha rilanciato allarmata la notizia di una bozza di intesa redatta dai diplomatici di Bruxelles in vista delle trattative post-divorzio che devono aprirsi a marzo e nella quale è contenuta una clausola a protezione di “oggetti culturali rimossi illegalmente nei loro Paesi di origine”. E’ in particolare il Times che sottolinea come i colloqui sull’accordo commerciale potrebbero essere utilizzati dal governo greco per portare avanti la causa della restituzione, sempre sentita come motivo di orgoglio nazionale. Immediatamente a Londra si è pensato a un modo per riaprire la vecchia diatriba legale ellenico-britannica e il governo conservatore del premier Boris Johnson ha ‘alzato le barricate’ a scanso di ogni equivoco.

    Un portavoce di Downing Street si è affrettato a precisare che la bozza è ancora in fase di definizione e soprattutto ha escluso che i celebri marmi recuperati da Lord Elgin all’inizio del 1800 possano rientrare all’interno delle trattative con l’Ue. Anche fonti diplomatiche di Bruxelles hanno confermato che la clausola non riguarderebbe i tesori artistici arrivati dalla Grecia, ma è rivolta a contrastare il commercio illegale di antichità.

    Le opere – di cui Atene chiede di tornare in possesso dal 1981, quando era ministro della Cultura l’attrice Melina Mercouri – sono 15 metope, 56 bassorilievi di marmo e 12 statue (quasi l’intero frontone Ovest del tempio), oltre a una delle sei cariatidi del tempietto dell’Eretteo. I marmi, che ornavano il tempio di Athena Parthenos (vergine), gioiello architettonico del V secolo a.C., furono asportati e trafugati fra il 1802 e il 1811 da Lord Thomas Bruce Elgin, allora ambasciatore britannico presso la Sublime Porta, e venduti al British Museum nel 1816 per 35mila sterline oro dell’epoca.

    L’istituzione museale di Londra ha sempre ribadito il suo diritto di possedere le opere al centro della diatriba. Diatriba che ha avuto una serie di capitoli: Atene ha prima tentato le vie legali, per poi concentrarsi su un’offensiva più politica e diplomatica. La Gran Bretagna ha sempre risposto con un secco ‘no’ alle richieste di restituzione in arrivo dalla Grecia e la sua posizione è difficile che cambi in particolare dopo il divorzio dall’Ue.

  • Cambia il numero e la distribuzione dei seggi al Parlamento europeo dopo la Brexit

    Dal 1° febbraio il Parlamento europeo ha 705 seggi, rispetto ai 751 (il massimo consentito dai trattati UE) precedenti al ritiro del Regno Unito dall’UE, il 31 gennaio 2020. Dei 73 seggi del Regno Unito, 27 sono stati ridistribuiti ad altri Paesi, mentre i restanti 46 sono posti in riserva per eventuali futuri allargamenti. I deputati entranti sono stati eletti alle Elezioni europee del maggio 2019.

    A seconda delle procedure nazionali, alcuni nomi sono già stati confermati, mentre altri sono ancora in attesa di notifica.

    La ridistribuzione dei seggi assicura che nessun paese dell’UE perda alcun deputato, mentre alcuni paesi guadagnano da uno a cinque seggi, per far fronte alla sotto-rappresentazione dovuta ai cambiamenti demografici. La nuova distribuzione tiene conto delle dimensioni della popolazione degli Stati membri e della necessità di un livello minimo di rappresentanza per quelli più piccoli.

    Il principio di “proporzionalità degressiva” significa che i paesi più piccoli hanno meno deputati rispetto ai paesi più grandi, ma anche che i deputati di un paese più grande rappresentano più elettori, rispetto ai loro omologhi dei paesi più piccoli.

    Il Parlamento continuerà a influenzare i negoziati UE-Regno Unito per le future relazioni, mentre la Brexit avrà un impatto anche sulla composizione delle commissioni e delle delegazioni interparlamentari.

     

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